Petrolio in mare…non sempre è colpa nostra!

Scritto da:
Ubaldo Betocchi
Durata:
1 minuto

Non tutto il petrolio che si riversa annualmente nel mare è causato da azioni antropiche: al di sotto del Golfo del Messico, a sud di Texas e Louisiana, minuscole bolle di petrolio e gas naturale si fanno strada verso l’alto attraverso i sedimenti marini. In prossimità del fondo, questi idrocarburi devono superare ancora uno strato pullulante di esotiche forme di vita prima di trasudare nell’acqua marina. Essendo più leggere dell’acqua, queste bolle risalgono in sottili e sinuosi pennacchi, fino a raggiungere la superficie. Qui il gas si disperde nell’atmosfera, mentre il petrolio viene spinto alla deriva dal vento, evapora, si mescola con l’acqua e finisce col disperdersi del tutto. La perdita di idrocarburi dal fondo marino produce effetti visibili estremamente simili a quelli di un lavaggio abusivo di cisterne in mare. Ma, nonostante l’apparente somiglianza, il fenomeno è una conseguenza naturale delle condizioni geologiche che fanno del Golfo del Messico uno dei più grandi bacini petroliferi del mondo. Il petrolio che trasuda dal fondo del Golfo del Messico, come quello di qualunque altra regione, si forma perché il calore interno della Terra «cuoce» costantemente i materiali organici racchiusi nella roccia sedimentaria.Col tempo, gli idrocarburi formatisi in questo modo risalgono dagli strati più profondi fino a rimanere imprigionati in arenarie porose, scisti fratturati o resti calcarei di antiche barriere coralline. Oltre ad avere in abbondanza rocce madri e «trappole» geologiche per racchiudere il petrolio che migra, il Golfo del Messico è speciale per un altro motivo: in esso è presente un antico strato salino formato durante i ripetuti episodi di evaporazione che si verificarono nel Giurassico, circa 170 milioni di anni fa. Il sale cristallino è malleabile, ma relativamente incompressibile; nel corso dei tempi geologici, il peso dei sedimenti lo ha forzato a spostarsi verso l’alto e verso l’esterno, provocando la formazione di strutture dagli aspetti più disparati. Alcune di queste strutture restano in contatto con il letto originario, altre si muovono come corpi separati attraverso il sedimento circostante. La tettonica del sale condiziona in vari modi la migrazione di idrocarburi. Per esempio, il sale è impermeabile e può efficacemente fungere da coperchio per intrappolare idrocarburi. Inoltre il suo movimento può aprire grandi faglie che si estendono dai giacimenti a grande profondità fino alla superficie, costituendo varchi attraverso i quali il petrolio può farsi strada verso l’alto. La presenza di tali strutture rende il Golfo del Messico una regione dalle caratteristiche uniche che non a caso, nella storia dell’industria petrolifera, ha avuto un rilievo preponderante. La produzione «offshore» di petrolio e gas naturale fu inaugurata proprio nel Golfo, quando le prime piattaforme furono costruite a sud della Louisiana nel 1947. Negli anni successivi, le operazioni di trivellazione si spostarono a distanza crescente dalla riva via via che i progressi tecnici permettevano lo sfruttamento di giacimenti in fondali sempre più alti. I riversamenti naturali di petrolio possono essere una fortuna per gli oceanografi che tentano di seguire nel dettaglio la circolazione marina o per le compagnie petrolifere in cerca di nuovi giacimenti da sfruttare; ma non costituiscono forse una seria minaccia per la vita marina? Quando l’esistenza delle emissioni naturali di petrolio nel Golfo del Messico cominciò a essere ampiamente riconosciuta, durante gli anni ottanta, i ricercatori pensarono che la fauna vivente attorno agli sbocchi potesse essere considerata un analogo naturale della vita marina esposta all’inquinamento causato dall’uomo. Per raccogliere alcuni di questi campioni presumibilmente «malati», essi trascinarono reti da pesca al di sopra degli sbocchi attivi. Quando recuperarono la rete, trassero a bordo oltre 800 chilogrammi di un’insolita specie di molluschi, Calyptogena ponderosa. Stranamente, questo bivalve di grandi dimensioni, che necessita di quantità considerevoli di nutrimento, veniva recuperato da profondità a cui la vita è di norma alquanto scarsa. Inoltre, presi nella rete a decine, si trovavano fusti fibrosi di colore bruno. Questi oggetti erano così poco consueti che i ricercatori furono sul punto di gettarli a mare, pensando che si trattasse di detriti vegetali terrestri trasportati da una piena del Mississippi e sedimentati sul fondo del Golfo. Ma un membro dell’equipaggio pensò che quel materiale potesse essere utile per intrecciare canestri. Nello scegliere i pezzi più adatti, ne ruppe alcuni, e la vista di una rossa linfa simile a sangue che si spandeva sul ponte della nave fece comprendere come ci si fosse imbattuti in qualcosa di totalmente inatteso. Nei mesi e negli anni seguenti, iniziò a emergere una storia assai interessante. Gli idrocarburi che filtrano dal fondo marino costituiscono una fonte di energia chimica che alimenta creature simili alla fauna scoperta per la prima volta in corrispondenza delle bocche idrotermali dell’Oceano Pacifico nel 1977. Anellidi tubicoli (i «fusti fibrosi»), bivalvi giganti e un particolare mitilo prosperano in entrambi gli habitat grazie alla loro simbiosi con batteri endocellulari, che sintetizzano nuovo materiale organico anche in assenza di luce solare utilizzando l’energia derivante dall’ossidazione di composti ridotti come l’acido solfidrico. Oggi sappiamo che ecosistemi di questo tipo esistono in svariate parti del Golfo. Fatto interessante, alcune delle attività biologiche che si verificano in corrispondenza degli sbocchi di idrocarburi tendono a sigillare i pori e le fessure attraverso cui filtrano gli idrocarburi stessi. I sottoprodotti del metabolismo batterico, in particolare, causano la precipitazione di carbonato di calcio, e ciò talvolta conduce alla formazione di «pavimenti» in grado di intrappolare il petrolio. La formazione dei cosiddetti gas idrati sul fondo marino può altresì tappare gli sbocchi attivi di gas. Quanto petrolio si riversa naturalmente nel Golfo del Messico? Assumendo, per fare un calcolo prudente, che una singola striscia abbia una larghezza di circa 100 metri e che mantenga uno spessore medio di 0,1 micrometri per una decina di chilometri, essa conterrebbe circa 100 litri di petrolio. Una striscia del genere, in mancanza di alimentazione, dura meno di 24 ore: pertanto, se essa rimane in equilibrio, ciò significa che la sua sorgente sta erogando 100 litri al giorno. Valutando, ancora prudentemente, che in ogni momento vi sia almeno un centinaio di queste emissioni, si può calcolare che in un decennio si riversino nel Golfo quasi 40 milioni di litri. Volendo fare un confronto l’incagliamento della Exxon Valdez, che viene considerato il più grave tra i disastri ecologici causati da incidenti a petroliere (prima del recente incidente proprio nel golfo del Messico), disperse più o meno la stessa quantità di petrolio nel Prince William Sound in Alaska. Si rimane quindi sbalorditi nel considerare che i riversamenti nel Golfo del Messico continuano da un milione di anni o più. Evidentemente, l’ecosistema è stato in grado di far fronte a un cronico inquinamento di petrolio ben prima che fosse coniato il termine «inquinamento». Nel Golfo del Messico, e probabilmente anche in altre parti del mondo, le perdite naturali occorse nei millenni equivalgono almeno alla quantità di idrocarburi finora estratta dall’industria petrolifera. Ma se anche le quantità complessive sono equivalenti per ordine di grandezza, i tassi di estrazione non lo sono affatto. Rispetto alla natura, l’umanità ha una fretta tremenda di estrarre dalle viscere della Terra tutto il petrolio possibile. Questa differenza spiega perché un riversamento naturale di petrolio non sia equivalente a un incidente di petroliera, anche se le quantità in gioco possono essere identiche. L’esistenza dei riversamenti naturali di petrolio in mare non rende in alcun modo meno grave l’inquinamento per cause non naturali. Mentre alcuni riversamenti di petrolio possono essere devastanti, altri vanno considerati come eventi non nocivi e perfino benefici per l’ambiente marino naturale.

Petrolio in mare…non sempre è colpa nostra!
Non tutto il petrolio che si riversa annualmente nel mare è però causato da azioni
antropiche: al di sotto del Golfo del Messico, a sud di Texas e Louisiana, minuscole bolle
di petrolio e gas naturale si fanno strada verso l’alto attraverso i sedimenti marini. In
prossimità del fondo, questi idrocarburi devono superare ancora uno strato pullulante di
esotiche forme di vita prima di trasudare nell’acqua marina. Essendo più leggere
dell’acqua, queste bolle risalgono in sottili e sinuosi pennacchi, fino a raggiungere la
superficie. Qui il gas si disperde nell’atmosfera, mentre il petrolio viene spinto alla deriva
dal vento, evapora, si mescola con l’acqua e finisce col disperdersi del tutto. La perdita di
idrocarburi dal fondo marino produce effetti visibili estremamente simili a quelli di un
lavaggio abusivo di cisterne in mare. Ma, nonostante l’apparente somiglianza, il fenomeno
è una conseguenza naturale delle condizioni geologiche che fanno del Golfo del Messico
uno dei più grandi bacini petroliferi del mondo.
Il petrolio che trasuda dal fondo del Golfo del Messico, come quello di qualunque altra
regione, si forma perché il calore interno della Terra «cuoce» costantemente i materiali
organici racchiusi nella roccia sedimentaria. Col tempo, gli idrocarburi formatisi in questo
modo risalgono dagli strati più profondi fino a rimanere imprigionati in arenarie porose,
scisti fratturati o resti calcarei di antiche barriere coralline. Oltre ad avere in abbondanza
rocce madri e «trappole» geologiche per racchiudere il petrolio che migra, il Golfo del
Messico è speciale per un altro motivo: in esso è presente un antico strato salino formato
durante i ripetuti episodi di evaporazione che si verificarono nel Giurassico, circa 170
milioni di anni fa. Il sale cristallino è malleabile, ma relativamente incompressibile; nel
corso dei tempi geologici, il peso dei sedimenti lo ha forzato a spostarsi verso l’alto e verso
l’esterno, provocando la formazione di strutture dagli aspetti più disparati. Alcune di queste
strutture restano in contatto con il letto originario, altre si muovono come corpi separati
attraverso il sedimento circostante. La tettonica del sale condiziona in vari modi la
migrazione di idrocarburi. Per esempio, il sale è impermeabile e può efficacemente
fungere da coperchio per intrappolare idrocarburi. Inoltre il suo movimento può aprire
grandi faglie che si estendono dai giacimenti a grande profondità fino alla superficie,
costituendo varchi attraverso i quali il petrolio può farsi strada verso l’alto. La presenza di
tali strutture rende il Golfo del Messico una regione dalle caratteristiche uniche che non a
caso, nella storia dell’industria petrolifera, ha avuto un rilievo preponderante. La
produzione «offshore» di petrolio e gas naturale fu inaugurata proprio nel Golfo, quando le
prime piattaforme furono costruite a sud della Louisiana nel 1947. Negli anni successivi, le
operazioni di trivellazione si spostarono a distanza crescente dalla riva via via che i
progressi tecnici permettevano lo sfruttamento di giacimenti in fondali sempre più alti.
I riversamenti naturali di petrolio possono essere una fortuna per gli oceanografi che
tentano di seguire nel dettaglio la circolazione marina o per le compagnie petrolifere in
cerca di nuovi giacimenti da sfruttare; ma non costituiscono forse una seria minaccia per la
vita marina? Quando l’esistenza delle emissioni naturali di petrolio nel Golfo del Messico
cominciò a essere ampiamente riconosciuta, durante gli anni ottanta, i ricercatori
pensarono che la fauna vivente attorno agli sbocchi potesse essere considerata un
analogo naturale della vita marina esposta all’inquinamento causato dall’uomo. Per
raccogliere alcuni di questi campioni presumibilmente «malati», essi trascinarono reti da
pesca al di sopra degli sbocchi attivi. Quando recuperarono la rete, trassero a bordo oltre
800 chilogrammi di un’insolita specie di molluschi, Calyptogena ponderosa. Stranamente,
questo bivalve di grandi dimensioni, che necessita di quantità considerevoli di nutrimento,
veniva recuperato da profondità a cui la vita è di norma alquanto scarsa. Inoltre, presi nella
rete a decine, si trovavano fusti fibrosi di colore bruno. Questi oggetti erano così poco
consueti che i ricercatori furono sul punto di gettarli a mare, pensando che si trattasse di
detriti vegetali terrestri trasportati da una piena del Mississippi e sedimentati sul fondo del
Golfo. Ma un membro dell’equipaggio pensò che quel materiale potesse essere utile per
intrecciare canestri. Nello scegliere i pezzi più adatti, ne ruppe alcuni, e la vista di una
rossa linfa simile a sangue che si spandeva sul ponte della nave fece comprendere come
ci si fosse imbattuti in qualcosa di totalmente inatteso.
Nei mesi e negli anni seguenti, iniziò a emergere una storia assai interessante. Gli
idrocarburi che filtrano dal fondo marino costituiscono una fonte di energia chimica che
alimenta creature simili alla fauna scoperta per la prima volta in corrispondenza delle
bocche idrotermali dell’Oceano Pacifico nel 1977. Anellidi tubicoli (i «fusti fibrosi»), bivalvi
giganti e un particolare mitilo prosperano in entrambi gli habitat grazie alla loro simbiosi
con batteri endocellulari, che sintetizzano nuovo materiale organico anche in assenza di
luce solare utilizzando l’energia derivante dall’ossidazione di composti ridotti come l’acido
solfidrico.
Oggi sappiamo che ecosistemi di questo tipo esistono in svariate parti del Golfo. Fatto
interessante, alcune delle attività biologiche che si verificano in corrispondenza degli
sbocchi di idrocarburi tendono a sigillare i pori e le fessure attraverso cui filtrano gli
idrocarburi stessi. I sottoprodotti del metabolismo batterico, in particolare, causano la
precipitazione di carbonato di calcio, e ciò talvolta conduce alla formazione di «pavimenti»
in grado di intrappolare il petrolio. La formazione dei cosiddetti gas idrati sul fondo marino
può altresì tappare gli sbocchi attivi di gas. Quanto petrolio si riversa naturalmente nel
Golfo del Messico? Assumendo, per fare un calcolo prudente, che una singola striscia
abbia una larghezza di circa 100 metri e che mantenga uno spessore medio di 0,1
micrometri per una decina di chilometri, essa conterrebbe circa 100 litri di petrolio. Una
striscia del genere, in mancanza di alimentazione, dura meno di 24 ore: pertanto, se essa
rimane in equilibrio, ciò significa che la sua sorgente sta erogando 100 litri al giorno.
Valutando, ancora prudentemente, che in ogni momento vi sia almeno un centinaio di
queste emissioni, si può calcolare che in un decennio si riversino nel Golfo quasi 40 milioni
di litri. Volendo fare un confronto l’incagliamento della Exxon Valdez, che viene
considerato il più grave tra i disastri ecologici causati da incidenti a petroliere (prima del
recente incidente proprio nel golfo del Messico), disperse più o meno la stessa quantità di
petrolio nel Prince William Sound in Alaska. Si rimane quindi sbalorditi nel considerare che
i riversamenti nel Golfo del Messico continuano da un milione di anni o più.
Evidentemente, l’ecosistema è stato in grado di far fronte a un cronico inquinamento di
petrolio ben prima che fosse coniato il termine «inquinamento».
Nel Golfo del Messico, e probabilmente anche in altre parti del mondo, le perdite naturali
occorse nei millenni equivalgono almeno alla quantità di idrocarburi finora estratta
dall’industria petrolifera. Ma se anche le quantità complessive sono equivalenti per ordine
di grandezza, i tassi di estrazione non lo sono affatto. Rispetto alla natura, l’umanità ha
una fretta tremenda di estrarre dalle viscere della Terra tutto il petrolio possibile. Questa
differenza spiega perché un riversamento naturale di petrolio non sia equivalente a un
incidente di petroliera, anche se le quantità in gioco possono essere identiche.
L’esistenza dei riversamenti naturali di petrolio in mare non rende in alcun modo meno
grave l’inquinamento per cause non naturali. Mentre alcuni riversamenti di petrolio
possono essere devastanti, altri vanno considerati come eventi non nocivi e perfino
benefici per l’ambiente marino naturale.

Ubaldo Betocchi