Identificata la firma biologica della sindrome da fatica cronica 

Scritto da:
Leonardo Debbia
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1 minuto

La sindrome da stanchezza cronica o CFS (acronimo di Chronic Fatigue Sindrome) è una condizione di estremo disagio fisico, un grave stato di affaticamento che si protrae nel tempo, spesso accompagnato da febbricola, linfonodi, dolori muscolari, mal di testa; da una sintomatologia alquanto variegata, comune a più malattie.

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Non compresa fino alla metà degli anni Novanta, quando ad Atlanta, USA, vennero definiti i primi criteri-guida per il suo riconoscimento, la CFS è riconosciuta oggi come una vera e propria patologia alquanto invalidante e viene studiata e descritta in numerosi studi da vari ricercatori un po’ ovunque nel mondo, ma dall’origine che rimane ancora sconosciuta, per cui nessuna cura si è mostrata risolutiva.

Giunge ora dagli Stati Uniti la notizia che un team di ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università della California S. Diego, diretto dal genetista Robert K. Naviaux, utilizzando svariate tecniche  per identificare e valutare i metaboliti del plasma sanguigno, ha individuato una firma caratteristica per questa patologia, scoprendo una biologia del tutto inaspettata.

Per gli studiosi statunitensi la sindrome sarebbe paragonabile allo ‘stato di Dauer’ e ad altre sindromi ipometaboliche, quali, ad esempio, diapausa (stasi dello sviluppo embrionale di alcune larve di insetti) e ibernazione (Stato di rallentamento metabolico tipico anche di alcuni mammiferi).

‘Dauer’ è una parola tedesca che sta per ‘persistenza’ o ‘durata’ e viene usata per indicare un tipo di stasi nello sviluppo della vita animale, indotta da condizioni ambientali difficili.

I risultati dello studio relativo sono stati resi noti sulla rivista on line Proceedings National Academy Science (PNAS).

I ricercatori avrebbero individuato nei pazienti 20 processi metabolici interessati da una diminuzione della loro efficienza.

La sindrome sarebbe quindi paragonabile ad una sorta di sospensione, sia pure parziale, del metabolismo, la prima osservata nell’organismo umano.

Una simile condizione è stata riscontrata, come detto sopra, in alcuni animali, compreso quelli superiori, che acquistano, in questo modo, la capacità di sopportare uno stress ambientale cui vengono occasionalmente sottoposti.

E’ evidente che una simile scoperta, se confermata da ulteriori ricerche, sarebbe determinante ai fini diagnostici di una patologia che finora sfugge ai tentativi di una corretta formulazione.

E’ la prima volta che viene trovata una ‘firma’ biologica così indicativa.

Robert K. Naviaux e il suo team hanno esaminato 84 soggetti, ripartiti in 45 pazienti, tra uomini e donne, affetti da CFS e 39 persone sane.

I ricercatori hanno analizzato 612 metaboliti (sostanze prodotte dal metabolismo) presenti nel plasma sanguigno. Dal confronto tra pazienti e soggetti sani è emerso che nelle persone affette dalla sindrome, 20 metaboliti presentavano anomalie rispetto alle persone sane.

L’80 per cento delle sostanze coinvolte mostrava una diminuzione del livello ematico, coerenti con la sindrome ipometabolica o metabolismo ridotto, indicando una chiara carenza di efficienza metabolica nell’organismo.

In particolare è risultato alterato il metabolismo di sfingolipidi, fosfolipidi, glicosfingolipidi, colesterolo, prolina, drossiprolina e arginina.

“Nonostante l’eterogeneità dei fattori che portano a questa condizione patologica e che spiegano la varietà della sintomatologia della sindrome, i nostri risultati mostrano che nei pazienti la risposta cellulare è sempre la stessa”, afferma Naviaux. “E’ interessante aver evidenziato questo stato, chimicamente simile allo stato Dauer che si osserva in alcuni organismi e che entra in gioco quando gli stress ambientali costituiscono una seria minaccia  per la sopravvivenza dell’organismo in condizioni che potrebbero portare alla morte delle cellule. Nella CFS questo rallentamento avviene producendo dolore a lungo termine e disabilità”.

Lo studio del dr Naveaux riveste una importanza rilevante ai fini diagnostici perché consente di capire come possano agire i meccanismi di questa patologia finora avvolta nel mistero,  dischiudendo uno spiraglio sulle possibili terapie da intraprendersi.

Ovviamente, lo studio necessita di conferme che si troveranno solo indagando su un numero più ampio di casi.

 Leonardo Debbia