La signora Darwin: dietro un grande uomo si nasconde una donna eccezionale

Presente nella vita di Charles Darwin come amante, sposa, compagna di vita e consigliera, la figura di Emma Wedgwood sta sempre di più diventando centrale nell’ormai famosa vita del marito. Dietro lettere, racconti e dirette testimonianze lasciate dal naturalista inglese, si sono scoperti i ruoli che la moglie ebbe durante la sua vita. Di supporto impareggiabile nella vita coniugale e lavorativa, la saggezza di Emma racchiude in sè l’evoluzione di un’epoca e di una persona che ha saputo vivere con amore ed umiltà.  

Charles Robert Darwin è considerato una delle figure più importanti nella storia inglese. Secondo uno studio della BBC, infatti, come notorietà occupa il quarto posto tra i personaggi inglesi, dopo Winston Churchill, I. K. Brunel e Lady Diana. La motivazione di questa fama sta nell’attualità delle sue teorie, che ancora oggi offrono spunti di riflessione per studiosi di svariati campi. Dietro ai suoi successi di vita accademica, però, si nasconde una figura fondamentale nella vita privata, tanto importante da influenzarne il pensiero: Emma Wedgwood, sua moglie.

Donna di straordinaria saggezza, cultura e spessore morale, fu in grado di supportare il marito in numerosissime parti della sua vita. Tra queste, nell’ambito professionale si inscenò un vero e proprio psicodramma, in cui la fede della donna si scontrava con le idee rivoluzionarie del naturalista inglese. Tuttavia, queste venivano costantemente revisionate da Emma, che leggeva con attenzione e “piacere” i lavori che il marito le sottoponeva. Considerando che secondo Niels Eldredge (noto paleontologo Statunitense) sviluppare gli scritti comporta uno sviluppo del pensiero stesso, è dunque indubbia l’importanza che la figura di Emma Wedgwood ebbe nella vita di Charles Darwin.

1: Anne Elizabeth (Annie) Darwin, la figlia preferita la cui morte causò immenso dolore nella famiglia. (© Cambridge University Library, CUL DAR 225: 165)

Lo spessore della donna, tuttavia, va contestualizzato alla famiglia a cui apparteneva. I Wedgwood erano molto potenti (grazie all’industria delle ceramiche) e diedero ad Emma la possibilità di crescere dal punto di vista intellettuale, occasione che le donne dell’800 non avevano spesso. Con Emma, oggi, si può dunque pensare ad una vera e propria rivoluzione sociale, in cui la donna diventa importante in un contesto intellettuale di spessore. Questo fu anche garantito dal circolo di intellettuali di cui la famiglia Wedgwood amava circondarsi e dai numerosi viaggi all’estero che permetteva di far fare alle figlie. Un’influenza sociale potente, inoltre, che permise al all’or giovane naturalista di intraprendere il suo viaggio sul Beagle, convincendo il padre scettico a lasciarlo partire nel 1831.

Sebbene i due cugini si conoscessero già prima, il momento in cui si ebbe la svolta tra Emma e Charles fu quando lui tornò dal suo viaggio intorno al mondo (1836) così cambiato che riuscì a destare l’attenzione di tutti, compresa la sua futura moglie. Scrive Chiara Ceci: ” Quello che solo pochi anni prima era un giovane che non aveva ancora trovato la sua strada, era maturato, diventando un uomo di scienza con una promettente carriera davanti. Era diventato un uomo interessante. Ed anche Emma se n’era accorta.

Di certo, il processo che portò il naturalista inglese a sposarsi non fu semplice. Prima del matrimonio, infatti, Darwin si era fatto persino uno schema in cui elencava e analizzava i vantaggi (e gli svantaggi) di prendere moglie. Infine, dopo il shakespeariano “Sposarsi o non sposarsi” decise di far di Emma una vera signora e i due si unirono in quello che forse fu “il giorno più bello” (come la donna definisce nei suoi diari), ovvero martedì 29 gennaio 1839. Da quel momento, Emma Wedgwood entrò a far parte direttamente della vita privata e lavorativa del marito in cui ebbe un ruolo fondamentale.

Sicuramente lavorare in un ambiente sereno aiuta l’efficienza ed è per questo che Down House rappresentò un punto fondamentale nel successo del naturalista inglese, offrendogli la tranquillità e la serenità che ogni ipocondriaco (come Darwin) potrebbe richiedere. Altrettanto importanti furono le continue cure di Emma, che tra una lettura di romanzo ed un’altra, trovava sempre il tempo per accudire i malesseri del marito e suonare per lui il pianoforte, essendo abile musicista. Questi malesseri infatti colpivano duramente la sfera emotiva del naturalista, soprattutto quando le perdite dei figli gli facevano rinascere sensi di colpa dovuti alla autoflagellazione di una trasmissione ereditaria dei suoi malanni (data la sua vicinanza di parentela con la moglie). Nel 1851, però, la morte della figlia preferita Anne mise a dura prova anche Emma, che non si fece sfuggire l’occasione per stringere ancora di più il rapporto con Charles. Si può dire anche che all’inizio la Signora Darwin pensasse che i malesseri del marito fossero capricci, ma si dovette ricredere quando lesse il manoscritto dell’Origine delle Specie. In quel momento, infatti, capì tutti i turbamenti che sconvolgevano la mente di Charles confermandole la sua onestà intellettuale. Grazie a questa Emma era convinta che il suo sforzo nel raggiungere la verità andasse elogiato, sebbene fosse contro le sue idee religiose. Uno sforzo che sfociò anche nella fatica quotidiana per sopportare gli esperimenti che letteralmente sconvolgevano la casa, portandovi diverse tipologie di animali. Instancabile, era avvezza anche a seguire le vicende sociali del villaggio, dove non si faceva sfuggire occasione per compiere opere di bene verso il prossimo.

La calma non poteva durare a lungo e il 1858 fu l’anno che ne segnò la fine. Una lettera da un certo Alfred Russel Wallace sconvolse ancora la vita a Down House, dove la moglie si ritrovò a far fronte ad una delle crisi più importanti del marito. Come ben noto, questo giovane naturalista aveva maturato in poco tempo quello che Darwin fece nel corso di diversi anni di studi ed esperimenti. In quella lettera furono riassunte in modo impeccabile (come disse lo stesso naturalista inglese) le convinzioni di Charles. Il rischio che anni di lavoro potessero perdersi ed un’incoraggiante moglie, però, inspirarono ancora di più Charles che alla volta del 1859 si apprestava ad uscire allo scoperto con la sua opera rivoluzionaria. Tutto questo sotto il sostegno di Emma che, nonostante il figlio morente di scarlattina, trovò anche qui le energie per aiutare il marito sia psicologicamente che dal punto di vista lavorativo.

Emma Darwin, ritratto di Charles Fairfax Murray (1849–1919) (© Darwin College, University of Cambridge)

Anche dopo la pubblicazione dell’opera la vita restò turbolenta poiché l’Origine delle Specie rappresentò un terremoto nel mondo delle scienze naturali e non. Questo sisma si trasferì nella tranquillità di Down House, dove lettere e visite non finivano mai. Nonostante l’indiscutibile pazienza di Emma nel sopportare anche questa fatica, non si può negare che la scarsa volontà di Charles di partecipare alla vita sociale pubblica aiutasse in tal senso la moglie. Inoltre l’abilità della signora Darwin nel parlare lingue diverse dall’Inglese (come il Francese e il Tedesco) erano di prezioso aiuto quando venivano ospiti stranieri di un certo livello. Tra questi spicca Ernst Haeckel con cui il naturalista riuscì a mantenere un rapporto epistolare proprio grazie alla revisione delle lettere da parte di Emma. Tutte queste visite, però, non erano solo una scocciatura. Basti pensare alla moglie del mastino di Darwin, Thomas Henry Huxley, che aveva stabilito con Emma un rapporto di profonda amicizia.

La passione per la cura del prossimo non finì neanche quando morì il nipote Frank ed Emma si sentì in dovere di richiamare a Down House suo figlio, per offrirgli conforto morale e aiuto.

Sebbene tutto questo sembri destinato a finire, la signora Darwin dimostrò sempre grande carisma, anche il 19 aprile del 1882, quando sul suo diario comparve la nota più triste di tutte (“tre e mezza”) che segnò la fine della vita terrena del naturalista che cambio la nostra società. Un numero che segnava la morte di colui che aveva condiviso con lei una vita, tra idee, turbamenti e rivoluzioni.

Nonostante la sepoltura fu prevista lontano da dove la moglie aveva pianificato di condividere l’aldilà, la morte di Charles venne vissuta con relativa serenità. Infatti, Emma riuscì a mantenere i suoi forti interessi (come la lettura) e iniziare a coltivare quelli a cui aveva rinunciato a causa del marito, come la passione per il teatro.

Siamo dunque alla fine di una vita ricca di emozioni, di avvenimenti e sconvolgimenti che segnarono la figura di Emma Wedgwood, la signora Darwin, come colei che sostenne il marito in tutto e per tutto. Una figura che permea nella società dell‘800 e grida la potenza del ruolo femminile in quelli che furono i cambiamenti epocali. Il 2 ottobre del 1896 il cuore di questa donna smise di battere e, alla fine, si può dire che Darwin fece bene a sposarsi poiché, se oggi abbiamo e usiamo la teoria dell’evoluzione, si può anche dire grazie ad Emma.

Gabriele Greco

Bibliografia

Ceci, C. emmardwin.it
Ceci, C. (2016). Emma Wedgwood Darwin: Ritratto di una vita, evoluzione di un’epoca”.Sironi Editore, 256 pp.
Eldredge, N. (2006). Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita., Codice Edizioni, 276 pp.

Alieni in Sicilia: il diario di viaggio di un biologo

Aplysia dactylomela

Sono ormai oltre 800 le specie marine alloctone (o non native) che vivono nel nostro mare. Le vie d’ingresso principali sono: il canale artificiale di Suez (che collega il Mar Rosso al Mediterraneo), l’acqua di zavorra o sentina delle navi e l’acqua proveniente dai ricambi delle vasche degli acquari. Alcune di queste specie mostrano un’elevata invasività, cioè crescono rapidamente (in quasi totale assenza di predatori e competitori) e tendono a sostituirsi alle specie autoctone, minacciando la biodiversità e alterando il nostro ecosistema marino. Negli ultimi anni il preoccupante fenomeno è aumentato, complice il riscaldamento del Mediterraneo e l’aumento del traffico marittimo. Ecco alcuni ospiti “stranieri” incontrati nel mio recente viaggio in Sicilia.

Caulerpa taxifolia (tra le cui fronde si intravede Caulerpa cylindracea)

Tra le alghe, sono ben tre le “intruse” osservate a Favignana: Caulerpa taxifolia, “fuggita” nel 1984 dalle vasche dell’acquario del Principato di Monaco, la congenerica Caulerpa cylindracea, d’origine australiana, penetrata nel nostro mare nel 1990 attraverso l’acqua di zavorra delle navi, e Asparagopsis taxiformis, alga rossa originaria dell’area indo-pacifica.

Asparagopsis taxiformis

Tra i molluschi, è sempre più comune l’ostrica perlifera (Pinctada imbricata radiata), in questo caso fotografata a Taormina, proveniente dal Mar Rosso ed entrata nel Mediterraneo da Suez. Quasi ubiquitaria lungo tutte le coste del Sud Italia e rinvenuta a Taormina, San Vito Lo Capo e Favignana è la cosiddetta “lepre di mare dagli anelli” (Aplysia dactylomela), un grosso gasteropode opistobranco originario dell’Atlantico tropicale ed entrato per dispersione naturale attraverso Gibilterra o con l’acqua di zavorra.

Rhopilema nomadica

A Favignana, è stata osservata anche la pericolosa “medusa nomade” (Rhopilema nomadica), entrata da Suez negli anni ’70. È molto urticante e si distingue dal nostro innocuo “polmone di mare” (Rhizostoma pulmo) per l’assenza del bordino viola sull’ombrella e l’aspetto “filamentoso”. Si tratta del quarto avvistamento in acque italiane, dopo Pantelleria e Cagliari (2015) e Levanzo (2016).

Pinctada imbricata radiata

Luciano Bernardo

Un organo straordinario: la placenta

Tra i tanti organi che la natura ha fornito ai suoi esseri viventi, ce n’è uno dotato di caratteristiche straordinarie, al quale difficilmente pensiamo. E’ un organo che si forma in un momento preciso nella vita di un individuo, in particolare grazie all’input di una nuova vita, geneticamente diversa dall’ospitante. Tale organo è capace di gestire perfettamente le esigenze dei due soggetti in questione e dopo circa 270 giorni cessa la sua esistenza. Stiamo parlando della placenta.

Y.W. Loke, professore emerito di immunologia riproduttiva all’università di Cambridge, dove è anche membro del King’s College, ha dedicato proprio alla placenta un intero libro, intitolato “Life’s vital link: the astonishing role of the placenta” (Oxford University Press, Incorporated, 2013), di cui non esiste la traduzione italiana. Niente paura, ve ne parliamo noi.

Il professor Loke racconta una lunga storia, partendo dal fatto che verrebbe spontaneo, ai non addetti a lavori, pensare che la placenta sia un organo fornito dal grembo materno a inizio gravidanza. Invece no, deriva dal feto e garantisce che esso si possa accasare all’interno della mamma, senza problematiche di rigetto nonostante l’estraneità dei due patrimoni genetici. Infatti, ogni madre ha un DNA diverso dai propri figli e le cellule della madre non si riconoscono con quelle del feto. Com’è possibile che non avvenga rigetto come nel caso degli organi trapiantati? Questo problema è noto come paradosso immunologico della gravidanza e ancora rimane un mistero. Dopo essersi insediata, la placenta si occuperà di mediare tra feto e madre, cercando di tutelare gli interessi di entrambi: portare nutrienti e ossigeno al primo, restituendo alla seconda anidride carbonica e altri rifiuti, senza mai mescolare il sangue dei due; inoltre, attraverso un’azione ormonale, essa agirà sul cervello della mamma per favorire le sue future abilità di accudimento. La placenta per nove mesi funge da polmone, rene e apparato digerente per il feto. Non solo, essa si preoccuperà anche di bloccare alcuni agenti patogeni, anche se non tutti purtroppo.

L’inizio

Appena l’ovulo viene fecondato si forma un embrione nel quale si suddividono subito due popolazioni di cellule: embrioniche ed extra-embrioniche, queste ultime sono cellule destinate alla costruzione della placenta e in questa fase sono l’80% delle cellule totali. Ciò significa che il primo sforzo è quasi interamente devoluto alla formazione della placenta. Le cellule extra-embrioniche si chiamano trofoblasti e hanno anche la capacità di oltrepassare la placenta per passare nel flusso sanguigno materno e andare a depositarsi nei suoi polmoni. Ciò significa che ogni madre possiede nel proprio corpo cellule dei propri figli e ciò fa di lei una vera e propria chimera! (Si definisce chimera un individuo che abbia in sé cellule appartenenti ad un altro individuo, quindi con DNA diverso). Questo evento è definito microchimerismo e si pensa che possa essere responsabile di due fenomeni: da un lato la possibilità di scatenare alcune malattie auto-immuni nella madre, dall’altro potrebbe avere un ruolo riparativo nei danno in alcuni tessuti materni, come ad esempio midollo osseo, fegato e tiroide.

Evoluzione

La placenta rappresenta il modello più recente nell’evoluzione dei sistemi di riproduzione, la quale si spalma su 300 milioni di anni. Dalle prime forme di vita acquatiche (e notiamo che anche l’inizio di ogni singola vita all’interno della placenta è acquatico, grazie al liquido amniotico) alcuni animali si sono spinti gradualmente fuori dall’acqua: gli anfibi, a tutt’oggi ancora presenti.

Maschio di rana della specie Alytes obstetricans dedito alla protezione delle uova, che una volta deposte sono totalmente vulnerabili ai predatori. (Immagine di Christian Fischer)

 

Un ulteriore tassello è stato messo da coloro che hanno optato per la vita interamente fuori dall’acqua: i rettili. Infine, per ultimi, si sono evoluti i mammiferi. La maggior parte dei questi sono euteri, ovvero creano la loro prole mediante utero e placenta. Questa modalità di riproduzione è più recente rispetto a quella degli animali ovipari (che depongono uova), ma come possiamo tutti constatare, neanche gli ovipari si sono estinti, ciò significa che il loro sistema riproduttivo è ancora perfettamente efficiente ai fini della vita, nonostante sia più arcaico. Il salto tra ovipari e mammiferi risale a quando alcuni rettili hanno iniziato a trattenere le loro uova, invece che deporle: una strategia infinitamente più sicura per la prole. In seguito questi rettili modificati hanno cominciato ad autoregolare la propria temperatura corporea, a veder crescere pelo sui propri involucri e poi a produrre latte. La lattazione, che sembra avere preceduto la formazione della placenta, è un passo cruciale per l’evoluzione: essa prevede che vengano messe in atto delle cure parentali con continuo contatto fisico tra madre e prole. Queste caratteristiche hanno reso diverse le nuove specie, definendole mammiferi, proprio in virtù dell’allattamento. Alcuni di questi hanno poi fatto ritorno in acqua, perdendo pelo e arti: balene e delfini ad esempio, sono mammiferi e continuano a partorire e allattare i loro cuccioli in acqua. Addirittura, sappiamo che nelle balene, durante la fase embrionale, si abbozzano degli arti, che però verso la quinta settimana gestazionale vengono riassorbiti. Questo fatto testimonia il loro passato evoluzionistico di passaggio sulla terra ferma. Tra le peculiarità della placenta vi è anche quella di essere l’organo che varia maggiormente da specie a specie, rispetto agli altri organi.

Acrobazie della placenta umana

La placenta umana è più intrusiva, in quanto si innesta nell’utero materno in modo più radicato. Questa modalità assicura più stabilità al feto, ma è anche vero che mette più a rischio la madre, basti pensare all’entità del sanguinamento dopo il parto: dura oltre un mese! Questa emorragia è proprio dovuta al distacco dei tessuti placentari che erano penetrati profondamente nel tessuto materno. Uno dei rischi di questa intrusività è che talora può risultare eccessiva e causare problemi ostetrici, mentre se è insufficiente può diminuire l’apporto di nutrienti al feto, causandogli effetti non solo nel breve termine, ma anche nel lungo periodo. Questa interazione tra feto e ambiente, non solo uterino, ma anche esterno, è mediata dalla madre da comportamenti come l’alimentazione, l’esposizione a sostanze tossiche o altri eventi potenzialmente nocivi ed è nota come programmazione fetale. In pratica il feto, attraverso quello che riceve “impara” qualcosa delle dinamiche che lo aspettano nel mondo esterno, per esempio come sarà l’alimentazione nel futuro che lo aspetta.

La placenta umana è in grado di svolgere un ruolo fondamentale per l’evoluzione del nostro cervello: essa è capace di lasciar fluire grandi quantità di grasso dalla madre al feto. Questi grassi sono fondamentali per lo sviluppo del cervello, nel feto ma anche nel lattante, il quale continua a immagazzinarne molti (ecco perché i bambini piccoli sono così graziosamente paffutelli). Il cervello umano ha un ruolo chiave nella gestazione umana, infatti questa termina quando il cervello (e di conseguenza il cranio) ha raggiunto il diametro massimo per garantirsi l’uscita dal canale pelvico materno, particolarmente stretto. Questo restringimento è dovuto a una tappa fondamentale che ha portato gli umani a differenziarsi dagli altri primati: il bipedismo. La postura eretta è possibile solo con la conformazione attuale del nostro bacino, che si è dovuto restringere rispetto ai nostri antenati primati. Il restringimento ha reso il parto molto più rischioso per gli umani rispetto a tutte le altre specie animali (che partoriscono facilmente e in solitudine). Le doglie delle donne sono molto dolorose perché le contrazioni devono essere forti per espellere il feto dalla testa ingombrante.  Il parto avviene dopo nove mesi poiché quello è il massimo della sua grandezza, oltre la quale non riuscirebbe ad uscire. Il fatto che i neonati nascano con un cervello molto ingombrante rispetto alle altre specie non significa che siano più autonomi degli animali, anzi! Il neonato umano è il cucciolo meno pronto alla vita e ha bisogno estremo di cure parentali. Basti pensare che il cucciolo d’uomo è l’unico che impiega circa un anno prima di reggersi sui suoi passi.

Neonato umano: la specie più indifesa al momento della nascita, non potrà camminare fino all’età di un anno circa, caso unico in natura.

Ma noi sappiamo bene che tutta questa mole di cervello sosterrà l’espressione delle varie abilità umane nel corso del suo lungo sviluppo.

Un altro ruolo straordinario della placenta è quello che consente il passaggio da madre a feto di alcuni anticorpi, detti IgG, i quali proteggeranno il feto e anche il lattante nei primissimi mesi da alcune malattie (questa copertura ad un certo punto svanisce ma può essere garantita dai vaccini).

Imprinting e vulnerabilità ambientale

La presenza della placenta porta con sé un’altra novità rispetto al mondo degli ovipari. Essa contiene una popolazione molto particolare di geni, i quali sono responsabili dell’imprinting genomico. I geni che noi ereditiamo dai nostri genitori sono sempre accoppiati, in ogni coppia uno arriva dalla madre e uno dal padre e normalmente agiscono equamente. Una piccola popolazione di geni si comporta un po’ diversamente, cioè si attiva solo uno dei due, quello materno o quello paterno, questo a seconda del ruolo di quei geni, facendo in modo che alcune informazioni provengano o solo dalla madre o solo dal padre. Ad esempio, i geni che promuovono la crescita della placenta sono di origine paterna, quelli che contengono l’espansione della placenta (limitando l’intrusività) sono di origine materna. Almeno metà dei geni imprinted si trovano nella placenta e una loro caratteristica importante è che possono essere attivati o disattivati in modo più veloce e semplice rispetto alle altre coppie di geni. Il processo che silenzia i geni si chiama metilazione e viene innescato da fenomeni ambientali, come ad esempio l’esposizione a un determinato tipo di alimentazione. Vista l’alta concentrazione di geni imprinted, la placenta umana è altamente suscettibile all’ambiente, dunque, alle esperienze della madre. L’interazione dei geni con l’ambiente dà luogo all’epigenetica, così come nella programmazione fetale, anche nel resto della vita i geni interagiscono continuamente con le nostre esperienze.

Tecnologie riproduttive

Le cellule placentari hanno la capacità di aggrapparsi a qualunque tessuto in quanto abili a romperne i capillari (perciò esistono le gravidane extrauterine), ma l’unico che ha possibilità di sottrarsi all’invasione è l’utero in quanto è necessario il suo avvallo affinché l’attecchimento avvenga (dunque non in un momento qualsiasi ma in opportune condizioni ormonali).

Dunque, se l’embrione predispone la placenta per invadere l’utero materno, quest’ultimo avrà, però, l’ultima voce in capitolo. Questa necessaria sincronizzazione tra i due individui è uno dei motivi per cui le fertilizzazioni in vitro non vanno sempre a buon fine. L’invasività della placenta fa sì che possa anche attecchire in un utero di una donna in menopausa, con l’aiuto di qualche stimolazione ormonale. Purtroppo, l’intervento tecnologico sulla riproduzione umana è sempre più utilizzato proprio a causa dell’invecchiamento. Nel caso della donna, che oggi giorno si trova sempre più spesso a intraprendere la maternità ben dopo i 30 anni, il problema è per lo più legato alla disponibilità di ovuli. Si pensi che in una neonata alla nascita sono presenti ben uno o due milioni di follicoli nell’ovaio (destinati alla maturazione degli ovuli), ne rimarranno meno della metà alla pubertà per poi ridursi a meno di mille alla soglia della menopausa. Oltre alla riduzione in quantità nel tempo avviene un peggioramento della qualità, proprio per questo motivo si ricorre sempre più spesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA), con la quale è possibile ricorrere anche a ovuli o spermatozoi di donatori, circostanza che però aumenta i rischi della gravidanza. In questo caso la donna che porta avanti la gravidanza con un embrione totalmente estraneo (in quanto mancante del suo contributo genetico, utile probabilmente al processo di non rigetto) vede aumentare il rischio di gestosi.

L’eredità della placenta

Ci sono alcune potenzialità sull’uso della placenta, invece che cestinarla dopo il parto. Essa è ricca di cellule staminali, che potrebbero rivelarsi utili in alcune terapie. Inoltre essa possiede proprietà curative conosciute in tempi remoti, infatti poteva essere applicata su ferite e ustioni. Inoltre. È talmente nutritiva che molti animali, dopo aver partorito, la mangiano.

La placenta è un organo straordinario che ci offre, e ancora in parte nasconde, la testimonianza viva della nostra storia evolutiva. Con le sue straordinarie capacità adempie ad alcuni requisiti fondamentali per la nostra peculiarità umana. Con molta discrezione e scrupolosità porta a termine il suo lavoro, per poi svanire silenziosamente, consegnando la nuova vita al mondo che l’aspetta.

Pamela Boldrin, Alexander Travisi, V. Righetti

Tardigradi: veri duri grazie al DNA

Quando pensiamo a un ambiente estremo di solito associamo implicitamente questa parola all’abitabilità di quel luogo dove, per noi, sarebbe impossibile sopravvivere. Pensa ad esempio al cratere di un vulcano all’interno del quale, per via delle elevate temperature, piogge acide, lava, gas tossici, sembra impossibile concepirvi la vita. Eppure la natura sa superare questi ostacoli andando oltre la nostra fantasia.

Tardigrada (© animale.me)

Gli organismi estremofili sono microrganismi così chiamati perché capaci di sopravvivere e moltiplicarsi in ambienti le cui condizioni sono proibitive, ad esempio temperature, pH, salinità e/o pressione o molto alte o molto basse. Grazie a questi microrganismi riusciamo a spingere la nostra capacità di osservare il mondo oltre il limite.

Tra gli estremofili i più famosi (e carini) ci sono i Tardigradi, scoperti nel 1773 da Johann August Ephraim Goeze, zoologo tedesco, e così chiamati nel ’77 da Lazzaro Spallanzani, biologo italiano. Ad oggi, di questi piccoli invertebrati di circa un millimetro, ne sono state identificate più di mille specie.

È possibile trovarne in ogni zona del mondo e, con tutta probabilità ne avremmo mangiati a migliaia considerato che si possono trovare in alcuni alimenti come, ad esempio, un’insalata.

Cosa hanno di incredibile i Tardigradi a parte un simpatico soprannome inglese, “Orso d’acqua” (“Water bear”), e le loro buffe sembianze da astronauta con la tuta troppo larga? Sono i veri Rambo della natura.

Nel corso del tempo i Tardigradi sono stati studiati nei modi più disparati: viaggi nello spazio e esposizione ai raggi X e Gamma, congelamento e scongelamento, essiccazione, mancanza d’ossigeno, cambiamenti di salinità, sottovuoto, alta e bassa pressione e… Sono sempre sopravvissuti, tanto da far pensare alcuni scienziati che saranno proprio i Tardigradi gli ultimi esseri viventi che osserveranno il sole esplodere.

Ma come fanno i Tardigradi a essere così resilienti? (capace di adattarsi al cambiamento. n.d.r)

Il recente studio condotto dall’Università di Edimburgo presso l’Istituto di Biologia Evolutiva attribuisce i “superpoteri” dei Tardigradi alla loro capacità di resistere alla disidratazione, anidrobiosi e di entrare in uno stato di quiescenza.

Hypsibius dujardini ©Goldestein lab – Ramazzottius varieomatus © Nature Publishing Group

Per verificare questa ipotesi hanno confrontato il DNA di Hypsibius dujardini, un piccolo Tardigrado capace di sopravvivere all’essiccazione solo affrontandola in modo graduale, con quello di Ramazzottius varieornatus, una specie affine capace tuttavia di resistere a una disseccazione veloce.

In particolare sono state confrontate le regioni geniche chiamate HOX (dall’inglese “homeobox” = “regione conservata”),  sequenze di DNA che regolano le procedure di sviluppo anche di funghi, piante e animali.

È stato quindi possibile comprendere quali geni venissero attivati in Hypsibius d. durante l’anidrobiosi identificando un set di proteine che sembra andare a “sostituire” l’acqua persa dal Tardigrado durante la disidratazione. Queste proteine sono altamente solubili e, man mano che l’acqua viene meno, si dissolvono all’interno della cellula sostituendosi all’acqua intracellulare. In questo modo formano un microscopico strato protettivo, una matrice che protegge il suo contenuto. È così che le proteine, la membrana e lo stesso DNA sono protetti e riparati ponendo l’organismo in uno stato quiescente che terminerà soltanto con il contatto con l’acqua.

I Tardigradi continuano a far nascere nuove domande per il mondo scientifico, non solo per l’importanza che potrebbe avere riuscire a comprendere la loro resistenza alla mancanza d’acqua in un mondo come il nostro il cui clima sta cambiando drasticamente, ma anche a comprendere meglio i limiti della vita sul nostro o su altri pianeti.

Carlo Taccari

Bibliografia:

  1. Jonsson, K. I. et al. Tardigrades survive exposure to space in low Earth orbit. Curr. Biol. 18, R1–R3 (2008).
  2. Tsujimoto, M. et al. Recovery and reproduction of an Antarctic tardigrade retrieved from a moss sample frozen for over 30 years. Cryobiology. Feb;72(1):78-81. (2016)
  3. Horikawa D.D. & Higashi, S. Desiccation tolerance of the tardigrade Milnesium tardigradum collected in Sapporo, Japan, and Bogor, Indonesia. Zoolog Sci. Aug;21(8):813-6. (2004)
  4. Yoshida, Y. & et. al. Comparative genomics of the tardigrades Hypsibius dujardini and Ramazzottius varieornatus. Plos Biology, Jul;27. (2017)

Microbioma e comportamento animale – il caso dell’ansia e della depressione

Recenti scoperte effettuate su modelli animali, seppure in fase embrionale, stanno ponendo ulteriore peso sull’ormai già consolidato ruolo del microbiota intestinale sull’organismo ospite.

Lo sviluppo, il corretto funzionamento del sistema nervoso dell’ospite e il suo comportamento sembrano essere soggetti, attraverso meccanismi ancora da chiarire, all’azione della complessa rete di microorganismi in simbiosi con esso; alterazioni di questo, ancora ipotetico, asse microbiota intestinale – cervello inoltre sembrano correlare con il disturbo depressivo maggiore e i disturbi dello spettro autistico fornendo possibili vie per il trattamento farmacologico.

L’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei microorganismi (microbiota) che vive in simbiosi con un organismo (ospite) è definito microbioma.

Queste popolazioni, costituite da batteri, virus, funghi, archea e protisti, per un totale di 1000 specie ad oggi identificate, vivono a stretto contatto con i tessuti epiteliali dell’ospite (tratto gastrointestinale, cavo orale, tratto genitourinario, pelle, solo per fare qualche esempio nell’uomo) e sono modulate da un delicato equilibrio tra fattori genetici e fattori ambientali (dieta, infezioni, stress, trattamenti farmacologici).

Già dagli anni ’50 con il genetista e microbiologo Joshua Lederberg (Nobel nel 1958) alla complessità funzionale di queste comunità ecologiche (in particolare quella intestinale) fu dato risalto: metabolismo, immunità e sostegno alla funzione gastrointestinale rappresentano i punti salienti di questo ancestrale rapporto simbiotico tra uomo e microbiota intestinale.

Ma sembra esserci dell’altro: perturbazioni del microbiota intestinale (disbiosi), analizzate su modelli animali (da laboratorio e selvatici), sono state associate a cambiamenti nel comportamento sociale e nella comunicazione (tra i quali rientrano poi i disturbi dello spettro autistico o ASD), alterazioni nella risposta allo stress (Ansia e Disturbo Depressive Maggiore o MDD) e sorprendentemente alterazioni in facoltà cognitive come apprendimento e memoria.

Microorganismi in simbiosi con organismi ospite sono presenti non solo nei mammiferi (topi, primate e uomo) ma anche in anfibi, pesci e piante. La teoria della co-evoluzione (o ologenetica) origina da studi sui coralli delle barriere coralline.

Il cervello si e sviluppato in modo da integrare efficacemente multiple e complesse informazioni sensoriali generando delle risposte in linea con le necessita dell’individuo e le sue esperienze. Come risposta a bisogni fisiologici o cambiamenti ambientali gli animali, nel corso dell’evoluzione, hanno sviluppato meccanismi che permettono di plasmare il loro comportamento.
Sulla base di precedenti studi su modelli murini i quali suggerivano che l’esposizione ad agenti stressogeni fisici e psicosociali modificasse il profilo del microbiota intestinale ci si è chiesti se questo, a sua volta, influenzasse comportamenti correlati allo stress come la risposta combatti o fuggi, la ridotta esplorazione, il “congelamento” o la tigmotassi (cambiamento della direzione di movimento di un organismo a seguito di uno stimolo meccanico, generalmente tattile).
A tal scopo è stato adattato il classico esperimento di valutazione dell’efficacia di ansiolitici su modello murino: i livelli di ansia dell’animale, per natura avverso agli spazi aperti e tigmotattico, sono misurati quantificando il tempo speso da questo negli spazi coperti del labirinto a croce elevato.
Valutando pertanto il comportamento esplorativo e la prevenzione del rischio dell’animale si e osservato come topi GF (germ-free, privi di microorganismi commensali intestinali), rispetto a topi SPF (specific-pathogen free), in condizioni basali, abbiano una più alta motivazione esplorativa mentre, in risposta ad un agente stressogeno, subiscano una maggiore diminuzione della stessa con un aumento correlato dei livelli plasmatici di ormone adrenocorticotropo e corticosterone (ormoni dello stress); insomma l’assenza dell’influenza microbiotica sembra essere legata ad una marcata inibizione del comportamento esplorativo in risposta allo stress, una sorta di iper-responsività ansiosa a quest’ultimo.
Esperimenti anologhi su GF zebrafish (specie animale da poco utilizzata come modello in laboratorio) e su topi esposti ad antibiotici (che hanno azione deleteria sui microorganismi intestinale) hanno mostrato risultati concordanti.
A questo si aggiunge l’ipotesi che il presunto ruolo neurofisiologico del microbiota possa essere preponderante in una data finestra temporale (molto probabilmente coincidente con lo sviluppo dell’animale). In topi GF, l’effetto della convenzionalizzazione con microbiota di topi SPF è maggiore alle sesta settimana piuttosto che alla quattordicesima. In linea con questa ipotesi infine vi e l’osservazione che alterazione del microbiota vaginale materno, in risposta allo stress, possa influire sul comportamento della prole.
E l’uomo?
Uno studio clinico randomizzato su uomini sani suggerisce che possa sussistere una correlazione tra trattamento con probiotici (L. Helveticus e Bifidobacterium Longum) e una diminuzione degli indici di ansia nel test auto-valutativo Hospital Anxiety and Depression Scale.

Parallelamente la valutazione dell’impotenza (incapacità di fare) e dell’anedonia (incapacità di provare piacere) tramite la misurazione del tempo di immobilizzazione in test da nuoto forzato o da coda-sospensione ha permesso di stabilire una relazione tra alterazioni del microbiota intestinale e manifestazioni comportamentali di natura depressiva.
Nei test suddetti, alcuni esperimenti hanno osservato un ridotto tempo di immobilizzazione in topi GF, rispetto ai topi SPF, tipico segno di accertamento dell’efficacia di un farmaco antidepressivo.
Nell’uomo invece il trattamento con probiotici sembra, come nel precedente esperimento, migliorare indici emozionali e ridurre ruminazione (pensiero depressivo) e aggressività. Inoltre il profilo del microbiota fecale di pazienti con DDM sono sostanzialmente alterati rispetto ai controlli sani, in particolare nei livelli di Actinbacteria e Bacterioidetes.

Rimane però ancora da chiarire come alterazioni del microbiota intestinale possano, nei casi descritti, portare a variazioni metaboliche in specifiche regioni del cervello animale. Numerose vie possono risultare implicate (innervazione vagale, signaling neuro-endrocrino e regolazione neuro-immune) e alterazioni nei livelli trascrizionali di particolari geni coinvolti nel metabolismo degli steroidi, nel potenziale sinaptico a lungo termine o nel signaling del cAMP, cosi come variazioni morfologiche a livello dendritico e alterazione delle mielinizzazione sono state già osservate.
Le aree del cervello implicate corrisponderebbero a stazioni importanti per i dinamici circuiti nervosi correlati a stati emozionali quali ansia, paura, depressione e stress (amigdala, ippotalamo, corteccia prefrontale).

Rappresentazione delle anormalità neurofisiologiche in animali privi di microbiota intestinale. Si noti la varietà di regioni colpite. ÓAnnu. Rev. Neuroscience

Le domande su come e se direttamente il microbiota regoli la neurofisiologia e sia implicato nella patogenesi di disordini neuro-comportamentali sono innumerevoli e la strada per analisi di queste interazioni nell’essere umano e quindi per un approccio di tipo farmacologico è ancora lunga.

In ogni caso quella che sembra erompere con vigore è la figura di esseri viventi intesi come olobionti, come unita primarie (animale + microbi) soggette, in quanto tali, alla pressione evolutiva; ciò non è altro che l’ennesima dimostrazione del delicato intreccio di interazioni di una Natura che non smette di sorprenderci e di dimostrare la sua complessità.

Piervito Lopriore

Bibliografia
Helen E. Vuong, Jessica M. Yano, Thomas C. Fung and Elaine Y. Hsiao (2017) The Microbiome and Host Behavior. Annu. Rev. Neuroscience

Gli impollinatori del mare

Scoperto nel Golfo del Messico un meccanismo di impollinazione marino simile a quello svolto dalle api sulla terraferma.

L’impollinazione è un fenomeno ben noto sulle terre emerse. Un pensiero va subito alle api che quotidianamente volano di fiore in fiore per raccogliere il loro nettare. Sembra impossibile immaginare che un meccanismo come questo possa verificarsi sul fondo del mare.

Fino a qualche tempo fa sembrava scontato che, in ambiente acquatico, l’impollinazione avvenisse esclusivamente tramite le correnti marine, un meccanismo noto come impollinazione idrogama o idrofila.

Come spesso accade la natura non si fa problemi a superare la fantasia umana ed è proprio questa la scoperta fatta dai ricercatori della National Autonomous University of Mexico: il mare ha i suoi impollinatori.

Organismi bentonici: Organismi acquatici, di dimensioni comprese tra 0,06mm e 1mm, che vivono in stretto contatto con il fondo marino.

a) larva di Majid zoea con granuli di polline nel tratto digestivo. b) Thallasinidea zoea con granuli di polline su rostro e antenna. c) Brachyuran zoea con un granulo di polline adeso all’addome. d) Polichete della famiglia dei Sillidi con due granuli di polline attaccati ai segmenti; il secondo granulo pollinico è quasi nascosto ed indicato da una freccia. I granuli pollinici sono indicati con dei cerchi. La barra in basso rappresenta 1mm.
©Van Tussenbroek et al. (2016)

Tra il 2009 e il 2012 gli studiosi si sono dedicati al monitoraggio delle praterie di un’angiosperma marina, la specie Thalassia testudinum (“erba della testuggine” nome comune ndr), situata nel Golfo del Messico, e della loro fauna principalmente costituita da piccoli crostacei. Nel corso del monitoraggio hanno registrato ore di materiale video rivelando l’inatteso e sconosciuto comportamento dello zoobenthos dell’area, ossia un meccanismo di impollinazione inusuale per T. testudinum che si è guadagnato un termine appositamente coniato: zoobenthophilous pollination (trad: impollinazione zoobentofila).

Secondo quanto emerso dai due esperimenti di laboratorio condotti dal gruppo di ricerca di Van Tussenbroek, i piccoli crostacei si muovono attivamente verso i fiori sia maschili sia femminili in assenza di correnti, forse alla ricerca di un insediamento di conspecifici oppure perché guidati dalla chemiotassi (attrazione dovuta ad uno stimolo chimico ndr). Questo sembra un comportamento molto simile a quello normalmente associato agli impollinatori del mondo emerso. Tale osservazione non esclude che l’acqua sia il vettore di trasporto principale per il polline delle piante acquatiche, ma aggiunge un nuovo livello di complessità a questo sistema acquatico che non era mai stato descritto prima, come la scoperta di un meccanismo di impollinazione legato agli animali nel mondo marino.

Carlo Taccari

Bibliografia:
Brigitta I. van Tussenbroek, Nora Villamil, Judith Márquez-Guzmán, Ricardo Wong, L. Verónica Monroy-Velázquez & Vivianne Solis-Weiss (2016). Experimental evidence of pollination in marine flowers by invertebrate fauna. Nature Communications.
Società Italiana di Biologia Marina (2003) Manuale di metodologie di campionamento e studio del benthos marino mediterraneo. Gambi – Dappiano editori.

Perdere peso e stare in salute è possibile

Chiunque di noi, tranne pochi fortunati, ha pensato, almeno una volta nella vita: “dovrei perdere qualche chilo”. Cercare su internet “come dimagrire velocemente” o “come perdere peso senza fatica” può farci del male?

Nella società occidentale, il radicato mito del magro è bello, spinge molte persone a sperimentare le diete più disparate nella speranza di dimagrire velocemente e senza sforzo.

Le diete che si trovano sul web, sui settimanali o su qualsiasi articolo che non abbia carattere scientifico, sono spesso assolutamente prive di equilibrio e talvolta non permettono nemmeno di raggiungere i propri obiettivi.

Ecco a voi due esempi di diete assurde: la dieta della mela e la dieta del bambino.

La dieta della mela, consiste nel mangiare solo mele per tre giorni. Mele frullate, mele cotte, succo di mela senza additivi saranno le sole fonti di cibo di coloro che intreprenderanno questa sconsiderata scelta alimentare.

La dieta del bambino, invece, consiste nel mangiare esclusivamente cibo per neonati per una settimana.

Dopo aver interrotto tali diete, visto che non hanno alcun regime di mantenimento, il famoso “ritorno dei chili di troppo” è inevitabile. Inoltre i loro danni a lungo termine  sono pericolosamente imprevedibili.

Una dieta veloce che non nuoccia alla salute non esiste. Tuttavia è possibile seguire l’unica dieta scientificamente riconosciuta come sana e protettiva nei confronti delle malattie cardiovascolari e del diabete: la dieta mediterranea.

Tutto ebbe inizio quando un militare americano di nome Keys giunse in Italia durante la Grande Guerra. Oggi Ancel Keys è noto per aver ideato la razione K, una quantità di cibo standard messa a punto per nutrire i soldati in missione.

In Italia, il giovane studioso si rese conto che la gente del posto aveva una minore incidenza di malattie cardiovascolari rispetto ad altre popolazioni europee.

Pensò che il fatto fosse riconducibile alla dieta povera che i nostri avi praticavano in tempo di guerra. Essi si nutrivano di pasta e legumi e le loro tavole erano povere di grassi e zuccheri semplici.

Tornato negli USA, Keys completò una serie di studi che dimostrarono l’efficacia della dieta mediterranea e diede inizio ad una delle campagna pubblicitarie, riguardo l’alimentazione, più riuscite e durature della storia: la Piramide Alimentare.

Informando con ogni mezzo di comunicazione allora esistente il popolo americano, Keys riuscì a diminuire notevolmente l’incidenza delle malattie cardiovascolari già negli anni ’60.

Oggi la dieta mediterranea è patrimonio immateriale dell’Unesco e nonostante la piramide alimentare sia datata (ad esempio non fa distinzione fra grassi buoni e cattivi), essa può essere utilizzata come punto di partenza per una dieta equilibrata a lungo termine.

Chiara Avanzato