“Maschio o femmina?”: come la biologia, l’ambiente e la cultura possono influenzare la determinazione del sesso

Nell’intero mondo animale le modalità con le quali un individuo, o un gruppo, faccia in modo che i suoi geni si trasmettano alla progenie possono essere le più disparate. Basti pensare alle svariate tipologie di corteggiamento, parate nuziali, cure parentali e sistemi per la riproduzione. E nell’ambito del fenomeno riproduttivo la determinazione del sesso, insieme al suo mantenimento nel corso della vita, può avere numerose varianti e può essere influenzato da vari fattori.

Un pesce pagliaccio, sottofamiglia delle Amphiprioninae: classico esempio di ermafroditismo sequenziale. Foto di viridea.it

Nella conoscenza comune l’unico modo per far sì che un nuovo individuo possa diventare un maschio o una femmina dipende semplicemente dalla genetica: uno specifico assetto cromosomico porterà allo sviluppo di tutte quelle caratteristiche fenotipiche che caratterizzano un particolare sesso. Ma questo succede solo in alcuni taxa animali, come ad esempio nei Mammiferi, negli Uccelli e in alcuni Insetti. In questi animali abbiamo generalmente poche sorprese e l’identità sessuale è determinata fin dal momento della formazione dello zigote.

Oltre al fattore biologico bisogna tener conto della possibile influenza ambientale per la determinazione del sesso. In molti Rettili (come alligatori e tartarughe), infatti, la determinazione sessuale del nascituro dipende dalla temperatura di incubazione dell’uovo: al di sopra di una certa temperatura di soglia si avrà una femmina, al di sotto un maschio. La cosa però, come spesso succede in Natura, non è così netta e definita. E’ stato infatti scoperto, secondo uno studio condotto da un team di ricercatori australiani, che la determinazione del sesso nel drago barbuto (un Rettile della famiglia Agamidae) può essere il risultato dell’azione combinata tra geni ed ambiente. Un individuo, seppur di sesso maschile dal punto di vista genetico e cromosomico, può svilupparsi come una femmina se l’uovo viene incubato a temperature molto alte. Questo fenomeno può essere utilizzato come esempio, dal punto di vista ecologico, per spiegare i possibili danni del riscaldamento globale che sta caratterizzando la nostra epoca.

Alcune forme animali si sono evolute mantenendo la presenza degli apparati riproduttivi di entrambi i sessi simultaneamente nello stesso individuo. Questa particolare caratteristica viene definita ermafroditismo e ne sono un esempio alcune specie parassite, in grado quindi di aumentare vertiginosamente la possibilità di riprodursi (con un altro conspecifico o, rarissimamente, autofecondandosi) e ottimizzare la loro fitness. Ma esistono casi ancora più sorprendenti. Uno di questi è quello che riguarda alcune specie ittiche caratterizzate dal cosiddetto ermafroditismo sequenziale, in cui gli individui possono cambiare sesso durante il corso della vita (in base alle esigenze dello stesso individuo e del gruppo sociale a cui appartiene). A questo proposito alcuni esempi possono il pesce pagliaccio, il pesce napoleone, il pesce pappagallo e la cernia.

Nel caso dell’essere umano la questione è un po’ complessa. Nel nostro caso, infatti, non basta la genetica, e conseguentemente il sistema endocrino, per la determinazione del sesso ma bisogna anche considerare il fattore culturale. Non è corretto parlare di sesso (che può riferirsi solamente a caratteristiche cromosomiche, fisiologiche ed anatomiche) ma bisogna parlare di genere. L’identità di genere è relativa ad una serie di ruoli sociali, comportamenti, status e diritti all’interno di un contesto storico e culturale, con la piena manifestazione della propria identificazione interiore, che va oltre il solo aspetto esteriore e fenotipico. Quindi nell’Homo sapiens la cultura, intesa come un complesso fattore sociale e ambientale di tipo biotico, può influenzare notevolmente la determinazione di appartenenza rispetto al contesto della sessualità.

In conclusione si può dire come la determinazione nel sesso nel mondo degli animali (Uomo compreso) può coinvolgere fattori di vario tipo come la biologia, l’ambiente e la cultura. Quello che sembra, però, è che le diverse variabili possano agire contemporaneamente (anche se non sempre in maniera sinergica) per far sì che ci sia un individuo definibile con un sesso o, nel caso umano, con un genere.

Christian Lenzi

Bibliografia:
Deveson, I.W., Holleley, C. E., Blackburn, J., Graves, J. A. M., Mattick, J. S., Waters, P. D., & Georges, A. (2017). Differential intron retention in Jumonji chromatin modifier genes is implicated in reptile temperature-dependent sex determination. Science Advances, 3(6), e1700731.

Sitografia:
Treccani.it
Orwh.od.nih.gov

Quando a corteggiare è la femmina

Il capovolgimento dei ruoli sessuali in una specie di uccello limicolo.

Nella maggior parte delle specie animali spetta ai maschi l’arduo compito di investire molto tempo ed energia nel corteggiamento delle femmine, mettendosi in mostra con lotte che servono ad affermare la forza dell’individuo alfa, come ad esempio si osserva nei cervi e nei leoni, oppure compiendo “doni nuziali”, come accade nel martin pescatore intento a donare un pesce alla potenziale compagna, o esibendo i propri caratteri attraenti nei display di corteggiamento, come avviene nel pavone intento ad affascinare la partner con la sua incantevole ruota di penne colorate.

Actitis macularia, intento ad uscire dall’acqua, probabilmente dopo una soddisfacente “battuta di caccia”. (Wikimedia)

Tuttavia, questa non è una regola ferrea, per cui si può notare facilmente qualche eccezione in cui è la femmina a prendere le redini del gioco. E’ questo il caso del piro piro macchiato (Actitis macularia), un uccello limicolo diffuso nelle zone umide di gran parte dell’America e dell’Europa. In questa specie, infatti, ha luogo una vera e propria inversione dei ruoli sessuali, tanto che le femmine assumono un comportamento che in altre specie è riservato esclusivamente ai maschi: precedono il maschio nei territori riproduttivi, competono tra loro con veemenza per la conquista dell’”home range nuziale”, difendono quest’ultimo dall’intrusione di altre femmine e avviano per prime il corteggiamento quando un maschio si avvicina.

Inoltre un’altra particolarità del piro piro macchiato è che le femmine sono poliandriche, ovvero traggono numerosi vantaggi dall’accoppiarsi con più maschi. Quest’ultimi, invece, si assumono completamente le responsabilità parentali, accudendo da soli le covate all’interno del territorio della compagna, che nel frattempo è in attesa di accoppiarsi con un altro maschio.

Ma perché quello dei piro piro sembra proprio essere un mondo a rovescio?

Come sostiene Lewis W. Oring, un ricercatore americano che ha studiato a lungo questi uccelli, l’unica spiegazione a questi comportamenti sta nel fatto che nel piro piro macchiato le femmine non solo non possono deporre più di quattro uova per covata, ma non riescono nemmeno a regolarne le dimensioni in relazione alla quantità di risorse disponibili e questo fatto le rende incapaci di deporre meno uova in condizioni ecologiche sfavorevoli. Ecco, quindi, che l’unico modo che hanno per incrementare sia la fitness, ovvero il proprio potenziale riproduttivo, che le riserve di cibo è proprio quello di trovare più compagni a cui delegare interamente le cure parentali.

Quella del piro piro macchiato è una delle poche specie in natura in cui la fitness della femmina è limitata più dal numero di maschi con cui essa si accoppia che dal numero dei suoi gameti.

Anita Bergamo

Bibliografia:

Oring, L. W., Reed, M. J., Alberico, A. J. (1994). Mate acquisition tactics in polyandrous spotted sandpipers (Actitis macularia): the role of age and experience. Behavioral Ecology, 5 (1), 9-16.

Oring, L. W., Reed, J. M., Colwell, M. A., Lank D. B., Maxson, S. J. (1991). Factors regulating annual mating success and reproductive success in spotted sandpipers (Actitis macularia). Behavioral Ecology and Sociobiology, 28 (6), 433-442.

Oring, L. W., Reed, J. M., Maxson, S. J. (1994). Copulation patterns and mate guarding in the sex-role reversed, polyandrous Spotted Sandpiper, Actitis macularia. Animal Behaviour, 47 (5), 1065-1072.

Dall’Aloe vera un possibile aiuto per curare l’AIDS?

Per l’Aloe vera, usata da secoli per curare innumerevoli disagi, tra cui scottature, punture di insetti e abrasioni, è stato di recente scoperto un nuovo utilizzo: il supporto nella cura dell’HIV, il virus dell’immunodeficienza umana.

La pianta di Aloe vera (o Aloe barbadensis Miller) ha una storia millenaria, che abbraccia tutti i continenti e le culture umane. Veniva usata dagli egizi per l’imbalsamazione dei faraoni, dagli assiri per risolvere le indigestioni, dai maya contro il mal di testa. Negli ultimi decenni, però, numerosi studi ci portano a pensare che abbia anche un ulteriore effetto non considerato dagli antichi, quello contro l’AIDS.

Una delle sostanze più interessanti del gel di Aloe, l’acemannano, ha un importante effetto di stimolazione del sistema immunitario. Esso è un polisaccaride raro (si trova solo nell’Aloe, nel Ginseng, nell’Astragalo e in poche altre piante) che attiva i fagociti, gli anticorpi e le cellule killer.

Uno studio del 1991 condotto all’università di Birmingham, in Inghilterra, suggerisce come l’acemannano possa inibire la replicazione in vitro dei virus di AIDS.
L’anno successivo, i ricercatori dei Laboratori di Carrington ad Irving (Texas) hanno dimostrato come la somministrazione di acemannano a gatti affetti da FIV (virus dell’immunodeficienza felina) aumenta notevolmente le possibilità di sopravvivenza e di guarigione. Secondo gli autori dello studio: “è stato trovato un tasso di sopravvivenza del 75%. Questi risultati suggeriscono che la terapia acemannana può essere di notevole vantaggio nei gatti infetti da FIV che presentano segni clinici di malattia”.

Altri studi hanno poi dimostrato che l’utilizzo della pianta di Aloe, e non di uno solo dei suoi innumerevoli componenti, ha ugualmente un potere di difesa contro questa malattia.
In Uganda, un paese con più di un milione di persone affette da HIV, nel 2010 è stata intrapresa un’indagine accurata per trovare nuove cure partendo da medicamenti tradizionali: l’Aloe è stata individuata come una delle piante più attive.
Nel 2012, infine, un gruppo di pazienti del Wesley Guild Hospital Ilesaun (Nigeria) è stato sottoposto ad un trattamento a base di polvere concentrata di Aloe, dando risultati molto simili a quelli avuti su pazienti trattati con normali medicine antiretrovirali, e dimostrando quindi come sia già la singola pianta un’efficace medicina. I ricercatori hanno concluso che: “sono stati monitorati un miglioramento generale e un benessere fisico (compreso l’aumento di peso) durante un periodo di un anno. Questi dati preliminari suggeriscono che il consumo di aloe vera può essere di aiuto agli individui infetti da HIV”.

Quindi, per concludere, seppur la strada verso la cura dell’AIDS è ancora lunga, è stato dimostrato come un aiuto inaspettato, ma concreto può venire anche dalle piante, e soprattutto da quella “pianta magica” che è l’Aloe vera, capace di agire anche dove i moderni medicinali spesso sono inefficaci.

Gabriele Bonetti

Bibliografia:

Kahlon, J. B., Kemp, M. C., Carpenter, R. H., McAnalley, B. H., McDaniel, H. R., & Shannon, W. M. (1991). Inhibition of AIDS virus replication by acemannan in vitro. Molecular biotherapy, 3(3), 127-135.

Lamorde, M., Tabuti, J. R., Obua, C., Kukunda-Byobona, C., Lanyero, H., Byakika-Kibwika, P., … & Waako, P. J. (2010). Medicinal plants used by traditional medicine practitioners for the treatment of HIV/AIDS and related conditions in Uganda. Journal of ethnopharmacology, 130(1), 43-53.

Olatunya, O. S., Olatunya, A. M., Anyabolu, H. C., Adejuyigbe, E. A., & Oyelami, O. A. (2012). Preliminary trial of aloe vera gruel on HIV infection. The Journal of Alternative and Complementary Medicine, 18(9), 850-853.

 

Yates, K. M., Rosenberg, L. J., Harris, C. K., Bronstad, D. C., King, G. K., Biehle, G. A., … & Tizard, I. R. (1992). Pilot study of the effect of acemannan in cats infected with feline immunodeficiency virus. Veterinary immunology and immunopathology, 35(1-2), 177-189.

Un minerale comune ma risorsa multiuso per l’uomo: il quarzo

Breve storia di un minerale tra i più diffusi sulla Terra e dalle molteplici varietà di colori ma che è anche il più rivoluzionario per l’umanità.

Con il termine quarzo, d’etimologia incerta ma che pare provenga da una parola slava che significa “duro”, si indica una specie mineralogica avente composizione chimica SiO2. Uno dei principali  metodi di classificazione utilizzato per identificare le varietà del quarzo prende in considerazione la morfologia esterna, suddividendoli in minerali costituiti da macrocristalli ben formati e visibili ad occhio nudo, talvolta addirittura monocristalli o, viceversa, se appaiono come aggregati  di microcristalli. Si ritiene che questo minerale si origini dalla solidificazione del magma o comunque per azione di fluidi a temperature comprese tra i 100 e i 400 °C. È costituente di molte rocce plutoniche (es. graniti), rocce ipoabissali (es. pegmatiti) e rocce vulcaniche (es. rioliti). È presente anche in rocce sedimentarie in cui è stabile sia come minerale detritico (es. sabbie alluvionali) sia come cemento di rocce consolidate (es. arenarie); cristallizza in soluzioni calde (geyseriti) e fredde (ialiti), inoltre costituisce un minerale diagetico derivato dallo scheletro di particolari organismi come i tripoli. In ambiente metamorfico è stabile sia agli estremi caldi che freddi (es. è presente in rocce metamorfiche come le quarziti e le eclogiti). Durante il processo di anatessi, meccanismo di fusione su grande scala che porta alla formazione di rocce a composizione granitica partendo da rocce di varia natura, è il primo componente a rifondere e tra i primi a ricristallizzare. È impossibile citare tutte le località in cui sia possibile trovare questo minerale in quanto è molto comune e diffuso in tutto il mondo. I cristalli di quarzo non sono conduttori di elettricità ma presentano le proprietà fisiche della piezoelettricità e della piroelettricità (più nello specifico con questi due termini si indica la capacità di sviluppare una differenza di potenziale se sottoposti a sollecitazioni; se è di tipo meccanico, come la compressione i cristalli, si dicono piezoelettrici se invece è di tipo termico, come il riscaldamento, si chiamano piroelettrici). Dal punto di vista ottico, questo minerale presenta elevata trasmissibilità nel visibile e soprattutto nell’ultravioletto. Inoltre il quarzo è un materiale dotato di notevole stabilità chimica e risulta inattaccabile dagli acidi eccetto l’acido fluoridrico, possiede elevata durezza, resistenza meccanica e al calore ed infine non presenta sfaldatura. In caso di rottura, nel quarzo si formano caratteristiche fratture concoidi. La tipica forma del quarzo monocristallino è un prisma a sezione esagonale, tozzo o slanciato, con estremità piramidali.

 

La sua durezza, da cui si è originato il nome, ha permesso già agli antichi ominidi del genere Australopithecus ed ai primi rappresentanti del genere Homo durante la produzione Olduvaiana, dal nome della Gola di Olduvai in Tanzania nell’Africa Orientale, di produrre oggetti ed utensili realizzati con questo minerale che, seppure poco lavorati, erano modellati allo scopo di formare punteruoli, asce e raschietti di cui servirsi per procacciarsi cibo, abbattere alberi, rimuovere rami e lavorare pelli d’animali per farne abiti, tende e recipienti. Oggetti ritrovati nella Gola risalgono ad un periodo oscillante tra i 2,6 e 1,7 milioni di anni fa.

 

In epoche successive il quarzo è stato usato per realizzare gioielli a cui venivano attribuiti dei valori simbolici. Per esempio il quarzo era considerato una delle sette gemme del “Razionale” (un pettorale sacro portato dagli antichi sacerdoti ebraici), ognuna delle quali rappresentava una qualità del Dio. In particolare l’ametista è legata ad altri valori storici-simbolici ed è la varietà di quarzo a presentarne di più. Nella mitologia greca, ad esempio, si narrava che Dioniso, dopo essersi infuriato con un essere umano, per vendicarsi sugli uomini creò delle tigri per strappare gli arti al prossimo sfortunato uomo incontrato. Lungo il sentiero, però, incontrò Ametista, giovane ed innocente fanciulla che stava andando a portare un’offerta alla dea Artemide, la quale, per salvarla, la trasformò in una statua di quarzo. Dioniso, pentitosi, versò molte lacrime sulla statua che assunse quindi un colore porpora. Nell’Antica Roma invece si diceva che Ametista fosse una ninfa del corteo di Diana, dea particolarmente sensibile al tema della castità. Di tale ninfa, in un momento di estasi etilica, si invaghì Bacco che iniziò così ad inseguirla per possederla. La ninfa chiese aiuto alla sua signora, la quale per proteggere non tanto la sua vita, quanto la sua castità, la trasformò in gelido cristallo di quarzo. Rinsavito dalla sbornia, Bacco si commosse della fine della ninfa e così le fece assumere il colore del vino e la proprietà di preservare dei ed umani dagli eccessi delle ubriacature. Infatti ametista deriva dal termine greco “non ebbro”, tant’è che sia i romani che i greci ritenevano che prevenisse l’ubriacatura. Così, soprattutto nella Roma imperiale, si diffuse tra i ricchi il costume d’immergere un anello di ametista nel bicchiere di vino prima di bere. Dato che all’epoca tale gemma era rara e preziosa e questa usanza era in voga solo tra i potenti, l’anello di ametista, divenne pian piano un simbolo di potere. Da questo costume e dal simbolo che all’epoca rappresentava venne utilizzato più tardi dalla Chiesa Cattolica Romana per esprimere autorità, tant’è vero che tutt’oggi tale anello fa parte del corredo vescovile. Nel contempo, però, divenne anche il simbolo della modestia, della pace dell’anima, della devozione e delle terapie spirituali ed inoltre il suo colore violetto, colore della penitenza, divenne il materiale adatto a fabbricare i rosari più costosi.

 

Figura 1. Quarzo Ametista. Foto realizzata da Giulia Cesarini Argiroffo proveniente dalla sua collezione privata di minerali.

 

Anche altre tipologie di quarzo hanno delle origini leggendarie, come il quarzo ialino o cristallo di rocca, che presenta una lucentezza vitrea. In questo caso l’etimologia del termine cristallo deriva dal greco “ghiaccio” in quanto si riteneva che questo minerale non fosse altro che ghiaccio congelato per l’eternità, erronea ipotesi avvalorata dalla struttura apparentemente esagonale, simile a quella dei fiocchi di neve, e dalla sensazione di freddo al tatto causata dalla conducibilità termica. Le differenze tra una e l’altra, soprattutto per quanto concerne il colore, sono dovute alle impurità che contengono e che ispirano il loro nome; a titolo esemplificativo è possibile citare il quarzo citrino, dal colore giallo limone conferito dal ferro, ed il quarzo rosa, la cui colorazione è dovuta alla presenza di titanio o manganese, ma sono molteplici le varietà di quarzo presenti in natura. Le impurità possono talvolta presentarsi in forma di scagliette lucenti, come gli aghi di rutilo presenti nel cosiddetto quarzo rutilato. Gli aghi di rutilo vengono anche chiamati “capelli di Venere” perché questi evidentissimi cristalli dal colore giallo possono ricordare dei capelli biondo ramati, il colore della chioma con cui viene tradizionalmente rappresentata appunto la dea Venere.

 

Figura 2. Quarzo rutilato. Foto realizzata da Giulia Cesarini Argiroffo proveniente dalla sua collezione privata di minerali.

Altre tipologie di quarzo dalla struttura fibrosa possono presentare altri tipi di inclusioni, come l’occhio di falco il cui nome è dovuto al fenomeno ottico del gatteggiamento, causato in questo caso dall’intrusione di fibre di crocidolite azzurra, per cui sulla superficie della gemma si osserva una banda di luce riflessa e diffusa che ricorda il taglio verticale delle pupille degli occhi del suddetto animale. Tutte le varietà sopracitate appartengono al gruppo dei macrocristalli. La struttura microcristallina, appartiene, ad esempio, al calcedonio, a sua volta suddiviso in alcune varietà come la corniola (nome forse dovuto alla similitudine con il colore della bacca del corniolo), la sarda (nome derivante da “Sardi”, una città della Lidia da cui proveniva) e l’agata (il cui nome forse deriva da un fiume della Sicilia, l’Achátes, caratterizzato da bande curve e concentriche).

Il quarzo viene usato anche nel campo tecnologico avanzato, ad esempio per fabbricare oscillatori, generatori di ultrasuoni e stabilizzatori di frequenze, lampadine, prismi e lenti per la spettrografia, ma viene anche impiegato nella produzione di rivestimenti, di pavimentazioni, di vetri, di refrattari, di abrasivi e per produrre componenti nella meccanica di precisione (in genere con supporti in agata) . Naturalmente è noto il suo impiego in gioielleria e nella creazione di oggetti ornamentali. Il quarzo viene inoltre utilizzato nell’industria degli orologi. Il primo orologio al quarzo risale al 1928 ad opera di J. W. Horton e W. A. Morrison (Stati Uniti). Come spesso accade nel campo della tecnologia, questi primi apparecchi erano molto ingombranti, costosi ed inaffidabili. Successivi perfezionamenti hanno portato alla realizzazione dei primi orologi portatili al quarzo nel corso degli anni sessanta, mentre il primo orologio da polso con display digitale (a LED) è entrato in commercio solo nel 1971. Attualmente gli orologi cosiddetti al quarzo sono basati sulla presenza di un oscillatore di tipo ceramico estremamente economico la cui precisione è superiore a quella dei movimenti meccanici. Oggigiorno il quarzo è presente in moltissimi altri apparecchi digitali.

Ricordiamo infine l’impiego dei cristalli di quarzo nella pratica di quella “medicina alternativa” che prende il nome di cristalloterapia.

Questo minerale, emblema della bellezza della natura, fa riflettere ancora una volta su quante risorse la Terra offra all’uomo, a quanto rispetto dobbiamo al nostro Pianeta e a quanto impegno dovremmo mettere per preservarlo nel migliore modo possibile.

Giulia Cesarini Argiroffo

Bibliografia:
Charline, E. (2013), 50 Minerali che hanno cambiato il corso della Storia, Roma, Ricca Editore.
Giordano, P. (1996), Minerali e gemme, Novara, De Agostini.
Mottana, A., Crespi R., Liborio G. (1977), Minerali e rocce, Milano, Mondadori.
Schumann, W. (2004), Guida alle gemme del mondo, Bologna, Zanichelli.

La gestione dei nidi di Sternula albifrons in Northumberland (UK): un esempio virtuoso

La colonia di fraticello (Sternula albifrons) nota con il nome di Long Nanny, si affaccia sul Mare del Nord dalla baia di Beadnell, nella contea Northumberland. A mezza via tra i villaggi di High Newton by the Sea e Beadnell, il sito è stato preso in carico e gestito dal National Trust fin dal 1977 ed ospita fino al 2% della popolazione Britannica riproduttiva di questa specie.

Oggi il fraticello è la seconda specie ornitica marina britannica per rarità: gli è stato attribuito uno stato di preoccupazione minima secondo i criteri IUCN, mentre, localmente, alla popolazione Britannica è stato attribuito colore ambra come stato di conservazione nella “List of Birds of Conservation Concern”. Compare inoltre come specie protetta sotto la “Schedule 1” nel “Wildlife and Countryside Act” del 1981.

La vulnerabilità della specie è da ricercarsi principalmente nell’incremento dei membri del pubblico che accedono ed utilizzano le spiagge. I fraticelli si trovano quindi in competizione diretta con gli umani per gli habitat idonei alla nidificazione e risultano influenzati negativamente dalle attività umane. Oltre a questo fattore, concorrono a determinare lo stato di vulnerabilità anche il disturbo causato da animali domestici, la predazione da parte di nemici naturali e il rischio di dilavamento dei nidi a causa di eventi di alta marea.

L’habitat idoneo alla nidificazione si individua in spiagge sabbiose o estuari, entro 2 km dalle aree di pesca, dove siano reperibili piccoli pesci e invertebrati.

I nidi consistono di depressioni superficiali scavate dagli adulti nella sabbia o tra fini ciottoli, dove vi sia poca o nulla vegetazione. Queste aree non vegetate sono spesso quelle inondate durante le tempeste invernali, di conseguenza, i nidi di fraticello si trovano frequentemente molto prossimi o persino al di sotto del livello dell’acqua durante gli eventi di alta marea.

La conservazione di una specie tanto vulnerabile e mobile risulta una sfida fatta di stimoli e difficoltà. La collaborazione di organizzazioni partners, così come il sostegno dello strumento di finanziamento EU LIFE+ Little Tern Recovery Project, risultano essenziali per consentire un’azione in concerto volta a garantire la tutela di un più alto numero di siti idonei alla specie.

Presso la colonia Long Nanny, l’installazione di recinzioni e l’insediamento in situ di cinque rangers per l’intero periodo riproduttivo, risultano una buona misura di controllo del disturbo umano e della pressione predatoria. Azioni più raffinate sono invece necessarie per affrontare il dilavamento dei nidi a causa della cosiddetta “spring tide”, una finestra di qualche giorno in cui la marea è particolarmente alta e che avviene una volta al mese. Questa rappresenta uno degli aspetti di maggiore preoccupazione presso la colonia Long Nanny.

L’intervento di gestione dei nidi che si svolge in questo sito è forse tra i più sorprendenti, soprattutto considerata la bassissima percentuale di abbandono in seguito all’azione. Consiste nel sollevamento del nido all’interno di casse precedentemente riempite di sabbia. Sulle casse, la lieve depressione che rappresenta il nido viene riprodotta manualmente, così come viene ricreata l’area circostante, disseminata di frammenti di conchiglie, alghe o ciottoli. L’operazione consente la geolocalizzazione del nido da parte degli adulti ed il loro successivo ritorno. Le casse vengono poi sollevate su bancali di legno con l’idea che, durante l’evento di alta marea, l’acqua possa scorrere al di sotto del bancale senza urtare la cassa, né bagnare le uova.

I fraticelli tendono a selezionare il sito per il proprio nido ad una certa distanza dalle altre coppie, tuttavia, è stato osservato che tollerano il graduale avvicinamento di altri nidi volto ad allontanare quelli in posizione più vulnerabile dalla linea di alta marea. Sembra che, finché esistono punti di riferimento forti e la posizione reciproca dei nidi è preservata, la percentuale di abbandono sia limitata.


Figura 1: Originale collocazione dei nidi di fraticello sulla spiaggia. (Foto di Freya Blockley)

Quando il mare è agitato e la pressione atmosferica è avversa, il sollevamento dei nidi non è sufficiente e diventa necessario l’intervento dei rangers che raccolgono le uova e i pulcini conservandoli in incubatrice per la durata dell’evento di alta marea. Anche in questo caso la percentuale di abbandono è sorprendentemente bassa.

Figura 2: Estensione del livello di alta marea durante l’evento di spring tide di fine Maggio 2017. (Foto di Freya Blockley).

Appare chiaro come, in una prospettiva a lungo termine, siano necessari interventi che creino autonomia nella specie. Alcuni passi sono stati compiuti in questa direzione. Ne è un esempio la predisposizione di decoys e richiami registrati allo scopo di attirare gli uccelli in siti di nidificazione più elevati rispetto alla linea di marea. Oppure la realizzazione di nuovo habitat riproduttivo attraverso cornici in legno riempite di sabbia che coprono aree erbose non idonee.

Sempre in questa ottica, l’estate passata il National Trust ha acquisito nuovi territori che si estendono sulla riva a Nord del fiume Long Nanny, che costeggia la colonia sfociando nel Mare del Nord. Questi terreni, entro i quali l’accesso al pubblico verrà controllato, sono finalizzati ad incrementare la disponibilità di habitat riproduttivo.

Figura 3: Collocazione dei nidi dopo l’intervento di gestione  in vista della spring tide di fine Giugno 2017. (Foto di Freya Blockley)

Della tutela riservata ai fraticelli giovano almeno altre due specie, che sono target degli interventi di protezione e monitoraggio del National Trust: la sterna artica (Sterna paradisea), con più di 1800 coppie riproduttive ed il corriere grosso (Charadrius hiaticula), con un minimo di 9 coppie riproduttive.

Oltre alla loro, è stata registrata la presenza e sospettata la nidificazione in situ di altre specie tra cui, ad esempio, volpoca (Tadorna tadorna), germano reale (Anas platyrhyncos), saltimpalo (Saxicola torquatus) e migliarino di palude (Emberiza schoeniclus).

Dato che un moderato disturbo umano alla vegetazione possa risultare, in molti casi, in un aumento della biodiversità, l’insediamento dei cinque rangers e lo sfruttamento del sito da parte dei visitatori comportano un aumento delle specie erbacee a fiore rintracciabili nella colonia. Si passa da specie legate a dune sabbiose, quali Cakile maritima, a specie strettamente legate a paludi salmastre come Armeria maritima, fino a specie di grande pregio naturalistico quali quelle appartenenti alla famiglia Orchidaceae.

Ma non è solo da un punto di vista naturalistico che il sito si distingue per importanza. Lo sforzo nel coinvolgimento dei visitatori e la partecipazione di volontari fanno del luogo una destinazione sempre più amata ed un sito che è testimonianza di un impegno difficilmente monetizzabile, che si manifesta nella condivisione di un obiettivo comune volto alla protezione della natura.

Marta Barberis

Bibliografia:

– Arthur B., Barberis M., Blockley F., McKinnon P., Valera M. (2017) Long Nanny Tern Site Report, 2017. Northumberland naturalist.
– BirdLife International (2016) Species factsheet: Sternula albifrons.
– Cabot, D. and Nisbet, I. (2013) Terns. HarperCollins, London
– Dorman, A., Hutchin, S., Regan, R., Slessor, O., Whittington, W., Long Nanny Tern Colony 2016. Northumberland naturalist.
– Eaton, M., Aebischer, N., Brown, A., Hearn, R., Lock, L., Musgrove, A., Noble, D., Stroud, D., and Gregory, R. (2015) Birds of Conservation Concern 4: the population status of birds in the UK, Channel Islands and Isle of Man British Birds no. 108 pp.708-746
– Finan, J., Hendry, T., Knight, K., Macias Rodriguez, S. and Reid, H. (2015) Long Nanny Tern Report, 2015. Northumberland naturalist.
– IUCN (2016) The IUCN Red List of Threatened Species. Version 2016-1. www.iucnredlist.org
– Robinson, R.A., Marchant, J.H., Leech, D.I., Massimino, D., Sullivan, M.J.P., Eglington, S.M., Barimore, C., Dadam, D., Downie, I.S., Hammond, M.J., Harris, S.J., Noble, D.G., Walker, R.H. & Baillie, S.R. (2015) BirdTrends 2015: trends in numbers, breeding success and survival for UK breeding birds.
– Research Report 678. BTO, Thetford. bto.org/birdtrends
Wildlife and Countryside Act 1981, schedule 1.
legislation.gov.uk/ukpga/1985/31

Votare a suon di starnuti: il caso unico dei licaoni

[…]”Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia”. (Pericle – Discorso agli Ateniesi 431 a.C.)

L’azione che più incarna il concetto di democrazia è sicuramente quella del voto. L’esigenza di votare nasce dalla necessità di mettere d’accordo individui che vivono nello stesso gruppo. Homo sapiens non è l’unico essere vivente che ricorre alle votazioni per prendere decisioni. Sono infatti numerose le specie animali che vivono in gruppi sociali e che hanno sviluppato nel corso della loro evoluzione metodi decisionali che sembrano del tutto paragonabili ad un sistema di voto per maggioranza.

Giovani di un branco di Lycaon pictus, fotografati dopo una battuta di caccia in Botswana (©Tarique Sani).

L’ultima scoperta in ordine di tempo riguarda i licaoni (Lycaon pictus), specie classificata come a rischio d’estinzione secondo la IUCN (International Union for Conservation of Nature). Secondo un recentissimo studio del gruppo di ricerca del Botswana Predator Conservation Trust, pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, i licaoni userebbero lo “starnuto” come strumento di voto. Reena Walker, primo autore del lavoro, e collaboratori, hanno infatti osservato, non senza sorpresa, che prima di muoversi per una battuta di caccia, nel branco di licaoni si verifica una bizzarra sequela di starnuti. A quanto pare, questi starnuti potrebbero essere determinanti nella decisione di passare da uno stato di riposo a quello di ricerca del cibo.

I licaoni, o cani selvatici africani, sono carnivori sociali che vivono in gruppi piuttosto numerosi, seguendo una rigida gerarchia. Mostrano cerimoniali di saluto molto stereotipati, chiamati “social rallies” che si verificano quando il gruppo comincia a spostarsi dopo un periodo di riposo. Queste adunate, tipiche dei canidi, in cui gli animali si sfiorano le teste con foga, scodinzolano e si muovono freneticamente, hanno la fondamentale funzione di rafforzare i legami tra gli individui, questione di vitale importanza per tutti gli animali sociali. Nella società dei licaoni, la coppia dominante è quella che gode di maggiori privilegi, traducibili in priorità nell’accesso al cibo, priorità riproduttiva e aiuto nell’allevamento dei piccoli da parte degli altri individui del branco.

In molte specie di canidi, tra cui sciacalli, dingo, volpi e cani, sono ben documentati segnali di comunicazione uditivi, sia vocali che nasali (respiri affannati, sbuffi etc.), generalmente legati a stati di agitazione del branco. In questo studio, per la prima volta in letteratura,  viene descritto lo starnuto come segnale di comunicazione, slegato dalla sua funzione fisiologica (liberare le vie aeree), e in assenza di pericoli o stati d’ansia degli animali .

Analizzando 68 social rallies in 5 diversi branchi di licaoni della Moremi Game Reserve , situata nella parte orientale del Delta dell’Okavango (Botswana), i ricercatori hanno osservato che, non solo il numero di starnuti risulta importante nel prendere la decisone di avviarsi per la caccia, ma sembrerebbe fondamentale anche chi emette questo segnale.

Infatti, se la coppia dominante è coinvolta nel rally, bastano pochi starnuti (in media 3) affinché il branco si muova. Se, invece, la coppia dominante non è coinvolta, saranno necessari più starnuti (circa 10) per innescare lo spostamento. Tutto ciò ha convinto i ricercatori della funzione dello starnuto come segnale di comunicazione che si attiva (partenza del gruppo) al raggiungimento di una certa soglia: un vero e proprio quorum. Il processo decisionale attraverso il raggiungimento di un quorum è già stato studiato in diverse specie sociali tra cui suricati, api, formiche e vari primati non umani. In aggiunta, nelle osservazioni sui gruppi di licaoni emerge anche un altro aspetto molto interessante:  il valore diverso dei voti dei membri del branco. Pur trattandosi di un meccanismo “democratico”, i dati mostrano che gli individui dominanti contano di più e giocano un ruolo fondamentale nel processo decisionale e nella creazione del consenso, aspetto che non stupisce considerando il tipo di società  rigidamente gerarchica dei licaoni.

Serviranno ulteriori osservazioni per confermare che lo starnuto sia un vero e proprio segnale di comunicazione in questa specie ma, senza dubbio, questo studio pone le basi per approfondire le conoscenze sui complessi sistemi di comunicazione sociale nei canidi.

Giulia Spada

Bibliografia:

  • Deaux, E.C., Clarke, J.A. (2013). Dingo (Canis lupus dingo) acoustic repertoire: form and contexts. Behaviour, 150, 75–101.
  • Franks, N.R., Deschaume-Moncharmont, F.,Hanmore, E., Reynolds, J.K. (2009). Speed versus accuracy in decision-making ants: expediting politics and policy implementation. Phil.Trans. R. Soc. B 364, 845–852.
  • Lehner, P.N. (1978). Coyote vocalizations: a lexicon and comparisons with other canids. Anim. Behav. 26, 712–722.
  • Walker, R.H., King, A.J., McNutt, J.W., Jordan, N.R. (2017). Sneeze to leave: African wild dogs (Lycaon pictus) use variable quorum thresholds facilitated by sneezes in collective decisions. Proc. R. Soc. B 284: 2017347.

Il complesso percorso dell’alimentazione umana

Da mangiatori di carcasse a cacciatori, da allevatori-agricoltori alla produzione industriale, il percorso dell’alimentazione umana è stato lungo e tortuoso. Quando è avvenuto il decentramento del cibo nella cultura umana? Quando le sane tradizioni hanno lasciato il posto ai cibi precotti e ai surgelati? Quando si è scelto di compromettere la nostra salute in nome del progresso industriale?

 

L’uomo moderno, così come tutti i primati, deriva da un gruppo di mammiferi insettivori i quali, terminata l’era dei dinosauri, poterono diffondersi verso un numero sempre maggiore di nicchie ecologiche. La conquista dei più svariati ambienti offerti dalla terraferma plasmò un numero consistente di specie estremamente diversificate tra loro. Fra queste, tra le chiome degli alberi, si affermano le proscimmie: un gruppo di primati ancestrali che, per prime, hanno iniziato a diversificare la loro dieta, includendovi, in particolare, abbondanti porzioni di frutta.

Alcune di queste creature arboricole sono giunte tal quali fino ai giorni nostri, altre, nel corso del tempo, si sono evolute fino ad originare le scimmie vere e proprie.

Circa cinque milioni di anni fa si verifica la separazione, in termini evolutivi, del genere Pan (il ben noto Scimpanzè, ma anche il Bonobo) dal gruppo di primati che darà origine al genere Homo.

I primi ominidi, più per necessità che per scelta, abbandonarono gradualmente la vita arboricola, colonizzando le aree aperte. Ne consegue che i nostri antenati entrarono in competizione con delle nuove specie del tutto assenti in un ambiente di foresta e dovettero così andare incontro ad una serie di adattamenti fisiologici e comportamentali, fra i quali l’alimentazione. Un primo sostanziale mutamento consistette nel divenire dei mangiatori di carcasse. Questa “scelta” fu l’unico compromesso possibile tra la necessità di introdurre un alimento facilmente digeribile come la carne e la mancanza di una fisionomia idonea alla caccia attiva. Successivamente, di pari passo allo sviluppo di un cervello sempre più complesso, i primi Homo sapiens, supplirono all’assenza di armi naturali per la caccia, costruendo armi artificiali.

La caccia diede il primo importante input per la formazione di società via via più complesse, poiché essa richiedeva un forte spirito collaborativo, nonché la necessità di ripartire i compiti all’interno del gruppo. Il passo decisivo verso la formazione di stabili gruppi sociali fu poi compiuto nel momento in cui i primi uomini si convertirono da cacciatori-raccoglitori nomadi ad allevatori-agricoltori sedentari. La domesticazione di piante e animali avvenne all’incirca 10 mila anni fa, nel periodo storico comunemente noto come neolitico, e fu la più grande rivoluzione che la nostra specie abbia mai compiuto. Improvvisamente il cibo abbondava generando dei veri e propri surplus alimentari, costringendo così gli individui ad ingegnarsi per sviluppare delle tecniche di conservazione degli alimenti. Da questo cruciale punto in poi, la dieta umana inizia ad assumere le più svariate sfaccettature. In tutti i casi, le diete che si sono sviluppate nel corso dei millenni, hanno risposto alle esigenze climatiche dell’area in cui si sono originate, per poi divenire delle fattezze culturali di ogni popolo. Per gli Egizi le stagioni erano tre e coincidevano con i ritmi della vita agricola: akhit, l’inondazione; perit, la germinazione; shemu, la stagione del raccolto. L’alimento preponderante era il pane, diverso dal nostro in quanto fatto con la farina d’orzo piuttosto che con il grano, poi, a seconda della classe sociale la dieta veniva integrata con carne, nel caso dei più ricchi o verdura e legumi nel caso dei ceti più bassi. Gli Etruschi si nutrivano per lo più di farro, piselli, orzo, latte, formaggi e frutti selvatici sebbene il consumo di carne non fosse del tutto assente. Mentre i bovini erano destinati ai lavori agricoli, il maiale veniva frequentemente arrostito alla brace.

Nell’antica Roma era abitudine fare tre pasti al giorno: la prima colazione (Jentaculum) si consumava tra le otto e le nove del mattino ed in genere era composta da latte, pane, uova e formaggi; il pranzo (Prandium) avveniva entro mezzogiorno e consisteva in pietanze a base di carne, pesce e verdure, generalmente consumate rapidamente ed in piedi, a casa o nelle tabernae; la cena (Coena) si effettuava in compagnia e, nel caso dei patrizi, sul triclinium, una specie di divano a tre posti.

Nel corso del medioevo si accentuò il divario tra ricchi e poveri anche e soprattutto in termini alimentari. I primi ricercavano i piatti più stravaganti ed elaborati, i secondi, spesso pativano la fame. La caccia, in questo periodo, divenne lo sport dei nobili. I contadini si nutrivano di piccoli animali e di formaggi, ma frequentemente i cereali rappresentavano l’unico alimento disponibile. In ogni caso, il medioevo diede un forte impulso allo sviluppo di una cultura alimentare sempre più complessa: crebbe l’attenzione per le erbe medicinali, aumentò la complessità dell’organizzazione rurale e vennero ampliate e perfezionate le tecniche di conservazione dei cibi.

Nel rinascimento le famiglie nobili includevano a corte anche i cosiddetti “direttori di mensa”, i quali rendevano articolato e spettacolare l’atto del mangiare.

Con la scoperta dell’America, le tradizioni alimentari europee vengono ampliate grazie all’introduzione di patate, mais, fagioli, pomodori, peperoni e cacao, alimenti che hanno contribuito notevolmente all’affermarsi delle più tipiche tradizioni culinarie.

Questo appena descritto è un sintetico ed approssimativo percorso cronologico dell’alimentazione umana, percorso che, nel caso delle moderne società, assume un aspetto totalmente differente. In un contesto sociale frenetico, sovraffolato e tecnologico l’attenzione per il cibo viene sempre meno. La produzione alimentare sposta gradualmente il proprio baricentro dalle campagne alle industrie. La conservazione dei cibi diviene un imperativo: conservanti chimici, surgelati, tecniche di pastorizzazione ed essiccazione, prendono prepotentemente la scena. Quello che ne risulta è un sistema alimentare compromesso, sbilanciato e per nulla salutare. Per far fronte alla crescente domanda di cibo in relazione ad una popolazione umana in esponenziale crescita la quantità prende il posto della qualità: allevamenti ed agricoltura intensivi sostituiscono gli armoniosi paesaggi rurali di un tempo. Questa produzione sconsiderata ha come risultato che circa un terzo del cibo prodotto annualmente per il consumo umano, vale a dire 1,3 miliardi di tonnellate, va perduto o sprecato. Dati assolutamente preoccupanti se si pensa che i consumatori dei paesi industrializzati sprecano quasi la stessa quantità di cibo dell’intera produzione alimentare netta dell’Africa sub-sahariana. A questo va aggiunto che nei paesi industrializzati la maggior parte della produzione interessa alimenti ad alto contenuto calorico e di grassi saturi idrogenati, i quali altamente dannosi per l’organismo poiché abbassano i valori del colesterolo benefico HDH.

Allo stato attuale quindi si hanno delle società industrializzate interessate da abbondanza di cibo e società in via di sviluppo con gravi carenze alimentari. Le prime producono tanto, inquinano molto, basti pensare che gli allevamenti intensivi sono responsabili del 18% dell’emissioni di gas serra globali; consumano male e si ammalano conseguentemente a ciò: negli Stati Uniti il 5,7% della popolazione è considerato estremamente obeso; il diabete, che nel 2010 interessava 285 milioni di persone,  potrebbe interessare 440 milioni di individui nel 2030.

Le seconde, ancora legate alle tradizioni rurali, producono il cibo come un tempo, ma gli effetti negativi apportati dalle prime, si riversano proprio su questa categorie più fragile. Secondo la FAO, quasi un miliardo di persone risulta essere sottonutrita nei cosiddetti paesi del terzo mondo.

Alla luce di queste contraddizioni e di questi spaventosi divari, è indispensabile un cambio di rotta che rimetta in discussione l’intero sistema alimentare mondiale. L’alimentazione è stato un fattore determinante nell’evoluzione umana prima e nello sviluppo culturale poi. Quel che un tempo ha generato collaborativi gruppi sociali ora determina squilibri ed ingiustizie.

Non c’è nulla di sbagliato nel progresso, ma, forse, nel caso della produzione alimentare, è necessario fare un consistente passo indietro.

Simone Valeri

Bibliografia:
– Schillaci, F. (2013). Un pianeta a tavola: decrescita e transizione agroalimentare. Editori Riuniti.
– Farina, L., et al. (2002). Il nutrimento: la grande avventura dell’alimentazione.
– FAO (2011). Global Food Losses and Food Waste. http://www.fao.org/food-loss-and-food-waste/en/
– Morris, D. (2012). La scimmia nuda: studio zoologico sull’animale uomo. Giunti.