Giada e pseudogiada

Con il termine giada, che in genere si presenta di color verde per effetto della presenza del cromo, si tende ad indicare commercialmente sia un materiale pregiato formato da giadeite, sia prodotti naturali di più basso valore come la nefrite, varietà del minerale attinolite. Il motivo di questo equivoco è dovuto al fatto che giadeite e nefrite sono specie mineralogiche difficilmente distinguibili. 

Ciondolo in giada. (Ph Giulia Cesarini Argiroffo).

La giada in realtà non è propriamente un minerale, ma piuttosto una pietra composta da particolari minerali (giadeite e nefrite) distribuiti all’interno di essa in una struttura costituita da granuli molto fini e fibre intrecciate che si origina per lo più in ambiente metamorfico. Per questo motivo, da sempre c’è il rischio che altri minerali che non hanno nulla a che vedere con la giadeite o la nefrite vengano venduti come giada. Fu il francese Damour che nel 1863 dimostrò che in questa gemma, nota già da 7000 anni, si dovevano distinguere due minerali diversi, appunto la giadeite e la nefrite.

Il nome giada risale a quando gli spagnoli invasero l’America Centrale e Meridionale: questo termine, infatti, deriva dallo spagnolo e significa “pietra del fianco” con riferimento ai reni, in quanto si era soliti usarla come amuleto e mezzo di cura per le malattie renali. Oggigiorno questa gemma viene usata in cristalloterapia per aiutare a calmare il cuore e per trovare la giusta predisposizione psicologica per prendere le corrette decisioni.

Di seguito cercheremo di analizzare più nel dettaglio le differenze tra giadeite e nefrite.

La giadeite, il cui nome deriva da “giada” e la cui formula chimica è NaAlSi2O6, è molto tenace e resistente grazie ad un compatto accrescimento e si forma solamente in quantità ridotte come aggregati microcristallini di granuli finissimi, traslucidi od opachi, con fibre feltrose e si trova in quasi tutte le colorazioni. Lungo le superfici di frattura presenta una lucentezza vitrea debole.

In ambito metamorfico se reagisce con acqua dà il glaucofane, che assieme al granato forma le eclogiti mentre se reagisce con il quarzo produce il feldspato plagioclasio albite.

Della giadeite è possibile distinguere le seguenti varietà:

la giada imperiale (che è la più pregiata e presenta un colore verde smeraldo e proviene dal Myanmar), la cloromelanite (varietà maculata verde e nera), la giada-albite o maw-sit-sit (aggregato verde chiaro intenso con macchie di colore verde scuro quasi nere), la giada-magnetite (nome commerciale della giada dorata artificialmente) e la giada Yünan (nome commerciale improprio della maw-sit-sit).

I giacimenti di giadeite più significativi si trovano nel Myanmar settentrionale superiore presso Tawmaw e sono incassati in serpentine e fra conglomerati o sedimenti fluviali. Altri giacimenti si trovano in Canada, Cina (Yünan), Giappone, Kazakistan, Messico, Guatemala, Russia (Siberia), Stati Uniti (California) e seppure rarissimi anche in Italia (in particolare in Piemonte).

La nefrite, nome derivante dal greco “néphrós” che significa rene, come già accennato prima, è un attinolite e presenta una densa tessitura feltrosa e la formula chimica è Ca2(Mg,Fe)5[Si4O11]2(OH)2.

Quando si trova in aggregati microcristallini è più tenace, mentre quando è monocristallina è fragile e più diffusa della giadeite. La varietà più pregiata è quella verde; ciò non di meno in natura si presenta in quasi tutti i colori, anche striata o maculata, spesso con una sfumatura giallastra con lucentezza vitrea, molto simile alla giadeite. I giacimenti storicamente significativi sono in Nuova Zelanda (nelle serpentine, nei sedimenti fluviali o litoranei). Ulteriori giacimenti si trovano anche in Australia, Brasile, Canada, Cina (Sinkiang), Messico, Russia, Stati Uniti (Alaska), Taiwan, Zimbawe e in passato anche in Polonia (Alta Slesia).

Durante la Preistoria ed in particolare nel neolitico, questa gemma grazie alla sua straordinaria tenacità, era ritenuta un materiale pregiato per la produzione di armi (in genere asce) ed oggetti vari. Di conseguenza negli scritti antichi quella che adesso noi sappiamo essere nefrite veniva anche definita “pietra da scuri”

In Cina la giada veniva considerato il materiale più nobile, soprattutto per la bellezza che acquisiva una volta levigato; in particolare, i pezzi color smeraldo chiaro erano tenuti in grande considerazione e simboleggiavano purezza, bellezza, forza, lunga vita, saggezza e coraggio. Attualmente spesso i cinesi la paragonano poeticamente ad una bella fanciulla, soprattutto alla sua pelle che si ritiene levigata come la superficie di questa gemma. Già intorno al 3000 a. C. la giada faceva parte del culto degli dei e veniva lavorata per la produzione di oggetti simbolici, collegati alla mistica. La bellezza indelebile di questa gemma portò a credere che fosse un materiale immortale e per questo veniva posta in forma di amuleto sul petto, sulla bocca e sul viso dei defunti. Sembra inoltre che gli imperatori ed i funzionari di alto rango cinesi venissero seppelliti con abiti intarsiati da placche di giada. Nel Taoismo popolare “l’imperatore della giada” è l’entità celeste suprema. Occorre notare che fino alla metà del Settecento in Cina veniva lavorata esclusivamente la nefrite, di origine cinese, mentre successivamente è iniziato l’uso della giadeite importata dal Myanmar.

Nell’America Centrale e precolombiana la giada era più pregiata dell’oro, era apprezzata già all’epoca degli Olmechi intorno all’800 a. C. e veniva adoperata per fabbricare oggetti di culto. Addirittura con questo minerale venivano fabbricati delle pietre che simboleggiavano il cuore e che  poi venivano messe nelle urne delle ceneri dei principi defunti. Dagli studi mineralogici delle giade Maya si è rilevato che si tratta di giadeite.

Tuttavia, dopo la conquista del Centro America da parte degli spagnoli, si perse l’arte dell’intaglio, mentre in Cina la lavorazione non ha mai avuto soste e per oltre 5.000 anni la giada venne usata per realizzare oggetti di culto.

In Nuova Zelanda la popolazione dei Maori intagliava la giada, per lo più la qualità della nefrite verde, anche se storicamente tale nome si riferiva a diverse varietà di pietre verdi da loro chiamata “Pounamu”. Questa pietra veniva intagliata per fabbricare arnesi, armi ed ornamenti che al giorno d’oggi sono diventati patrimonio culturale dei Maori.

Attualmente vengono realizzati oggetti ornamentali fra cui vasi, gioielli ed oggetti di culto tanto in giadeite che in nefrite.

Purtroppo esistono anche molte imitazioni e riproduzioni con altri materiali, taluni addirittura artificiali. Oltre al vasto numero di rocce e minerali verdastri che vengono spacciati per giada, anche le denominazioni di altre pietre contribuiscono a generare confusione; per fare un esempio, la cosiddetta “giada indiana” è il nome commerciale scorretto del quarzo-avventurina e del vetro avventurina.

In conclusione, quando ci si trova davanti ad oggetti che ci dicono essere realizzati con questa pietra è importante domandarsi, soprattutto in caso di acquisto, se sono fatti in giadeite (più nobile), in nefrite (meno pregiata) o, peggio ancora, se si tratta di altri materiali naturali od artificiali che vengono denominati erroneamente, in buona fede o per malizia, “giada”.

Giulia Cesarini Argiroffo

BIBLIOGRAFIA:

Biedermann, H. (1991), Enciclopedia dei Simboli, Milano, Garzanti.
Charline, E. (2013), 50 Minerali che hanno cambiato il corso della Storia, Roma, Ricca Editore.
Giordano, P. (1996), Minerali e gemme, Novara, De Agostini.
Mottana, A., Crespi, R., Liborio, G. (1977), Minerali e rocce, Milano, Mondadori.
Schumann, W. (2004), Guida alle gemme del mondo, Bologna, Zanichelli.

Le Nepenthaceae – piante carnivore paleotropicali – e i potenziali effetti dei cambiamenti climatici

La famiglia monotipica (con un solo rappresentante gerarchicamente inferiore) paleotropicale delle Nepenthaceae è la più grande famiglia di piante carnivore e comprende circa 140 specie. Le Nepentacee hanno un’ampia estensione geografica attraverso i Paleotropici, dal Madagascar attraverso l’Asia Sud-Orientale, fino alla Nuova Caledonia; il cuore della diversità comprende le isole di Borneo, Sumatra e le Filippine.

I nutrienti provenienti dalle prede catturate vengono utilizzati da queste piante per integrare quelli prelevati dai substrati che ne sono poveri. La foglia ha la parte basale laminare, adatta all’assimilazione, cui segue un tratto intermedio simile a un picciolo, che serve da viticcio, e infine la parte distale foggiata a urna il cui margine superiore, ingrossato e obliquo verso l’interno, è liscio. Gli insetti che vi si posano, attratti dal nettare, scivolano precipitando nel liquido acquoso raccolto nell’urna, secreto dalle pareti di questa; le parti molli delle prede sono digerite dagli enzimi proteolitici presenti nel liquido suddetto e assimilate dalla pianta.

Nepenthes villosa (wikimedia)

Il genere Nepenthes (unico genere di questa famiglia) è caratterizzato da un endemismo stretto. La maggior parte delle specie rientrano in due raggruppamenti piuttosto ampi, definiti in gran parte dalle loro distribuzioni altitudinali: le specie “di altopiano” sono limitate ad habitat montani più freddi, di solito superiori a 1100 m s.l.m., e possono occupare una sola vetta o estendersi su un piccolo numero di cime all’interno di una singola catena; mentre le specie cosiddette “di pianura” si estendono in habitat che vanno da 0 m a circa 1100 m sul livello del mare (s.l.m.).

Data la nota vulnerabilità dei taxa degli altopiani tropicali agli effetti del cambiamento climatico, è stato recentemente condotto uno studio proprio al fine di confrontare le possibili conseguenze di tali effetti sull’estensione di habitat climaticamente idonei a due specie di Nepentacee, una di altopiano e una di pianura (rispettivamente Nepenthes tentaculata e N. rafflesiana), dell’isola del Borneo. Si prevede, infatti, che i cambiamenti climatici antropogenici potranno avere effetti profondi sulla distribuzione delle specie nei prossimi decenni.

Questa la domanda che si sono posti gli studiosi: Come prevedere se il cambiamento climatico a base antropogenica potrà influenzare le aree di habitat climaticamente idoneo per le due specie esaminate?”

Ecco la risposta: il team di scienziati, utilizzando un software di modellazione ecologica e prendendo in considerazione diciannove variabili bioclimatiche, ha ottenuto, per ciascuna delle due specie, modelli di idoneità dell’habitat sull’isola del Borneo. Ognuno dei modelli acquisiti è stato poi proiettato sulle superfici climatiche digitali del 2020, 2050 e 2080 che rappresentano i trend climatici previsti su singoli periodi di durata trentennale.

In base ai risultati della ricerca si prevede un aumento dell’area di habitat climaticamente adeguato per la specie di pianura N. rafflesiana entro il 2100; al contrario, per la specie dell’altopiano N. tentaculata sarebbe prevista, nello stesso periodo di tempo, una significativa perdita di habitat climaticamente idoneo. Una prospettiva piuttosto debole sarebbe attesa anche per diverse altre specie montane del genere Nepenthes provenienti dalle montagne più alte del Borneo, come N. lowii, N. rajah, N. villosa e N.macrophylla.

Quali le possibili azioni future di tutela? 

Le strategie pratiche di mitigazione da prendere in considerazione secondo gli studiosi sarebbero principalmente tre:

  1. Raccolta di semi di specie vulnerabili per lo stoccaggio a lungo termine nelle banche del germoplasma;
  2. Migrazione assistita di semi o piantine di specie altamente vulnerabili;
  3. Costituzione di metapopolazioni (una metapopolazione è un insieme di popolazioni locali che interagiscono all’interno di un’area più estesa o di una regione) che includano zone di habitat idoneo non attualmente abitate dalla specie bersaglio.

Sebbene lo studio proposto utilizzi specie del Borneo, è importante evidenziare che i risultati sono applicabili a specie Nepenthes endemiche di zone montuose in tutta la vasta area geografica occupata dalle Nepenthaceae.

Angela Chimienti

 

Bibliografia e sitografia:

Gray, L.K., Clarke, C., Wint, G.W., Moran, J.A. (2017) Potential effects of climate change on members of the Palaeotropical pitcher plant family Nepenthaceae. PLoS ONE, 12(8): e0183132. doi.org/10.1371/journal.pone.0183132.
Smith, TM. Smith, RL. (2007). Elementi di ecologia. Milano, Italia: Pearson Paravia Bruno Mondadori S.p.A.
treccani.it/enciclopedia/nepentacee/
treccani.it/enciclopedia/monotipico/

L’altruismo dei “vampiri”

La particolare strategia di sopravvivenza messa in atto dai pipistrelli vampiro. 

Desmodus rotundus, più comunemente conosciuto come pipistrello vampiro, è un Chirottero che vive in colonie nelle cavità degli alberi e nelle grotte dell’America centro-meridionale. Il suo nome comune deriva dal fatto che questo micro-mammifero non si nutre di frutta o insetti come le altre specie di pipistrello, ma, grazie a particolari sostanze anticoagulanti presenti nella sua saliva, succhia esigue quantità di sangue da altri animali.

L’altruismo dei “vampiri”

In ogni colonia, gli individui non imparentati tra loro collaborano costantemente per prendersi cura dei cuccioli, per proteggersi dal freddo e anche per difendersi dai predatori.
Tuttavia non sono solo questi i gesti di altruismo di cui i pipistrelli vampiro sono capaci.
Infatti, essi sono addirittura disposti a rigurgitare una piccola quantità del sangue ingerito durante la notte per donarla ad un altro membro del gruppo che non è riuscito a procurarsi un pasto. Nonostante questo comportamento possa sembrare paradossale ed in contrasto con la selezione naturale, in realtà è di fondamentale importanza per la sopravvivenza di questa specie. Infatti, i pipistrelli vampiro devono alimentarsi molto frequentemente perché, a causa del loro metabolismo veloce, hanno scarsissime probabilità di sopravvivere fino alla notte successiva senza cibo. Quindi è proprio per far fronte a questo problema che i membri della colonia, non appena si rendono conto che uno di loro non ha mangiato, gli donano un po’ di sangue, che gli permette di riacquistare le forze sufficienti per cercare altro cibo.

In etologia questo comportamento è un chiaro esempio di altruismo reciproco, descritto per la prima volta negli anni Settanta dal biologo evoluzionista Robert Trivers come “l’aiuto di un animale verso un conspecifico non imparentato con lui, senza ricevere un vantaggio immediato”. E’ in pratica quello che gli antichi romani avrebbero chiamato “do ut des”, ossia “dare con il fine di ricevere qualcosa in cambio, in futuro”.

I pipistrelli vampiro, infatti, ricordano chiaramente chi ha salvato loro la vita ed in caso di necessità sono subito pronti a ricambiare il favore. E’ proprio per questo motivo che l’altruismo è un prodotto della selezione naturale: conviene sempre aiutare un compagno in difficoltà, perché è l’unico modo per assicurarsi lo stesso trattamento in caso di necessità. Viceversa, un comportamento egoista secondo il quale non si restituisce l’aiuto ricevuto è sempre dannoso e può mettere gravemente a rischio la sopravvivenza dell’individuo che lo pratica, perché in un secondo momento nessuno gli offrirà più soccorso.

Ecco, quindi, spiegato il motivo per cui l’altruismo è così diffuso  tra i “vampiri”: per loro rappresenta un’infallibile strategia di sopravvivenza.

Anita Bergamo

Bibliografia

Carter, G. G., & Wilkinson, G. S. (2013, February). Food sharing in vampire bats: reciprocal help predicts donations more than relatedness or harassment. In Proc. R. Soc. B (Vol. 280, No. 1753, p. 20122573). The Royal Society.

Wilkinson, G. S. (1988). Reciprocal altruism in bats and other mammals. Ethology and Sociobiology, 9 (2-4), 85-100.

Wilkinson, G. S. (1990). Food sharing in vampire bats. Scientific American, 262 (2), 76-83.

Una nuova minaccia per la natura: la luce

Se dico “inquinamento” probabilmente penserai alle automobili, alle industrie, alle cicche delle sigarette, ma scommetto che la luce non sarà la prima cosa che ti verrà in mente.

Sembra incredibile, ma per alcuni animali, in particolar modo per gli insetti, l’illuminazione artificiale può portare ad un cambiamento nel loro comportamento e ad una riduzione della capacità di sopravvivenza. Se poi questi insetti sono impollinatori, il problema non è più solo della natura, ma anche nostro.

Street Lamp © Pexels

L’impollinazione da parte degli insetti (entomogama) è importantissima per tutti noi.

Ti basti pensare che la maggior parte delle specie vegetali che portiamo sulle nostre tavole dipende proprio dagli insetti (pronubi). Pensa se non ci fossero le fragole!

Mai come in questi anni sentiamo parlare del declino mondiale delle specie impollinatrici e studi sempre più numerosi mettono in relazione i problemi della natura con le attività antropiche. Tra queste c’è anche l’illuminazione notturna.

Uno studio congiunto Franco-Svizzero dal titolo Artificial light at night as a new threat to pollination, ha esplorato questo tema e ne è emerso che la luce artificiale non solo crea problemi agli impollinatori notturni, ma anche a quelli diurni con una significativa perdita, in termini di resa, da parte delle piante coltivate.

Knop e colleghi hanno monitorato 14 diversi prati svizzeri privi di illuminazione. In 7 di essi hanno installato delle lampade come quelle per l’illuminazione stradale, mentre gli altri 7 sono stati tenuti privi di illuminazione per verificare eventuali differenze tra questi due contesti.

Non solo nei prati illuminati è stata osservata una riduzione significativa del numero di interazioni pianta-insetto, ma anche un calo drastico del numero di specie che hanno visitato l’area. Questo potrebbe essere dovuto sia al potere attrattivo della luce su alcune specie (es.: falene), sia a possibili cambiamenti fisiologici nella flora dei prati che li ha resi “meno attraenti” agli occhi degli insetti. Un ambito, quest’ultimo, tutto da esplorare.

Il team di studiosi ha quindi valutato l’impatto dell’inquinamento luminoso sulla capacità di impollinazione degli insetti notturni grazie alla specie vegetale Cirsium oleraceum, presente su 10 dei siti di indagine, 5 dei quali provvisti di illuminazione artificiale.

Cirsium oleraceum © Wikimedia

A seguito del monitoraggio è stata osservata una riduzione del 13% nella produttività dell’essenza vegetale, che nel lungo termine può influenzare la sopravvivenza non solo della specie stessa C. oleraceum, ma anche degli impollinatori diurni che fanno affidamento su questa essenza.

L’impollinazione è un meccanismo fondamentale per la propagazione delle specie vegetali in natura e per il mantenimento della biodiversità. Ora più che mai è importante comprendere meglio quali sono i fattori che minacciano gli impollinatori e quale è il loro ruolo nel declino mondiale delle popolazioni di insetti.

Mentre c’è ancora molto da comprendere, tutti noi possiamo contribuire con piccoli gesti quotidiani alla salvaguardia degli insetti, anche all’interno delle città.

Per esempio: hai mai pensato di piantare dei fiori sul tuo balcone?

Carlo Taccari

Bibliografia
Knop E., Zoller L, Ryser R., Gerpe C., Hörler M. & Fontaine C. (2017) Artificial light at night as a new threat to pollination. Nature 548, 206–209.

L’altruismo e la cooperazione negli animali

Nonostante molti esseri umani possano pensare che capacità di empatia, altruismo, cooperazione e aiuto del prossimo siano presenti solamente nella nostra specie, il mondo animale ci dice tutt’altro. Infatti, i comportamenti e le manifestazioni di questi fenomeni esistono anche in altre specie e possono essere anche molto diversi rispetto ai nostri. Grooming, offerte di cibo, alleanze…e ancora, chiamate di allarme, collaborazioni o salvataggi.

You scratch my back and I’ll scratch yours”: questo detto inglese descrive al meglio una relazione cooperativa che porta vantaggi ad entrambi gli individui. Un po’ come succede nelle cosiddette simbiosi mutualistiche, dove specie diverse ottengono un vantaggio evolutivo dalla convivenza reciproca. Ma quello che alcuni esseri viventi non umani sono in grado di fare può andare ben oltre un semplice scambio di favori. Ad esempio tra gli animali esiste quello che si chiama altruismo reciproco, per il quale sono state stabilite tre condizioni essenziali affinché si evolva e si stabilisca. La prima è che ci siano piccoli costi da sostenere e grandi benefici da ricevere; la seconda è che ci sia un ritardo tra l’atto iniziale del dare e quello reciprocato; la terza è che esistano multiple opportunità per interagire, con il dare che dipende dal ricevere. Ciò che distingue un rapporto mutualistico da quello altruistico reciproco è la seconda condizione, ovvero l’assenza di un ritardo tra le azioni dei due “attori” biologici.

Un esempio di suricato (Suricata suricatta) che fa da sentinella. Foto di nationalgeographic.it

Negli animali sociali appartenenti a specie ittiche, negli Uccelli o nei Mammiferi lo stare in gruppo porta a notevoli vantaggi reciproci: ridurre la probabilità di essere predati, aumentare le possibilità di trovare un partner riproduttivo, nutrirsi del cibo cacciato o trovato da altri individui del gruppo, ecc. Ma cosa si intende realmente per altruismo negli animali?

In uno studio condotto dal neurobiologo Jean Decety dell’Università di Chicago e pubblicato su Science è stato visto come esista un forte componente empatica ed altruistica anche nei Roditori, simile a quella umana. Durante l’esperimento, quando ad un ratto veniva data la possibilità di scegliere tra salvare un suo conspecifico già conosciuto o mangiare un pezzo di cioccolato (un alimento particolarmente gradito) preferiva prima salvare il compagno e poi dividere il cibo oppure mangiare un po’ di cioccolato, liberare il compagno e lasciare che questo ne mangiaste il resto.

Sicuramente quando si parla di azioni altruistiche nel mondo animale, uno degli esempi classici che riguardano i Primati è il già citato grooming, ovvero lo spulciarsi reciprocamente. Un comportamento particolarmente noto e che ha un valore adattativo importante, oltre a servire per ridurre il numero di parassiti, anche per stabilire le gerarchie di dominanza e i rapporti sociali in moltissime specie. A questo proposito l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) ha costituito un database raccogliendo dati etologici su 14 specie diverse di Primati, trovando risultati inattesi. Infatti, in contrasto con altre teorie precedenti, per il grooming la reciprocità sembra essere molto più importante rispetto al grado di parentela. In poche parole: se tu pulisci sarai pulito.

Un altro esempio di comportamento altruistico può essere quello messo in atto dai timon de “Il re leone”: gli individui della specie Suricata suricatta all’interno dei loro gruppi sociali possono ricoprire diversi ruoli e “mestieri”. Uno di questi è quello della sentinella, ovvero quell’individuo (o più individui, a seconda del contesto ambientale o della numerosità del gruppo) che si mette in posizione eretta in una zona rialzata e ha il compito di sorvegliare l’area circostante ed avvertire se ci dovessero essere predatori in arrivo. Chiaramente è fondamentale che ciascun individuo all’interno del gruppo sociale sia disposto, alternandosi di volta in volta, a ricoprire il ruolo di sentinella; in caso contrario verrebbe infranto il “contratto sociale” necessario per far sì che ci sia vero altruismo. E’ indubbio, quindi, che nella maggior parte dei casi, i rapporti altruistici, sociali o cooperativi sottintendano un necessario beneficio (a breve o lungo termine) sia per chi riceve e sia per chi attua l’azione benefica.

Un caso ancora dibattuto che si collega all’altruismo reciproco è quello dei pipistrelli vampiri. Questi particolari Chirotteri sono soliti alimentarsi con il sangue di altre specie animali e non possono sopravvivere se sono a digiuno per più di 60 ore. In questa problematica interviene il fenomeno dell’altruismo tra conspecifici. Infatti è stato osservato che alcuni individui rimasti a digiuno da diverse ore possono essere aiutati ed alimentati tramite il rigurgito di un loro compagno. Questi rigurgiti, come nel caso del grooming per i Primati, non sono effettuati a tutti in maniera casuale ma vengono privilegiati gli individui che in passato si sono resi protagonisti, a loro volta, di atti altruistici e secondariamente quelli più vicini dal punto di vista della parentela. Al momento, però, il dibattito è ancora aperto sul fatto che si possa considerare, o meno, un vero esempio di altruismo reciproco dato che sono stati osservati ancora pochi casi e non è stato del tutto escluso che la consanguineità possa essere un “privilegio” per ottenere il beneficio (e quindi l’attore, in maniera pseudo-egoista, avvantaggerebbe un individuo che condivide con lui una parte del patrimonio genetico).

Individuo di pipistrello vampiro (Desmodus rotundus). I fattori che regolano i “rigurgiti altruistici” che caratterizzano questa specie non sono stati ancora del tutto chiariti. Foto di nationalgeographic.it

Molto spesso l’esistenza di comportamenti altruistici o cooperativi è la prova dell’esistenza di un’elevata capacità empatica e il saper capire i bisogni di un altro individuo. Ma fenomeni di questo tipo non sono limitati ai Mammiferi. Basti pensare a tutte le specie di Insetti caratterizzate da eusocialità, in cui alcuni individui essendo sterili si “sacrificano” per aiutare altri individui della propria colonia a loro strettamente imparentati nella crescita e gestione della prole. Ma il principio che si trova alla base di questo rapporto collaborativo, studiato a lungo da W.D. Hamilton, è che questi preziosi “aiutanti” stanno indirettamente promovendo la trasmissione dei propri geni.

E se questo non bastasse, alcuni ricercatori stanno studiando da anni la comunicazione e la cooperazione che si stabilisce tra alcune specie vegetali. Esistono alberi, infatti, in grado di aiutarsi in caso di difficoltà, ad esempio lanciando un segnale d’allarme (prettamente di tipo chimico) ad altre piante nelle vicinanze affinchè queste corrano ai ripari, magari secernendo sostanze repellenti, nel caso ci fosse la presenza di un animale che si sta cibando delle proprie foglie.

Insomma l’esistenza di fenomeni correlabili all’altruismo o alla cooperazione mutualistica in altre specie, oltre che nell’Homo sapiens, seppur in diversissime forme, sembra ormai evidente. Ciò che resta da capire è se sia corretto parlare di reali atti benefici e disinteressati. Secondo alcuni studiosi il vero altruismo (privo di qualsiasi egoismo indiretto o rendiconto futuro) è una prerogativa solo umana. Come abbiamo visto però non è da escludere, almeno in alcuni casi presenti in Natura (ad esempio in quelle specie di Mammiferi che mostrino un elevato grado empatico e capacità emozionale), che questo possa esistere anche in altre specie diverse da noi.

Christian Lenzi

Bibliografia:
Hauser, M.D. (2010). Menti morali. Le origini naturali del bene e del male. Il Saggiatore.
Bartal, I. B. A., Decety, J., & Mason, P. (2011). Empathy and pro-social behavior in rats. Science, 334(6061), 1427-1430.
Hamilton, W.D. (1964). The genetical theory of social behaviour, I,II. Journal of Theoretical Biology, 7: 1–52. 5193(64)90038-4

Sitografia:
istc.cnr.it

La caccia in branco nei rapaci

Quando sentiamo parlare di caccia in gruppo ci tornano immediatamente in mente le immagini dei grandi mammiferi della savana o delle foreste boreali.  Da un punto di vista etologico la caccia in branco, o caccia di gruppo, è una strategia predatoria che coinvolge contemporaneamente più individui della stessa specie, con il fine di catturare una grossa preda, che non potrebbe essere abbattuta da un singolo individuo e con un minore dispendio di energia. Una volta catturata, la preda viene divisa tra tutti i membri del branco seguendo precisi ordini gerarchici che variano da specie a specie.

Questi meccanismi sono ampiamente osservati in moltissime specie, ma la quasi totalità dei rapaci non è solita applicarle.

Esiste però una particolare specie di rapaci diurni che, al contrario, è famosa per cacciare in stormi: si tratta del falco o poiana di Harris. Il falco di Harris è un rapace diurno, venne chiamato così da John J. Audubon in onore dell’ornitologo Edward Harris. Facente parte della famiglia degli Accipitridi, non si tratta di un “falco” vero e proprio, esso è infatti l’unico esponente del genere Parabuteo (Ridgway 1874), ovvero “simile ad un buteo o Poiana” (Buteo buteo)”.

Al genere Parabuteo appartengono tre sottospecie:

  • unicinctus unicinctus, ha colonizzato quasi tutto il Sud America dalla Colombia all’Argentina passando per Brasile, Venezuela e Cile, ed è più piccolo dei suoi cugini nordamericani;
  • unicinctus harrisi, vive sopratutto in Messico, Texas e America Centrale;
  • unicinctus superior, è stato trovato in California  ed è considerato il più grande dei tre, tuttavia il campione su cui è stato condotto lo studio originale era veramente limitato, inoltre in seguito la ricerca ha concluso che la differenza di dimensioni rispetto ad harrisi non era così netta da giustificare una segmentazione delle sottospecie. Per completezza tuttavia ho ritenuto corretto citare anche questa tra le sottospecie, anche se sarebbe più corretto dire che le sottospecie appartenenti a questo genere sono soltanto due.

Esso ha un dimorfismo sessuale molto spiccato dato che la femmina è di gran lunga più grossa del maschio (775-1630g della femmina contro 515-880g del maschio; Bednardz 1995).

Gli habitat preferiti da questo animale sono: pianura e altitudini medie, macchia arida, savana, terreni agricoli, e paludosi in aperta campagna con alberi sparsi e macchie di bosco.

Al giorno d’oggi è anche importante, quando si parla di habitat, citare l’ambiente urbano dato che viviamo in un pianeta caratterizzato dalla presenza di grandi città. In effetti, gli ambienti urbani, da un lato, offrono grandi possibilità ai rapaci tant’è che molte specie oggi risiedono abitualmente in questi ambienti. Le attrattive di un ambiente urbano sono facili da comprendere: abbondanza di cibo, predatori quasi assenti, facilità di trovare rifugio. Il problema reale è l’altra faccia della medaglia ovvero l’alta mortalità a cui vanno incontro quotidianamente questi animali. Un recente studio (Stephen B. Hager, 2009) si è occupato proprio di questo argomento trattando varie specie di rapaci diurni e notturni tra cui proprio il P. unicinctus. Hager spiega che le specie di rapaci che usano abitualmente l’ambiente urbano sono 42 tra rapaci diurni e notturni e che, secondo i suoi dati, vanno incontro ad una mortalità del 70% nella stagione riproduttiva. Le cause di morte principali, secondo Hager, sono la collisione con veicoli (aeroplani, automobili, ecc.) e l’elettrocuzione provocata dai fili di alta tensione che causano tra il 73% e il 48% delle morti; ed è proprio l’elettrocuzione la principale causa di morte del falco di Harris che dimora in ambienti urbani.

Per quanto riguarda la riproduzione, la coppia crea un nido a piattaforma, in genere su un albero o su un cactus, fatto di bastoncini e vi depone da due a quattro uova bianche o con puntini marroni. Trattandosi di una specie molto sociale spesso il nido è visitato anche da altri individui.

Al contrario della quasi totalità dei rapaci, la caratteristica più evidente della biologia del falco di Harris è la sua natura sociale. Questa specie nidifica in unità sociali che variano da una coppia adulta  a gruppi di ben sette individui, tra adulti e giovani.

A  volte, a seconda della posizione geografica, i gruppi mostrano sia monogamia che poliandria, e talvolta poliginia. I gruppi di falchi di Harris si riuniscono, in genere, fuori dalla stagione degli accoppiamenti e impiegano una delle strategie più sofisticate di caccia cooperativa conosciute negli uccelli. Tali strategie sono probabilmente intimamente legati alla natura sociale di questi uccelli, ma anche, vedremo in seguito, sono atte a migliorare l’efficienza della caccia stessa e a diminuire di molto il dispendio energetico.

Per verificare questo tipo di strategie, Bednarz (1988), ha studiato otto gruppi di falchi di Harris nel New Mexico. I gruppi erano formati da: un maschio ed una femmina adulti e riproduttivi, fino a due adulti ausiliari e fino a tre individui nati durante la stagione riproduttiva precedente.

Nella maggior parte dei casi il gruppo è così coeso che basta osservare solo il leader per capire i movimenti degli altri membri.

La caccia inizia, in genere, verso l’alba quando i falchi partono dai loro posatoi notturni e si aggregano tutti nel medesimo posatoio ma sempre all’interno del loro home range.

Rappresentazione schematica dell’inizio della caccia.

Una volte che il gruppo è al completo, la caccia può avere inizio. Il gruppo principale si divide in gruppi più piccoli (due o tre falchi) i quali cominciano a spostarsi da un albero all’altro con degli spostamenti detti a “salto di rana”che continuano in maniera molto intensa durante tutta la ricerca della preda.

Una volta avvistata la preda la caccia procede secondo una tattica ben precisa che comprende, in genere, un attacco a sorpresa che coinvolge più di un falco da punti differenti. Per catturare una preda con successo occorre velocità a e alcune volte questa riesce a trovare rifugio; in questo caso gli Harris mettono in atto due tattiche differenti:

  • La prima è detta “stana e attacca”: un falco avverte gli altri della posizione della preda mentre uno o più spesso due aspettano di entrare nel rifugio della preda. Quando questa esce dal rifugio uno o più uccelli che aspettavano sui posatoio le piombano sopra e la uccidono.
  • La seconda, detta attacco a staffetta, è più rara e consiste in una serie di vari attacchi da parte dei sottogruppi che si fermano in determinati punti per dirigere la fuga verso un altro sottogruppo sino a quando la preda non è sfiancata e quindi più vulnerabile. Questa tattica comprende più di venti attacchi prima della cattura.

Come ho già detto, in definitiva, la caccia di gruppo è molto utile a  questi uccelli al fine di ottimizzare le energie e reperire più facilmente il cibo.

Questo tipo di comportamento si è probabilmente sviluppato per due motivi principali:

  • Innanzitutto perchè, non migrando, questi rapaci hanno avuto bisogno di creare una struttura sociale stabile che gli garantisse una maggiore probabilità di successo nel reperire il cibo in un territorio che è caratterizzato da stagioni calde con scarsissime precipitazioni;
  • In secondo luogo, le loro prede principali sono: la lepre del deserto (Sylvilagus auduboni) e la lepre dalla coda nera (Lepus californicus), entrambi lagomorfi dotati di arti posteriori molto forti che, sostiene Bednarz, sono in grado di rompere le ossa di un Harris con grande facilità. Invece, usando le tattiche descritte sopra, gli Harris sono in grado di rendere la caccia meno rischiosa e meno dispendiosa a livello di energie.
In questa figura sono riportati:
a) la quantità di prede e b) l’energia spesa da un falco per un giorno, in rapporto al numero di partecipanti alla caccia. Questi semplici grafici ci aiutano a capire quanto siano vantaggiose le strategie di gruppo per questa specie di rapaci.

 

Per questi motivi l’Harris hanno avuto un grande successo ecologico e sono stati in grado di colonizzare vari habitat dalla California sino al Cile e all’Argentina centrale, passando per il Messico, ma soprattutto è stata riscontrata la sua presenza anche in aree urbane.

Anche in cattività gli Harris presentano un forte attaccamento tra loro. Come ho io stesso osservato, quando si somministrava una preda (un mezzo pollo o comunque un pezzo di carne abbastanza grosso) a due femmine adulte, queste mangiavano contemporaneamente senza cercare di sottrarsela a vicenda, mostrando un comportamento solidale piuttosto che aggressivo come fa la stragrande maggioranza degli altri rapaci, che, in cattività, mostrano addirittura tendenze cannibali.

Anche nel volo libero le due femmine non si sono mai date intralcio neanche se dirette sullo stesso obiettivo.

In realtà il falco di Harris non è l’unico che utilizza la caccia cooperativa, ma è l’unico che adopera tattiche ben definite dal punto di vista dell’integrazione comportamentale.

IL FALCO DI HARRIS IN FALCONERIA

Anche in falconeria, l’Harris risalta come un rapace anomalo. In effetti, come detto sopra, la natura sociale di questo animale si rispecchia anche nella vita in cattività, dove i rapaci devono addirittura essere tenuti a distanza di sicurezza gli uni dagli altri poiché tendono a ghermirsi a vicenda ed anche a uccidersi tra loro.

Molti falconieri spiegano che addestrando questi rapaci in coppia sin dall’inizio questi mostrano presto un atteggiamento collaborativo, certo solo dopo un breve periodo in cui si sfidano per determinare un ordine gerarchico; periodo in cui, spiegano i falconieri, è necessario prestare molta attenzione poiché durante queste sfide sono capaci di infliggersi ferite gravi.

Questa socialità innata degli Harris spiega la loro facilità all’addestramento, poiché, come funziona con i cani, il falconiere assume la figura di capobranco e in questo modo il giovane falco tenderà naturalmente ad ascoltarne gli ordini.

Un falco addestrato segue il falconiere esattamente come un gregario segue il capobranco durante la caccia.

In effetti, è capitato spesso anche a me di essere seguito dal falco durante l’addestramento, segno del fatto che questi sapeva che ci dirigevamo nel luogo dove si sarebbe nutrito, o meglio il falco sapeva che ci stavamo dirigendo nel nostro terreno di caccia abituale.

Il falco (Gora) che viene richiamata al pugno, che simula l’atto di caccia (a). E mentre si nutre subito dopo (b).

Comportamenti molto simili a quelli descritti per la caccia in natura, ho potuto riscontrarli anche durante un lavoro di sgombero volatili che ho svolto presso alcuni magazzini industriali che erano stati invasi dai piccioni (Columba livia).

Un esempio del tipico “totem” che utilizzano l’Harris in natura durante la caccia (a), e (b) anche uno studente di scienze naturali può diventare parte integrante del gruppo.

Una volta entrati nel magazzino, i rapaci, sono partiti dal pugno dei falconieri e si sono posati su un alto scaffale formando il tipico totem, ovvero si sono impilati l’uno sull’altro, esattamente come in natura. A questo punto si sono divisi spostandosi da uno scaffale all’altro con i loro tipici e già descritti spostamenti a salto di rana cercando la loro preda, contestualmente noi falconierigiravamo per il magazzino portando della carne di quaglia, ovvero la preda che i falchi stavano cercando. Nel frattempo i piccioni presenti nel magazzino fuggivano intimiditi dalla presenza del predatore.

Il Falco di Harris (Parabuteo unicinctus)

Davide Carpintieri

Bibliografia:
Bednarz, J.C. (1988). Cooperative hunting Harri’s Hawk (Parabuteo unicinctus). Science,239(4847),1525-7.
Hager, S. B. (2009). Human-Related Threats to Urban Raptors. Journal of Raptor Research, 43 (3),210-226.

 

L’evoluzione del comportamento nelle farfalle: il caso di Calpe eustrigata, la “Farfalla vampiro”

Come l’evoluzione ha giocato un ruolo chiave nel comportamento alimentare di C. eustrigata

Calpe eustrigata, conosciuta anche con il sinonimo Calyptra eustrigata, è una farfalla notturna del sud-est asiatico che si nutre di sangue. Questa sua peculiare abitudine trofica rappresenta una rarità tra i lepidotteri, infatti, la maggior parte delle specie note di farfalla si nutre del nettare dei fiori, che estrae per mezzo di una proboscide molto lunga e sottile. Tuttavia, sono presenti anche alcuni lepidotteri che si cibano di frutta marcia e a questo proposito sono caratterizzate da una proboscide più corta e rigida che meglio si adatta a perforare la buccia dei frutti. Infine, a queste si aggiunge un gruppo esiguo di farfalle ematofaghe, ossia “vampire”, di cui fa parte C. eustrigata.

Dettaglio di Calyptra, con riferimento metrico. Credit: Walker K.

Che cosa c’è alla base di questi importanti cambiamenti nella modalità di alimentazione delle farfalle?

Perché alcune di loro sono diventare “assetate di sangue”?

Per comprendere tali variazioni è fondamentale pensare che ogni farfalla, così come qualsiasi altro essere vivente, è sottoposta a pressioni selettive nell’ambiente in cui vive e che all’aumentare della pressione selettiva si accresce di conseguenza la competizione tra gli individui. Per questo motivo se in un primo momento tutti i lepidotteri erano specializzati per prelevare il nettare dei fiori, ha tratto un immenso vantaggio chi per primo si è indirizzato verso una nicchia ecologica nuova e non satura, come ad esempio quella che permette alle farfalle di sostentarsi di frutta. Tuttavia, in breve tempo sempre più individui hanno sfruttato questa nuova possibilità, tanto che con il passare del tempo c’è stata un’ulteriore “saturazione del mercato”. Ecco, quindi, che una piccola parte di farfalle, tra cui C. eustrigata, si è orientata verso una nicchia ecologica ancora più vantaggiosa: quella che permette di ricavare il proprio sostentamento dal sangue dei mammiferi perforando il loro epidermide grazie ad una proboscide corta e robusta. Questa peculiare strategia alimentare comporta maggiori vantaggi non solo perché ad oggi le “farfalle vampiro” sono rare, ma anche perché in tal modo esse possono prelevare direttamente dal sangue le piccole quantità di sodio di cui necessitano per vivere, senza essere costrette a ricercarlo in altre fonti, come ad esempio nelle pozzanghere o nel sudore degli animali.

Ecco spiegato il motivo per cui alcune farfalle sono passate gradualmente dall’essere cercatrici di nettare, al nutrirsi di frutta, fino a diventare vere e proprie “vampire”. A tal proposito C. eustrigata è, dunque, un ottimo esempio di come l’evoluzione sia stata determinante nello sviluppo di questo peculiare comportamento alimentare, che garantisce un maggior successo adattativo e di conseguenza una maggiore probabilità di sopravvivenza.

Anita Bergamo

Bibliografia:

Bänziger H. (1975). Skin-piercing blood-sucking moths I: ecological and ethological studies on Calpe eustrigata (Lepid., noctuidae). Acta tropica, 32 (2), 125-144.

Bänziger H. (1979). Skin-piercing blood-sucking moths II: Studies on a further 3 adult Calyptra [Calpe] sp.(Lepid., Noctuidae). Acta tropica, 36 (1), 23-37.

Banziger H. (1980). Skin-piercing blood-sucking moths III: feeding act and piercing mechanism of Calyptra eustrigata (Hmps.)(Lep., Noctuidae). Mitteilungen der schweizerischen entomologischen Gesellschaft, 53 (2/3), 127-142.

Lehane M. J. (2005). The biology of blood-sucking in insects. Cambridge University Press.