Vitis vinifera e Homo sapiens, due specie con storie comuni

Vinis vinifera e Homo sapiens, sono ovviamente due specie con storie biologiche diverse,  distanti, ma nelle quali si possono trovare curiose coincidenze  che si rivelano interessanti per un approfondimento.  Queste storie ad un certo punto  si incontrano, s’intrecciano e, alla fine si legano  per condividere strade comuni.  S’incontrano in un luogo preciso: l’Europa sud-orientale.  Pura casualità?

Homo sapiens, è l’unica delle sei specie del genere Homo che sopravvive a tutte le altre (Homo erectus, Homo abilis, Homoneanderthalensis , Homo desivoniano, Homo sapiens);  perché questo sia successo ne stiamo ancora a discutere. Vitis vinifera è l’unica di alcune centinaia di specie capace di dare “grappoli” per farci un vino (di qui il binomio di Vitis vinifera) e anche qui altre storie da scrivere e raccontare.

L’incontro tra le due specie era in qualche modo inevitabile. Circa 30/40 mila anni prima di Cristo, Homo sapiens lascia l’Africa  e migra verso Oriente per fermarsi, circa 15 mila anni prima di Cristo,  in quelle terre che saranno poi di Sumeri e Babilonesi. Queste terre costituiranno il “cuore” della  più importante rivoluzione dell’Homo sapiens: l’invenzione dell’agricoltura. “Non l’avessimo mai fatto!”.  Da allora (lo dicono archeologi, antropologi, psicologi evoluzionisti) sono cominciati i problemi per Homo sapiens che per 70-120 mila anni prima  era stato invece un semplice cacciatore e raccoglitore di cibi spontanei (anche di grappoli di vite selvatica).  Non l’avessimo mai fatto poiché è pur vero che da allora  ci misuriamo con   fatiche, ansie per proteggere piante e raccolti, carie ai denti, artriti, carestie, guerre; in cambio, però, la rivoluzione agricola ci ha dato il vino per calmierare, sedare fatiche e ansie. Si stava meglio prima a  raccogliere prodotti spontanei e a cacciare? A pensarci bene sembra di si. Gli studiosi parlano in proposito di “società opulente”, per l’abbondante disponibilità di cibo senza considerare il maggior tempo libero e le dormite più lunghe. Non ci sarebbe stato il vino però!

Come e perché  Homo sapiens sia arrivato alla rivoluzione agricola è un altro grattacapo per gli studiosi, ancor di più se si pensa che ogni civiltà, in tempi e in luoghi diversi, ci è passata. Strada obbligata?

Le due specie si originano in opposti emisferi: la vite in quello boreale, l’Homo sapiens in quello australe. Vicissitudini geo-climatiche (glaciazioni, climi favorevoli) creano la “coincidenza” perché le due specie possano incontrarsi a metà strada. Il punto d’incontro  è quella terra posta tra la Turchia e l’Iran (Monti Zagros) ove in questo interglaciale Vitis vinifera trova il suo “optimum ecologico”. Homo sapiens questo optimum lo trova un po’ più a oriente per la sua Rivoluzione agricola che si attua domesticando sostanzialmente animali e piante,  principalmente cereali. L’interesse cade anche su piante che davano frutti e, tra queste, a colpire la sua attenzione  vi  sarà la vite selvatica. Sarà stata la particolare forma del frutto, la dolcezza dei suoi chicchi, contesi tra uccelli, scimpanzé, api e vespe  o probabilmente la loro succosità che l’avranno reso ancor più interessante per pensare ad un succo che,  un’altra storia biologica (Lieviti), lo  trasformerà  in vino, la bevanda più antica nella storia dell’umanità. In quasi tutte le civiltà vi è un “vinum”, inteso come bevanda ottenuta dalla fermentazione di zuccheri, principalmente di frutti, ma perché Homo sapiens si orienta sull’uva è un altro grattacapo. Forse perché solo il vino dell’uva poteva essere  tante cose insieme: “rimedio curativo, lubrificante sociale,  merce di scambio, sostanza stupefacente, il vino acquisisce un ruolo centrale ben presto nei culti religiosi, nella farmacopea, nell’economia e nella vita sociale di molte civiltà antiche (P. E. MecGovern, 2006).

Una scoperta casuale, se  il vino non è altro che un succo “andato a male”?  Dopo qualche giorno il dolcissimo succo, abbondante, diviene amaro, non certamente invitante a bere, se non fosse per quel suo immediato inebriamento che provoca  (alcol etilico).

Figura 1. Kilyx etrusco. Necropoli di Pian dei Gangani, Montalto di Castro, Viterbo. Fonte beniculturali.it

Il passaggio dalla vite al vino non sarà stato  immediato o facile,  stando alla documentazione archeologica; abbiamo reperti archeobotanici  (vinaccioli di viti domestiche e selvatiche) che attestano il consumo di uve e, solo molto tempo dopo  materiale archeologico che testimonia l’esistenza già del vino, consumato, e soprattutto commercializzato (Micenei). Si tratta di anfore, orci, crateri, kilyx  (fig. 1) usati per il consumo e la commercializzazione del vino  o che hanno contenuto fecce o, ancora molecole di sostanze vinose, che oggi possiamo accertare sempre meglio e soprattutto datare. Il vino come si sa si conserva poco poiché le sue componenti (alcool, acqua, pigmenti) si deteriorano facilmente. Resta un derivato importante, l’acido tartarico, in forma di sale, che possono rilevarlo le moderne tecniche d’indagine  molecolare (archeologia molecolare) che andrebbero utilizzate per tutto il materiale archeologico, che è tanto, a partire dai contenitori in pietra. Con queste indagini le date del vino più antico dovrebbero sicuramente spostarsi molto più indietro di quelle attuali, dimostrando fino in fondo che le antiche civiltà dell’Homo sapiens, coincidono quasi perfettamente con quelle della vite e del vino.

Il vino più antico documentato ci porta a 3.100 anni prima di Cristo. A questa data risalgono alcuni orci, trovati  nell’Iran Occidentale (Monti Zagros, sito d Godin Tepe) che contenevano fecce di vino; prima di questi reperti,  il vino più antico era quello documentabile da anfore romane recuperate in navi abissate al largo della Costa Azzurra.

Figura 2. Foglie e grappolo di individuo femminile di vite selvatica recentemente rinvenuta anche nel Gargano. Foto autore.

Altra storia è,  dunque, quella della vite che ci porta a molto tempo prima del vino, stando all’abbondante materiale (semi)  rinvenuto nei numerosi siti lungo la piana del Tigri e dell’Eufrate, databili intorno a 8000 anni prima di Cristo; tra questi semi vi erano anche quelli riconducibili alla  vite addomesticata.  La domesticazione della vite selvatica, infatti,  è antichissima, probabilmente per il suo invitante frutto che ha motivato le necessità di proteggerla, poi di favorire la sua attività biologica e  poi ancora di selezionare gli individui migliori (paleodomesticazione). Infine, cominciando a coltivare le piante selezionate (vera domesticazione). Passano secoli,  millenni,  e i grappoli saranno più abbondanti, più belli, succosi e grandi, i caratteri di una pianta domesticata, o domestica o ancora “sativa” che  noi botanici abbiamo imparato a identificarla con il binomio di  Vitis vinifera subsp. sativa per distinguerla da quella da cui è partita la domesticazione, distinta invece come Vitis vinifera subsp. sylvestris (fig. 2). Due nomi (due sottospecie della  specie Vitis vinifera) per rilevare l’indubbia diversità morfologica raggiunta dalle due piante, tra quella domesticata (nostra invenzione) e quella che continua a vivere ancora oggi (dalla Spagna, all’Italia all’Iran) nella sua forma spontanea, in popolazioni sempre più rare, unisessuali (solo il femminile da grappoli) in gran parte e, solo poche ermafroditi.  L’ultima glaciazione (25-30 mila anni fa) ha distrutto le popolazioni primitive, ermafroditi  e,  quelle sopravvissute  (rifugiate in Europa meridionale, e in Asia minore) subirono mutazioni che le trasformarono in unisessuali; di quelle ermafroditi si sono salvate solo una piccolissima parte (si parla del 5%); per fortuna, poiché da queste,  è potuto partire la domesticazione, diversamente  non era conveniente allevare due piante delle quali solo una poteva dare grappoli (una pianta ermafrodita garantiva uva abbondante senza problemi di impollinazione). Senza queste popolazioni residuali, ermafroditi, probabilmente, non avremo avuto l’uva e neanche il vino, ovviamente. Ecco il valore della (bio)diversità  su quale non ci si riflette mai abbastanza, anche se ne fa un gran parlare.

Tra addomesticamento della vite e il vino passa dunque un bel po’ di tempo. Non è stato facile inventare il vino o invece è solo per scarsa documentazione archeologica, oggi non è dato saperlo.

Storia del vino, della vite e dello stesso Homo sapiens, si fanno più chiare solo con i Sumeri prima  e poi con gli egiziani. I geroglifici egiziani (2700 anni a.C) ci dicono che in questa civiltà sono ormai ben distinti vite, uva e vino.  L’Egitto costituisce la prima importante tappa della migrazione della vite coltivata verso l’Occidente. I primi approdi in Italia si hanno in Sicilia  e poi Calabria e Campania. Queste regioni hanno rappresentato “i più importanti centri di diffusione della viticoltura nel bacino del Mediterraneo occidentale (Scienza, Failla 2016); poi penisola iberica e Nord Europa (fig.3).

Figura 3. Vie di Maggior diffusione della viticoltura dal sud-est asiatico all’Europa. Fonte: de Blij, 1983

Solo nel XVI secolo  il viaggio colonizzatore della viticoltura riprende invadendo   raggiungendo  le Americhe e in tempi più recenti  l’Australia.    Ma dal Nord America ci ritorna prima un insetto e poi funghi. Con il primo, un insetto (Phyilloxera vastatrix) che attacca le radici,  nella seconda metà dell’Ottocento sono andati distrutti gran parte dei vigneti d’Europa,  specialmente in Francia  e, seppur in misura minore, anche in Italia, dalle Alpi alla Sicilia; la Francia non ha avuto vino per diversi anni (lo compreranno per lungo tempo in Italia, specialmente in Puglia che abbandonerà tantissimi vitigni per orientarsi su quei pochi che potevano soddisfare le richieste francesi di vini da taglio). Si mobilita in Europa tutta la scienza, per trovare un rimedio, prima farmaci, poi alla ricerca disperata di piante resistenti all’insetto; sempre in Nord America si trovano specie resistenti,  gran parte  delle quali  sterili o  al massimo davano grappoli ma che non avevano niente a che fare con quelli della “vite europea”. La soluzione fu di ricorrere all’innesto (portainnesto  di viti americane) grazie al quale si sono potuti rifare con i pochi vitigni sopravvissuti alla devastazione della fillossera, nuove  vigne.  Da allora continuiamo a farlo ricorrendo all’innesto; da allora proteggiamo le viti  dagli attacchi di funghi (oidio, peronospora) capaci ci distruggere foglie e grappoli. Per pura casualità  la scienza scopre (inizio Novecento) la potenza fungicida del rame per la peronospora e dello zolfo per l’oidio.  Da allora ogni viticoltore del Pianeta sa che se vuole ottenere grappoli deve per almeno due mesi proteggere le viti da attacchi fungini, e sempre sotto una morsa di fatiche e ansie di insuccessi. I trattamenti antifungini e la pratica dell’innesto erano gli unici compromessi possibili tra Vitis vinifera e Homo sapiens senza dei quali avrebbe dovuto rinunciare ancora una volta al vino.

Le massicce introduzioni di viti americane (Vitis riparia, V. rupestris, ecc.) hanno favorito  la loro spontaneizzazione e inattesi incroci con viti selvatiche, domestiche europee, complicando ulteriormente la vita dei ricercatori impegnati nella ricostruzione della storia genetica di Vitis vinifera; solo ipotesi, dubbi, e tra i tanti soprattutto quello che oggi non è più  convincente la distinzione botanica tra la forma selvatica e quella domestica. Per l’Homo sapiens è certo invece che noi siamo i suoi diretti discendenti, ma come ci siamo arrivati, non è ancora del tutto chiaro; anche qui solo ipotesi, qualcuna più convincente, altre meno, qualche teoria e  molto ci si aspetta dalle indagini genetiche.

Homo sapiens viene da una rivoluzione cognitiva che lo ha reso completamente diverso dalle altre specie umane ma  “ci piaccia o no, siamo i membri  di una famiglia, particolarmente numerosa, quella delle grandi scimmie” – scrive Yuval Noah Harari nel suo recente libro che consiglio di leggere.  E’ difficile convincersi che Homo sapiens, cioè noi,  sia  stata l’unica specie umana a popolare il Pianeta. Da circa 2,5 milioni di anni, per quanto ne sappiamo, hanno circolato almeno 6 specie, tra le quali Homo sapiens, tutte presenti almeno fino a 100 mila anni fa. Del resto come ci ha insegnato la biologia, raramente una specie è solitaria, mentre convivono sempre specie diverse dello stesso genere. Come esistono tante specie di margherite o tante specie di Vitis, perché non potevano vivere insieme diverse specie umane?

Solo 400 mila anni fa alcune specie umane cominciano a cacciare animali di grossa taglia (cancellata per sempre tanta megafauna come mammut, mastodonti) e solo 100 mila anni fa Homo sapiens si colloca al vertice della catena alimentare mentre per lungo tempo “brucava” cibi spontanei come fanno tutt’ora formiche, topi, volpi e gazzelle. 70 mila anni fa Homo sapiens lascia l’Africa orientale, concordano ormai tutti gli scienziati, per spostarsi in direzione Medio Oriente, ove incontrerà Vitis vinifera e di qui si distribuirà nelle più disparate terre dell’Eurasia, come farà poi con lui la vite coltivata. In queste migrazioni Homo sapiens avrà incontrato sicuramente le altre specie umane. Il fatto strano è che tutte le altre si estinguono mentre Homo sapiens sopravvive. Che cosa è successo?

Le teorie che possono rispondere a questa domanda sono due e purtroppo contrapposte. La prima è formulata come “teoria dell’ibridazione” e sostiene che le diverse specie umane si sono mescolate e, ciò che siamo noi oggi, è il risultato di questa ibridazione  di Homo sapiens con le diverse specie che  incontrava: Europa con i Neanderthal, Asia con l’Australopithecus.  L’altra teoria  parla di “rimpiazzamento” e ci dice che Homo sapiens si sostituisce a tutte le altre specie (competizione, lotte, uccisioni), per cui noi siamo i suoi diretti discendenti. La storia della vite coltivata  è spiegata oggi con la teoria dell’ibridazione: le centinaia e centinaia di uve che conosciamo, bianche, rosse, nere, a chicchi grandi, piccoli, senza e con semi, da tavola, da vino, e che coltiviamo in tutto il Pianeta,  vengono da ripetute ibridazioni (lo dicono i dati genetici).  Certamente vi è stato un centro primario (domesticazione e diffusione) come l’Africa Orientale lo è stato per Homo sapiens. Per la vite  il viaggio prosegue in diverse direzioni segnate da tante tappe in ognuna delle quali avveniva una ibridazione tra forme coltivate che vi arrivavano e quelle spontanee (vite selvatica). Ogni tappa si configurava come nuovo centro di differenziazione  e di ulteriore diffusione della vite coltivata (origine policentrica). Solo con questo percorso si può spiegare l’incredibile diversità di vitigni che ci è arrivata fino a noi. Stesso percorso per Homo sapiens?  E’ difficile immaginare un Homo sapiens che dalla “mezza luna fertile” con il suo bagaglio di saperi sia riuscito da solo a colonizzare tutto il pianeta, senza nessuna interferenza con altre specie umane.

Tra 6000 e 2000 anni fa il centro di gravità della vite coltivata dalla zona sub-caucasica migra verso l’Europa e il Nord-Africa; a favorire questa migrazione è stato anche il clima, sempre più mite dal Medio Oriente fin su al Nord-Europa. Da allora la vite coltivata inizia a confrontarsi con la variabilità di popolazioni di vite selvatiche che incontra. E ogni volta dal mescolamento con esse si generavano nuove piante di uva da scegliere o da scartare.

La variabilità delle popolazioni selvatiche era notevole:  gli archeobotanici,  infatti, hanno distinto tre gruppi di differenziazione della vite selvatica, uno orientale (Arabia), uno pontico (Grecia-Turchia) e uno occidentale (dall’Italia, alla Francia, alla Spagna). Dai tre gruppi di differenziazione non è un caso che siano nate le più importanti “Civiltà del vino”, rispettivamente sumero-babilonesi (gruppo orientale), greco-fenice (gruppo pontico) e romane (gruppo  occidentale).  In occidente l’area di diffusione coincide quasi perfettamente con l’area di massima espansione dell’Impero Romano.

In Europa oggi si è accertata un’ incredibile diversità genetica dei vitigni che si può spiegare solo con un mescolamento di viti coltivate, man mano che sono arrivate (Fenici, Greci, Romani) con le diverse popolazioni di viti selvatiche francesi, spagnole e italiane. In ogni mescolamento avveniva un fenomeno che in genetica è detto “introgressione genica” (geni o organuli  sono stati inglobati  permanentemente nella vite coltivata, in seguito ad estesi fenomeni di ibridazione). Nell’ipotesi di ibridazione la stessa cosa è avvenuto tra Homo sapiens e le altre popolazioni  con le quali si è incontrato. Da diversi anni gli studiosi ci hanno detto che il rapporto tra geni (DNA mitoconfriale)  di popolazioni umane di origine paleolitica e quelli di origine indo-europea è di è di 78/22. La stessa valutazione è stata fata per i vitigni europei  nei quali il rapporto tra geni (DNA plasmidiale) di origine neolitica e quelli di origine indo-orientale è di 80/20.

Per la vite non sono mancati processi di domesticazione al di fuori di questi “mescolamenti”. Ad esempio in Italia  vi era già il vino  poiché gli etruschi   coltivavano la vite selvatica   sin dall’VIII secolo a. C., prima che i Greci e poi i Romani diffondessero in Italia la vite coltivata con le sue numerose varietà. Probabilmente, secondo gli studiosi, le viti lambrusche, da cui viene il famoso lambrusco, sono una discendenza delle viti domesticate dagli Etruschi  partendo da V. vinifera sylvestris.   Stessa cosa si è verificata anche in Sardegna per alcuni vitigni.

Il futuro di queste due specie, per concludere,  è segnato da un destino comune: in primis perché sono sempre più interdipendenti; le popolazioni di vite selvatica sono a rischio di estinzione avendo distrutto l’uomo da tempo gli ambienti  (coste, greti fluviali, margini boschivi) ove si era rifugiata in Europa con le glaciazioni. Scomparse in gran parte le popolazioni originarie del Tigri e dell’Eufrate da dove parti la prima domesticazione della Vitis caucasica (vecchio binomio di viti selvatiche orientali).  Per cui è a rischio la sopravvivenza di questa specie sul Pianeta, e non basteranno le numerose norme protettive emanate in diversi paesi europei (in Italia ancora niente); gli ambienti infatti continuano ancora a frammentarsi e   in Italia contiamo oggi appena circa 1000 individui di vite “selvatica”. Si riduce in questo modo il pool genetico della specie.

La vite coltivata rimane indissolubilmente legata  al destino dell’Homo sapiens. Tre rivoluzioni, cognitiva,  agricola e scientifica (appena 500 anni fa)  hanno segnato e contraddistinto la storia di Homo sapiens rispetto a tutte le altre specie umane. Tre rivoluzioni nell’arco di 10/12 mila anni ma che rappresentano un tempo troppo breve, probabilmente, per entrare nel nostro genoma, che rimane ancora segnato dalle abilità conquistate in milioni di anni dai Neandertaliani, come ad esempio le abilità di raccolta o di cacciare; recentemente un pò di geni Neandertaliani (1/3 %),  sono stati trovati nelle popolazioni moderne del Medio Oriente e dell’Europa.  Le capacità di cooperare, di inventare città, tecnologie, le migliori capacità cognitive, sociali, il linguaggio, utilissimo a  condividere informazioni,  dei Sapiens, sono abilità astratte e dunque niente  di materiale, di genetico.  La teoria del rimpiazzamento ci faceva ritenere i migliori e gli unici, per cui non aveva senso parlare di razze ma continuiamo a creare “muri”,  a farci guerre, a discutere di razze, di nazioni e di sovranismo, di volere frenare le migrazioni eppure riguarda la nostra specie, la sola specie umana che esiste oggi.  Cosa sarebbe successo se i Sapiens dovevano condividere il Pianeta con e altre specie umane?.  Quanti politici avrebbero fatto facilmente  carriera!

In questi ultimi anni invece, prende sempre più vigore la teoria dell’ibridazione e allora salteranno fuori le differenze genetiche antiche tra africani, europei, americani e asiatici, come sono emerse nelle viti coltivate. Dal punto di vista politico  è facile immaginare cosa potrà succedere, in tempi odierni di culture antiscientifiche o di antintellettualismo (la mia  ignoranza vale quanto la tua conoscenza).

Di Homo sapiens probabilmente rimarrà poco o niente se in soli 200 anni  è stato capace di mettere a rischio il futuro del pianeta; stessa sorte per Vitis vinifera.

Phd Nello Biscotti

Bibliografia

MecGovern P. E., 2006 – L’archeologo e l’uva, Carocci Editore

Yuval Noah Harari, 2017 – Sapiens, da Animali a Dei, Breve storia dell’Umanità, Bompiani.

de Blij HJ, 1983 – Wine: A Geographic Appreciation. Totowa, NJ: Rowman and Allanheld.

Scienza A., Failla O., 2016 – La circolazione varietale della vite nel Mediterraneo: lo stato della ricerca. Rivista di Storia dell’Agricoltura a. LVI, n. 1-2. giugno-dicembre 2016.

Biscotti N., Del Viscio G., Bonsanto D.,  Casavecchia S., Biondi E. 2016 – Indagini su  popolazioni selvatiche di Vitis vinifera L. rinvenute nel Parco Nazionale del Gargano, in Puglia. Inf. Bot. Ital., 46 (2), 179-186.

Resti umani e attrezzi litici in Cina svelano la prima migrazione dall’Africa 

Il rinvenimento di antichi rozzi strumenti, associati ad ossa umane in Cina suggerisce un’ipotesi destinata a spostare indietro le lancette del tempo: i primi esseri umani avrebbero lasciato l’Africa e sarebbero giunti in Asia molto prima di quanto si sia finora ritenuto.

I reperti mostrano difatti che i nostri più antichi antenati avrebbero colonizzato l’Asia orientale ben oltre due milioni di anni fa.

Antichi strumenti attribuibili ad esseri umani nel sito cinese di Shangchen (crediti: prof. Zhaoyu Zhu)

Il merito della scoperta va ad un team di studiosi cinesi, guidati dal professor Zhaoyu Zhu, dell’Accademia cinese delle scienze, che si è avvaso della collaborazione del professor Robin Dennell, archeologo della Exeter University, nel Regno Unito.

Gli strumenti sono stati scoperti in una località chiamata Shangchen, nel sud del Loess Plateau.

I più vecchi sono attribuibili a circa 2,12 milioni di anni fa  e sono da considerarsi più antichi di circa 270mila anni dei resti scheletrici creduti finora i più antichi, datati a 1,85 milioni di anni, rinvenuti a Dmilisi, in Georgia assieme a strumenti in pietra e che erano considerati i resti umani più antichi, la prima prova in assoluto della presenza umana fuori del continente africano.

I manufatti di Shangchen includono raschietti, pietre e ciottoli lavorati, alcuni appuntiti, tutto materiale che mostra segni evidenti di essere stati utilizzati.

La pietra appare infatti sfaldata intenzionalmente.

La maggior parte di queste pietre sono costituite da quarzite e quarzo, probabilmente provenienti dalle alture dei Monti Qinling, che distano 5-10 chilometri a sud del sito, e dai corsi d’acqua che discendono da queste alture.

In associazione, sono stati trovati resti di animali attribuibili a 2,12 milioni di anni fa.

Il Plateau Cinese di Loess si estende per circa 270mila chilometri quadrati e negli ultimi 2,6 milioni di anni è stato via via ricoperto da strati di polvere depositata dai venti in una notevole quantità, stimata tra i 100 e i 300 metri di spessore.

Gli 80 manufatti in pietra sono stati rinvenuti prevalentemente in 11 diversi strati di terreni fossili accumulatisi in una fase di clima caldo e umido.

Altri 16 elementi sono stati trovati in sei strati di loess depositati in condizioni di clima più freddo e più secco.

Questi complessivi 17 diversi strati di loess e di terreni fossili si sono formati durante un periodo di quasi un milione di anni.

Questo dimostra che i primi esseri umani occuparono il Plateau Cinese di Loess in totali differenti condizioni climatiche, tra 1,2 e 2,1 milioni di anni fa.

Gli strati contenenti gli strumenti in pietra sono stati datati considerando le loro proprietà magnetiche con i cambiamenti noti e datati del campo magnetico terrestre.

“La nostra scoperta fa riconsiderare e ricollocare nel giusto momento della nostra storia i primi esseri umani che lasciarono l’Africa per diffondersi nel resto del mondo”, dichiara il professor Dennell.

Leonardo Debbia

 

Occhiali da sole, l’accessorio sexy che può salvarci la vista

Estate! Quando arriva la stagione più calda e luminosa dell’anno vien proprio voglia di uscire e godersi i raggi del sole. Che si esca per una sana passeggiata, per un giro in barca o si decida di mettersi in cammino lungo gli irti sentieri montani, c’è sempre un desiderio costante: che sia una bellissima giornata, con il cielo terso e la nostra stella madre splendida splendente.

Questi momenti di svago si possono però trasformare in esperienze spiacevoli proprio a causa dei raggi del nostro amato sole. Se ormai la protezione solare è diventata una sana abitudine, non sempre si presta la stessa attenzione all’organo che ci consente di godere della meraviglia che ci circonda, gli occhi. Se la pelle ci avverte con dolore del danno subito quando non la proteggiamo, il pericolo per gli occhi è più insidioso, meno «visibile».

Occhiali da sole, non solo un vezzo ma una necessità

L’occhiale da sole è dannatamente sexy e fortunatamente ciò ha aiutato la sua diffusione. Va però sottolineato che non basta una bella montatura a proteggerci dai raggi solari. Come per la pelle serve una buona crema con la protezione adatta, anche per gli occhiali da sole serve una buona lente. Quanti di noi si sono ritrovati con spiacevoli sorprese dopo aver usato una crema di protezione di scarsa qualità? La stessa cosa accade agli occhi, anche se nell’immediato non ci accorgiamo dei danni.

Raggi infrarossi, luce visibile, raggi ultravioletti UV-A, raggi ultravioletti UV-B: sono di diversi tipi i raggi solari che raggiungono la terra, alcuni più pericolosi di altri. Per esempio gli occhi diventano sempre più sensibili ogni volta che vengono esposti ai raggi UV-A e UV-B, quindi a ogni esposizione noi li danneggiamo ogni volta un po’ di più. Anche un cielo nuvoloso non basta a filtrare a sufficienza questi raggi. La protezione data dalle nuvole è veramente ridotta anche nei casi di cielo coperto. Se in queste condizioni meteorologiche riesce a passare ben l’80% dei raggi, cosa può accadere con un cielo blu? Esistono poi condizioni che possono aggravare il danno a carico degli occhi: il riverbero della luce dato dalla neve, dalla vicinanza a superfici d’acqua, persino alla sabbia o al cemento, fa aumentare il rischio associato a questi raggi. Ci sono quattro tipologie di riverbero: distraente, fastidioso, invalidante, accecante. Già dai nomi si comprende cosa può accadere al nostro organo della vista.

Occhi, se non li proteggiamo cosa rischiamo

I raggi UV nuocciono gravemente alla salute. Qui la nostra attenzione è rivolta all’occhio. Quando non lo proteggiamo con gli occhiali da sole i raggi possono lesionare retina e cristallino, causando danni che possono solo peggiorare con l’avanzare degli anni. Ogni età chiede prevenzione, ma indubbiamente l’occhio di un bambino e quello di un anziano soffrono maggiormente. L’occhio va quindi tutelato attraverso comportamenti intelligenti: va prestata attenzione ai fattori di rischio, come le superfici riflettenti che dicevamo; inoltre, quanto è più alto il sole nel cielo, tanto è maggiore il livello di radiazioni che raggiungono la superficie terrestre, arrecando danni decisamente maggiori. Anche il fattore altitudine è un’aggravante, più siamo in alto più siamo esposti, quindi ricordiamocelo: mai a occhio nudo in queste condizioni, già pericolose prese singolarmente.

Sono diverse le patologie a carico dell’occhio causate da una eccessiva esposizione ai raggi solari: forte lacrimazione, congiuntiviti, accecamento, ustioni della cornea, fotosensibilità. Come già accennato, nel corso degli anni i danni si possono aggravare, dato che l’ eccesso di UV ha l’effetto di invecchiare prima del tempo il nostro cristallino, diminuendone la trasparenza e favorendo così la cataratta, anche in giovane età. Per questo una corretta informazione può salvarci la vista.

Non si scherza con le malattie oculari causate dalla luce solare. Non per fare inutili allarmismi ma è importante comprendere come evitare i danni dei raggi solari nell’immediato e nel futuro. Rivolgendosi a centri e professionisti specializzati, senza il pericoloso fai-da-te, si può fare del bene alla salute dei nostri occhi con un gesto molto semplice: indossando lenti polarizzate, soprattutto quando la luce è intensa e l’esposizione ai raggi solari è di lunga durata.

Lenti, what else?

Le protettive devono rispondere a più requisiti: ridurre l’abbagliamento solare e assicurare l’assorbimento del 100% delle radiazioni dannose per gli occhi. Ma non basta avere delle lenti buone. Anche la forma della montatura è fondamentale. E sì, che senso avrebbe avere delle ottime lenti protettive se poi indossiamo una montatura che permette alle radiazioni solari di penetrare lateralmente? Non solo, chi ha difetti visivi avrà maggiori benefici scegliendo un determinato colore. Miopia, astigmatismo, ipermetropia rendono gli occhi più sensibili alla luce, quindi se le lenti grigie sono universali come indossabilità, un miope avrà benefici maggiori usando lenti marroni o ambra, mentre per un ipermetrope sarebbe meglio indossare lenti verdi. Tonalità rosa, gialle e azzurre sono da evitare, come le lenti con colori sfumati perché non proteggono adeguatamente dalle radiazioni. Se proprio non resistete al fascino di lenti con simili colori, sappiate che non devono essere usate in sostituzione delle lenti scure. Il loro scopo è decisamente molto estetico e poco protettivo.

Se abbiamo acquistato un paio di occhiali da sole alla prima bancarella trovata e pensiamo di aver messo al sicuro i nostri occhi, direi proprio che dobbiamo per prima cosa buttare quei due pezzi di plastica scura. I bambini e gli anziani non sono solamente le fasce di popolazione più a rischio, ma anche quelle che fanno meno uso degli occhiali da sole o che spesso indossano occhiali da sole non adeguati. E sì, il bimbo cresce, inutile spendere soldi in più per un occhiale che presto sarà inservibile o che verrà dimenticato e calpestato: meglio calpestare i suoi occhi. Si dovrebbe iniziare a pensare agli occhiali da sole come a un accessorio indispensabile. Gli occhi sono la nostra finestra sul mondo, una finestra dai vetri delicatissimi che vanno curati con la massima attenzione. Il che significa non solo indossare gli occhiali da sole, ma indossare occhiali da sole in grado veramente di proteggere i nostri occhi.

Un pappagallo da tutelare: il Kākāpō

Strigops habroptilus, noto più comunemente come Kākāpō, è un grosso pappagallo terricolo, endemico della Nuova Zelanda.  È l’unico esponente (specie) del genere Strigops (dal greco strigos “gufo” + ops “occhio”) e Il suo nome comune deriva dai termini māori kākā («pappagallo») e  («notte), ovvero pappagallo notturno.

Strigops habroptilus (Kākāpō). Credit: Flickr

È uno tra gli animali più singolari al mondo: è l’unica specie di pappagallo incapace di volare e quello tra i più longevi, arrivando a superare addirittura i 60 anni di età. Non solo, è anche il più massiccio (pesa circa 4 kg, ma può arrivare fino a 7 kg). Presenta, inoltre, un forte dimorfismo sessuale: il maschio è molto più grande rispetto alla femmina, circa un 30-40% in più in termini di peso. La femmina, a differenza del maschio, manifesta un piumaggio con minore quantità di giallo e meno chiazze, testa più piccola, ali e coda relativamente più lunghe e becco più stretto.

La sua dieta è costituita principalmente da tuberi, bulbi e rizomi, di cui si nutre durante la notte, sfruttando il suo olfatto estremamente sviluppato. Le ali, sebbene inutili al volo, vengono utilizzate per frenare, mantenere l’equilibrio e direzionare il movimento durante la discesa dagli alberi. Le grandi zampe gli consentono, infatti, di arrampicarsi con agilità sugli alberi fino a raggiungere altezze di 20-30 m.

Sequenza delle diverse posture assunte da un esemplare maschio di Kākāpō durante il booming. 1. Postura normale 2. Postura di allerta che anticipa il booming 3. Inizio del booming 4. Massima inflazione toracica durante il booming. (Powlesland, R.G et al., 2006)

Le singolarità di questo insolito uccello tuttavia non si esauriscono qui. I Kākāpō sono gli unici pappagalli che adottano un sistema nuziale basato sul “lek”, ossia sul raduno di tutti i maschi in specifiche aree riproduttive (“arene”) dove sfoggiano il proprio piumaggio e si rintanano in buche del terreno dalle quali emettono richiami a bassa frequenza (inferiori a  100 Hz), definiti booming, per attrarre le potenziali partner con versi udibili fino a 5 km di distanza.

La riproduzione, a differenza di quanto accade per la maggior parte degli uccelli, non avviene tutti gli anni, ma solamente ogni 3-4 anni, in corrispondenza del periodo in cui il rimu (Dacrydium cupressinum, conifera endemica della Nuova Zelanda) fruttifica abbondantemente.

Il sistema riproduttivo basato su display nuziali appariscenti e le peculiari caratteristiche biologiche del Kākāpō lo rendono estremamente vulnerabile e soggetto a forte predazione da parte di mammiferi. Quest’ultima è in parte associata al loro inefficace meccanismo di difesa: in caso di pericolo, infatti, tendono ad immobilizzarsi per confondersi con la vegetazione circostante sfruttando il loro piumaggio screziato e mimetico.

Strategia un tempo molto efficace nei confronti del suo primordiale predatore naturale, l’aquila di Haast (Harpagornis moorei, estinta intorno al 1480 d.C.), ma del tutto inadeguata con i predatori introdotti dai coloni europei (ratti, ermellini, puzzole e gatti), dotati di ottimo olfatto. Prima dell’introduzione dei predatori alloctoni l’areale del Kākāpō occupava una superficie ben più ampia. Oggi è fortemente minacciato di estinzione e sono molti gli sforzi portati avanti dal team di ricerca Kākāpō Recovery per mantenere viva l’esigua popolazione attuale (circa 153 esemplari secondo i dati del 2017).

Allyson Vigano 

BIBLIOGRAFIA 

  • Cockrem, J.F. (2006). The timing of breeding in the kakapo (Strigops habroptilus). Notornis 53(1): 153-159
  • Powlesland, R.G.; Merton, D.V.; Cockrem, J.F. (2006). A parrot apart: the natural history of the kakapo (Strigops habroptilus), and the context of its conservation management. Notornis 53 (1): 3 – 26. 

SITOGRAFIA
kakaporecovery.org.nz/wp-content/uploads/2012/12/Kakapo-timeline.pdf

 

Sindrome di rett: dalla diagnosi ad una (possibile) cura?

La sindrome di Rett è la prima causa al mondo di grave ritardo mentale femminile: questa colpisce casualmente una bambina ogni 10.000-15.000, e stima che in Italia ci siano 2.500-3.000 casi. Dopo un primo periodo di vita apparentemente normale, le piccole affette dalla sindrome perdono progressivamente quasi tutte le abilità acquisite in precedenza: non riescono più ad usare le mani, a parlare, e spesso anche a camminare.

La storia della sindrome di Rett è relativamente recente. La patologia prende infatti il nome dal dottor Andreas Rett, un neurologo austriaco che nel 1966 la identificò per primo in alcune bambine da lui visitate che presentavano sintomi comuni.
Solo nel 1982, però, la comunità scientifica internazionale venne a conoscenza della sindrome di Rett, grazie a una pubblicazione in lingua inglese del neurologo svedese Bengt Hagberg, che ne descrisse in maniera dettagliata la sintomatologia.
La causa della malattia, però, restava sconosciuta, e diverse sono state le ipotesi via via formulate da medici e ricercatori nel tentativo di spiegare tutto l’insieme dei sintomi.

L’evoluzione della malattia viene descritta attraverso quattro fasi, che possono però variare per durata e gravità dei sintomi da bambina a bambina.
La diagnosi, che si basa innanzitutto sull’osservazione delle caratteristiche cliniche e viene confermata dall’analisi genetica, in questi ultimi anni ha assistito a un notevole miglioramento, ma ad oggi non ci sono trattamenti risolutivi.
Importante l’approccio riabilitativo, rivolto sia ai sintomi motori che a quelli cognitivi: fisioterapia, terapia cognitiva, logopedia, musicoterapia, ippoterapia e l’utilizzo della comunicazione aumentativa possono aiutare a ridurre i movimenti stereotipati, incrementare le abilità delle bambine e migliorare la qualità della loro vita.

Dopo numerosi studi, la causa principale venne identificata dalla dottoressa Huda Zoghby e dai suoi collaboratori a Houston, in Texas: la malattia è provocata da mutazioni nel gene MEPC2, che si trova sul cromosoma sessuale X.
Il gene MECP2 contiene il “codice” per la sintesi della proteina chiamata MeCP2: questa ha la funzione principale di impedire ad altri specifici geni di essere “tradotti”, cioè di portare a loro volta alla sintesi della proteina di cui contengono il codice.

Negli ultimi anni sono state individuate diverse altre funzioni di MeCP2. Alcune ricerche, ad esempio, suggeriscono un coinvolgimento del gene nella sintesi proteica; altre, più recenti, ipotizzano che MeCP2 potrebbe influenzare la divisione delle cellule, la loro maturazione e il loro differenziamento.

Per molti anni la ricerca e i medici si sono chiesti se la sindrome di Rett fosse una malattia potenzialmente guaribile o se il cervello delle bambine fosse irreversibilmente danneggiato. I risultati delle ricerche facevano pensare che non fosse presente un danno irreversibile, ma la prova definitiva venne fornita dal ricercatore scozzese Adrian Bird nel 2007, lo stesso che anni prima aveva identificato per primo la proteina MeCP2.

Bird e i suoi collaboratori crearono un topo con un gene MeCP2 bloccato e quindi incapace di produrre la proteina, presentando sintomi largamente simili a quelli della sindrome di Rett. Il blocco del gene non era tuttavia definitivo: poteva essere eliminato dopo la nascita, in qualsiasi momento, grazie alla semplice somministrazione di un farmaco, ripristinando completamente le sue funzioni.

È quindi possibile una cura? Per rispondere a questa domanda numerosi ricercatori in tutto il mondo stanno unendo i loro sforzi, grazie anche ai fondi stanziati da fondazioni come Telethon. Se la cura definitiva sembra ancora lontana, i numerosi risultati lasciano una buona speranza per il futuro.

Gabriele Bonetti

Bibliografia:

prorett.org

Guy, J., Gan, J., Selfridge, J., Cobb, S., Bird, A. (2007). Reversal of neurological defects in a mouse model of Rett syndrome. , 315(5815), 1143-1147.

Horvath, P. M., Monteggia, L. M. (2018). MeCP2 as an Activator of Gene Expression. , 41(2), 72-74.

La persistenza della Scarrupata

Dal Sole fu la Meridiana; millenni dopo, dalla Sabbia la Clessidra; secoli dopo, da ingranaggi e corone dentate gli orologi con le lancette; decenni fa, dalla frequenza di risonanza degli atomi orologi che chiamiamo atomici.

Meridiane, clessidre, orologi da polso e atomici misurano il tempo: nanosecondi, minuti, ore, secoli, millenni. Agli albori, misure incerte e imprecise, come le Lune che scandivano la vita di Coda di Lupo (celebre canzone di Fabrizio de André). Oggi determinazioni così precise, assolute e tangibili, da esprimere in infinitesimi, da scrivere con 10, 100, 1000 cifre.

Con o senza la Luna e il Sole, la Sabbia, gli Ingranaggi, gli Atomi, il tempo corre e scorre, sempre eternamente uguale.

Corre e scorre, ignaro… Dei nostri primi vagiti, degli orari che cadenzano la nostra breve e ripetitiva esistenza: svegliarci e coricarci, recarci al lavoro e al supermercato, abbuffarci ed esaurirci, ridere e annoiarci. Ed è felice chi impara ad amare ciascuna di queste routine, come i GATTI, i miei grandi maestri.

Con fredda precisione batté la nostra prima ora. Con altrettanta fredda precisione batterà l’ultima. Due battiti, come milioni di milioni, come infiniti; due battiti che sono due numeri, due date, una vita: la fredda ma precisa sintesi di gioie e dolori, vittorie e sconfitte, illusioni e delusioni.

E, intanto, battito dopo battito, continua, inarrestabile, la sua corsa.

Corre e scorre, freddo e preciso, convertendo gli avvenimenti salienti della nostra esistenza in sprazzi di memorie che, anno dopo anno, ci appariranno sempre più vaghi ed estranei…

Ci si iniziava a familiarizzare, almeno secondo l’”approccio scientifico”, a scuola, nelle ore di fisica; era lui, il Tempo, il Signore della Cinematica, quel misterioso parametro che —ti dicevano— regola la legge oraria di un corpo, ovvero, la traiettoria, la posizione, la velocità e l’accelerazione, punto per punto, battito per battito. Tutto era determinabile e determinato con assoluta precisione.

Si partiva della velocità media vm; un calcolo banale, alla portata pure dei più “ciucci”: bastava dividere la distanza percorsa ∆S per l’intervallo di tempo trascorso ∆T e… zac, fatto!

Ma, come sempre accade nella vita, le cose presto si complicavano finché, alla fine del corso, giungevi al moto di un proiettile lungo la verticale y. Una legge oraria molto più complessa capace di ispirare anche quesiti dai toni inquietanti come: stabilire la quota hx a cui piazzare un cannone inclinato α per sparare un proiettile con velocità iniziale vo affinché, dopo aver valicato una collina distante do e alta h, inizi la sua parabola discendente, punti verso un castello, si infili tra i merli, varchi la finestra della stanza reale e, dulcis in fundo (si fa per dire), centri l’incauto proprietario, un orco, un tiranno o un altro personaggio feroce, meritevole di morte…

Tutto era logico, matematico, determinato. Tutto avveniva senza imprevisti, con “chirurgica” (come si disse per le famigerate “bombe intelligenti”) e sadica (visto il macabro proposito) precisione.

Perché precisa era persino la costante di gravitazione universale g che, a dispetto del  nome, tanto costante poi non è, tant’è che varia in funzione della distanza dal centro della Terra. Ma è roba da poco. E, di conseguenza, il proiettile non solo infrangeva i vetri della dimora reale quanto anche colpiva al cuore il malaugurato inquilino, reo, nel mio personalissimo immaginario, di incarnare il Potere, in tutta la sua arroganza e ferocia. Un potere estraneo, freddo e inumano, come la Fisica appunto, come il Tempo.

Che, inevitabilmente, dopo la cinematica, te lo ritrovavi nella dinamica, nella termodinamica.

Perché Fisica e Tempo sono un tutt’uno, un corpus inscindibile.

Ma un giorno, più in là negli anni, scopri che, in fondo, anche il Tempo un’anima ce l’ha; e, quasi fosse un paradosso, a rivelarlo fu proprio lo scienziato moderno per antonomasia. E non solo per l’aria trasognata e assorta e gli arruffati capelli canuti.

Fu lui, Einstein, a dire che tutto è relativo. Finanche il Tempo. Perché, come lo Spazio, si curva. Sulla Terra, dove g (la costante gravitazionale) è bassa, in modo quasi impercettibile ma tantissimo, p.es. nei pressi di un buco nero, dove il Campo Gravitazionale è così intenso (e curvo) da non lasciare sfuggire verso l’esterno niente, finanche la luce.

Ce ne parlava Piero Angela che, per esemplificare il concetto, ricorreva al paradosso dei gemelli, partorito della fantasia di qualcuno certo più sadico di me o, magari, ammaliato dalla trama di Interstellar e/o di Space Oddity: un astronauta, impacchettato su un’astronave, veniva spedito a vivacchiare nei pressi di un buco nero; e lassù, il poveretto, che di occupazioni ne doveva avere ben poche, passava il tempo a spiare quanto accadeva quaggiù, sulla Terra: tragiche le prime immagini in cui assisteva alla morte non solo del fratello, gemello appunto, ma anche a quella dei nipoti e, a ruota, dei nipoti dei nipoti, e dei nipoti dei nipoti e via all’infinito. Mentre per lui erano trascorsi solo pochi istanti. Perché, ci diceva il buon Piero, il Tempo lassù, per effetto dell’elevatissimo campo gravitazionale, scorre infinitamente più lento, perché, lì, spazio e tempo sono curvi, infinitamente curvi.

Tanto curvi che, lassù, anche le agognate soluzioni al mio quesito di balistica, andavano a farsi friggere e, magari, finanche se avessi piazzato il cannone 100 metri più in alto della collina forse non sarei riuscito a valicarla e, ancor meno, a centrare la stanza reale, con gran gioia del malaugurato personaggio.

Un morto in meno ma anche la relativizzazione di leggi che, per qualche secolo, erano state ritenute perfette e avevano contribuito a fugare le tenebre del Medioevo.

Perché lassù, le leggi della Cinematica vanno adattate al valore della gravitazione. Perché lo Spazio è curvo. Perché il Tempo è curvo e relativo.

Ma, cent’anni fa, il buon Piero non era nato è tanto meno la TV. Quella TV, oggi tanto bistrattata, che, nonostante tutto, ha insegnato a tanti italiani la propria lingua nonché ha tentato di democratizzare e divulgare la cultura, la scienza, anche quella più complicata, come la fisica e, addirittura, la teoria della relatività.

Impresa tutt’altro che facile. Basti pensare che lo stesso Einstein, nel tentativo di spiegarla, si avvalse di parole che, alcuni, taccerebbero di veteromaschilisti. Disse: ”Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Ecco cos’è la relatività“ [NYT, 1929].

Il Tempo è assoluto. Corre e scorre in modo oggettivo, freddo e preciso. Ma noi siamo umani. La nostra mente classifica e registra gli eventi. È pur vero che lo fa servendosi del criterio cronologico; ma, più che il tempo preciso, freddo e assoluto, ordina gli eventi, ponderandoli, avvalendosi di criteri quali le proprie emozioni, sensazioni e il valore che attribuiamo all’esperienza vissuta, all’immanenza e alla trascendenza che potrà avere sul nostro vissuto.

Provate a chiedere a uno sfollato del terremoto la cronaca degli attimi che lo precedettero e, sicuramente, vi fornirà un resoconto vivo, traboccante di particolari e sensazioni mentre, probabilmente, nel raccontare il giorno anteriore cadrà nello scontato, addirittura confondendo episodi accorsi in altre circostanze.

L’essere umano si comporta un po’ come un buco nero. Relativizza il Tempo; non certo per il campo gravitazionale, bensì perché è dominato dalla soggettività, dall’imprecisione. Perché, in lui, il Tempo è Memoria; perché, col proprio cervello, ha la capacità di creare proprie esperienze e di richiamarle (o, perché no, rimuoverle) al momento opportuno.

Fig. 1: “La persistenza della memoria” di Salvador Dalí.

Fu, credo, quanto volle plasmare Salvador Dalí nel suo capolavoro, “La persistenza della memoria” (fig_1). Nella tela, i 3 orologi pretendono misurare, in modo oggettivo e preciso, lo scorrere regolare e cadenzato del tempo; ma ciò è impossibilitato dalla nostra natura, dalla nostra condizione di esseri umani, soggettivi e imprecisi, incapaci di cogliere l’oggettività dei fenomeni in quanto, lungi dal Tempo, in noi prevale la Memoria, soggettiva e relativa. Gli orologi di Dalí, pertanto, sono “molli”, ovvero plastici e soggettivi in quanto, proprio come dei “formaggi” (vedi dopo), si squagliano, si adattano alle fattezze degli oggetti che li sostengono ovvero alla propria realtà, al proprio vissuto, all’universo che lo popola. L’orologio più grande poggia su un ripiano color terra, da cui emerge un tronco d’olivo spoglio; sull’unico ramo, pur’esso privo di foglie, ne poggia un secondo e, in basso, su un substrato marrone e privo di vita, un terzo, adagiato a un occhio dalle lunga ciglia. Delle formiche pullulano sulla patacca chiusa, pronte a divorarla (la triste sorte che toccò a un malcapitato coleottero, una scena che produsse nel pittore una speciale fobia verso questi insetti), sembrano suggerire la morte che, proprio perché immancabile, ci limita, ci rende vulnerabili e, perciò, incapaci di cogliere l’oggettività del Tempo. Le formiche divorano la Memoria.

Come tante, anche quest’opera di Dalí sembra un sogno. Un Incubo. Ma la fonte di ispirazione non fu certo la sua attività onirica bensì un episodio ancor più fortuito e prosaico. Una sera, al termine della cena, una forte quanto insolita emicrania gli impedì di accompagnare al cinema l’amata Gala; standosene a tavola, la sua attenzione fu catturata dal camembert degustato a fine pasto, quel formaggio che se ne stava lì a sciogliersi, molle e inconsistente come il Tempo, come “orologi molli”. Folgorato dall’ispirazione, pur provato dal mal di testa si precipitò nell’atelier è riportò quella sua intuizione, quegli orologi molli, sul quadro in cui era impegnato: un paesaggio a egli familiare, una veduta di Port Lligat all’imbrunire. Uno sfondo semplice, popolato da pochi oggetti, rappresentati con elegante essenzialità ma che, per dar vita a un quadro finito, erano bisognosi di un’idea. E l’idea, furono quegli orologi, disegnati con spasmodica e ossessiva fretta, prima del rientro di Gala da quella che, magari, dovette essere una delle sue solite serate brave (ma su ciò sorvoleremo).

È bella la Catalogna. La sua lunga e frastagliata costa su cui si affacciano porti, borghi marinari e cittadine. Il suo mare, dai suoi infiniti toni azzurri come quello di Ischia, come quello che bagna l’isolotto dove oggi si aggruppano mura e abitazioni, costruzioni che chiamiamo il “Castello Aragonese”. Suggestivo, romantico, struggente. Come “L’isola del Morti” di Arnold Böcklin (fig_2) che, dicono, si sarebbe ispirato all’amato isolotto ischitano.

Fig. 2: “L’isola del Morti” di Arnold Böcklin

Mi piace pensare che, l’avesse visto Dalí, magari l’avrebbe preferito al suo Port Lligat per piazzarci i suoi orologi e farci il suo capolavoro. Non certo per rappresentare il freddo paesaggio che fa da sfondo agli orologi molli, al Tempo, quanto per coglierne la fugacità, la relatività e l’imprecisione, la Memoria che persiste al suo incessante scorrere, che è ciò che ne rimane. L’avesse scelto e, allora, sulle alte costruzioni avrebbe certo poggiato un orologio appena percettibile, quasi completamente squagliato, quasi invisibile. Perché, lì, sulla vetta, persistono vive solo le vestigia dei suoi battiti più recenti; perché niente resta di quelli del greco Gerone ma solo, di quelle più recenti, quattrocentesche, volute da Alfonso V d’Aragona che, e non è coincidenza da poco, veniva proprio da quelle terre ispaniche che, poi, diedero i natali a Dalí e, purtroppo, di recente, anche a personaggi mediocri e miserevoli, millantatori della storia, che hanno preteso di chiamare nazione quella che fu una contea, la Catalogna.

Ma torniamo a Ischia, al suo castello Aragonese. Sono belle le sue costruzioni; alte e maestose, a picco sul mare, incastrate tra le rocce, fanno capolino tra i cespugli della macchia mediterranea. Sono belle perché dalle linee rette, semplici e minimaliste, e, proprio per questo, altro paradosso non da poco, moderne.

Fig. 3: Machu Picchu

Proprio come le costruzioni di Machu Picchu (fig_3), semplici, austere e primitive, perchè erette da popolazioni che, prima dell’arrivo dei conquistatori spagnoli (e dagli – ancora loro), versavano in quella che non è certo esagerato definire Età della Pietra, un Neolitico dai connotati sud-americani, in cui non c’era spazio per lo sfarzo e gli adorni a cui ci avevano qui abituato, più di un millennio prima, greci e romani. E Machu Picchu, come il Castello Aragonese (fig_4), affascina per quello che c’è sotto la pietra lavorata dall’uomo, per lo sfondo, per la pietra lavorata dalla natura, l’essenza del suo fascino.

Fig. 4: il Castello Aragonese

L’essenza del Castello Aragonese, e per molti la sparerò grossa, è la sua pietra primordiale, quella forgiata dal vulcano (che c’è sotto). Una particolare tipologia, i cosiddetti “Duomi vulcanici”. Sono tipici delle Eruzioni Effusive (delle Eruzioni Esplosive, l’altra modalità, vedi oltre), in cui il magma, abbandonata la camera magmatica, risale i condotti vulcanici e giunge in superficie dopo aver subito ben poche alterazioni. In genere, il magma è abbastanza fuso così da dar luogo a colate come quella dell’Arso (1301/2; fig_5) o di Punta la Scrofa (III sec. d.C.).

Fig. 5: Modello Digitale del Terreno di Ischia con, evidenziato in blu, la colata dell’Arso (1301/2). Da “Passeggiate Ischitane” di Massimo Mattera.

Ma in altri casi, come a Ischia Ponte, essendo troppo densa per scorrere fuori dalla bocca eruttiva, vi si impilò e, accrescendosi, assunse la caratteristica forma che, evocando le antiche cattedrali, da nome a questa tipologia di centro eruttivo. Avvenne oltre 130000 anni fa. Ma, ca. 15000 anni prima, a una decina di chilometri da Ischia Ponte, doppiata Punta San Pancrazio, se ne erano già formati un altro paio. Per le dimensioni dovevano apparire come due faraglioni, due gemelli in mezzo al mare; oggi, sono inglobati alla base di una alta parete rocciosa, la Scarrupata (fig_6).

Fig. 6: la Scarrupata.

Osservandola preferibilmente da mare, apparirà composta da strati contraddistinti da colori che spaziano dal giallo al bianco passando per l’ocra. Ognuno di quegli strati si è accumulato in seguito a un’eruzione (Orologi). Ma, stavolta, si tratta quasi sempre di Eruzioni Esplosive. Di gran lunga più dannose e pericolose delle Effusive, sono prodotte da magma più viscoso che, nella sua risalita subisce un processo, detto Frammentazione (fig_7), che lo snatura completamente. Si trasforma, infatti, da massa solida (il magma) in un jet, una vorticosa miscela di gas, particelle fini e brandelli di magma che, raggiunta la superficie, si innalza sul cratere vulcanico dando vita a un’enorme nube densa, dalla caratteristica forma di “pino” e alta fino a 70 km.

Fig. 7: Schema di Classificazione delle Eruzioni. Da “Il Vulcano Ischia” di M. Mattera.

Viene detta “Colonna Pliniana” in onore a Plinio il Giovane che, una decina di anni dopo la tragica eruzione del 79 d.C. costata la vita allo zio Plinio il Vecchio, in una delle due celebri missive inviate a Tacito, la descrisse paragonandola proprio a quest’albero. Quando i prodotti che la compongono (in ordine di grandezza: ceneri, lapilli e pomici), raggiungono la massima quota e non sono sostenuti più dal jet, ricadono al suolo, sottoposti alla spinta dei venti di alta quota. In pratica, tornando ai cenni di cinematica prima esposti, i materiali piroclastici si comportano come proiettili che da una quota h (in cui cessa l’azione del jet) ricadono al suolo sospinti da una forza orizzontale ovvero  con una velocità orizzontale vo. Per questo, cadendo, tendono a formare depositi a forma ellissoide, con il centro di emissione che occupa uno dei fuochi e il semiasse maggiore coincidente con la direzione dei venti dominanti. I depositi tendono ad adattarsi alla morfologia, ricoprendola con un mantello uniforme di piroclasti, proprio come gli orologi di Dalí o, per i più prosaici, come un camembert. A Ischia questi depositi abbondano: “mantellano” rilievi e colline (Schiappone, Guardiola, Tripodi, Bosco della Maddalena ecc.), depressioni e valli (Fondo d’Oglio, Fondo Ferraro, Cava Nocelle ecc.).

E “Mantellano” la Scarrupata, con la cosiddetta Formazione di Piano Liguori (fig_8_9), un letto di pomici e ceneri biancastre, spesso una decina di metri, che con il suo caratteristico andamento a zig-zag, ne solca la parte sommitale. Prodotti, caduti come una pioggia ardente e devastante, eruttati ca. 6000 anni fa da un vulcano oggi sommerso, la Secca d’Ischia.

Fig. 8: Sezione stratigrafica della Scarrupata. Da “Island of Ischia”. Vezzoli.

Piovvero, dunque, alla Scarrupata. Ma anche sul Castello Aragonese. Ma sull’isolotto, circondato dal mare, furono asportati dagli agenti esogeni e, oggi, ne restano che poche vestigia o, per in termini tecnici, “materiali indistinti”. Un orologio troppo molle da rappresentare. Persino per Dalí.

Ma il Castello Aragonese, e la Scarrupata, furono investiti anche dai materiali depositati da un’altra fenomenologia vulcanica…

Riprendiamo il discorso sulle Eruzioni Esplosive. Nel loro corso può accadere che la miscela prodotta dalla Frammentazione sia troppo densa per sollevarsi sul cratere e formare la Colonna Eruttiva o, altra possibilità, che la colonna pliniana collassi: si assiste così alla formazione dei Flussi Piroclastici (fig_7), una vorticosa nube di magma, materiali accidentali e gas che, dal cratere, si precipita lungo i fianchi, ad elevate velocità (50-100 km/h) e temperature (ca. 400 ºC), facendo tabula rasa di ciò in cui si imbatte. Sono di gran lunga la fenomenologia vulcanica più pericolosa e, non a caso, nel 79 d.C. Pompei fu cancellata dalle mappe delle città romane proprio da un flusso piroclastico.

E a Ischia ne abbondano i depositi, segno, orologio, delle immani calamità che devastarono l’isola. Depositi che appaiono come masse caotiche, prive di stratificazione ed eterogenee, come i tufi, che abbondano un po’ d’ovunque sull’isola, ai Campi Flegrei e ai piedi del Somma-Vesuvio. E abbondano anche lì, alla Scarrupata. Proprio sulla groppa dei duomi gemelli, una coltre di materiali piroclastici spessa diverse decine di metri, la cosiddetta “Formazione Inferiore della Scarrupata” (fig_8_2). E, poi, su quest’ultima e delimitata in alto proprio dalla Formazione di Piano Liguori, corre un caotico bancone di tufi biancastri con intercalati pomici, lapilli e ceneri: il “Tufo Verde del Monte Epomeo” (fig_8_6). Uno spesso banco di tufo a volte bianco, altre ocra o giallo ma, attenzione, contraddicendo la sua stessa denominazione, mai Verde. Perchè, il tufo verde, con la sua caratteristica colorazione, quello delle parracine di Forio e Panza, quello che svetta sull’isola, pur generato dalla stessa eruzione, ha subito un’evoluzione diversa. Difatti sprofondò nell’enorme caldera che si aprì al centro dell’isola, all’epoca, ca. 55000 anni fa, completamente inondata dal mare. E, nei millenni, alterato dalle infiltrazioni di acqua marina e dai fluidi geotermali, assunse il caratteristico colore verdognolo, da cui prende il nome l’eruzione, definita appunto del Tufo Verde del Monte Epomeo. Una sorte, quindi, completamente diversa dal tufo verde che si depositò alla Scarrupata ma anche al Monte Vico, a San Pancrazio, che, non interagendo col mare, ha conservato il suo colore originario. Facile ipotizzare che anche sul Castello Aragonese piovvero materiali ascrivibili a quest’eruzione, la più devastatrice dell’isola e, tra le più intense, del distretto vulcanico campano. Eppure, come per i prodotti della Formazione di Piano Liguori, sull’isolotto è difficile riconoscere depositi ascrivibili a essa. Spazzati, probabilmente, da alluvioni, smottamenti e altro.

Un altro orologio completamente squagliato, perché troppo molle e perché poggiato a un luogo dove la memoria stenta a permanere. L’Isola dei Morti. Quei morti che Böcklin, durante un suo soggiorno terapeutico presso Villa Drago, vide che venivano sepolti nel cimitero di Sant’Anna, di fronte a quel roccione che divora orologi perché ha cancellato la memoria di tante eruzioni. Perchè Caronte, ci inganna con il suo bianco vestito e ci traghetta sulla sponda da cui non si fa più ritorno. Uno scoglione invaso da formiche che, voraci, divorano orologi, Memoria.

Speriamo che se ne restino lì, che risparmino ancora la Scarrupata. Perché la Scarrupata è la tela che, meglio di qualsiasi altra, parla delle nostre origini. Perché lì gli orologi non sono molli, non si squagliano.

Ah, dimenticavo il seguito della storia del personaggio oggetto dei miei calcoli balistici. Studiando Fisica del Vulcanismo, imparai ad adattarli a situazioni molto più scientifiche e di utilità. Il calcolo della traiettoria delle cosiddette bombe vulcaniche (fig_9). Si tratta di grossi brandelli di magma che accompagnano la formazione della Colonna Pliniana ma, che a differenza di pomici, lapilli e ceneri, essendo più dense e pesanti, cadono al suolo seguendo una traiettoria balistica del tutto simile a quella del famigerato proiettile. Dalla caratteristica forma affusolata, a volte simili a pagnotte, se ne trovano, per esempio, ai Pizzi Bianchi o, se non amate l’avventura, lungo la falesia che si affaccia su Sorgeto. Ebbene, se le osservate, scoprirete che hanno deformato gli strati su cui hanno impattato. Basandosi su quest’informazione è possibile stabilire la posizione approssimata del centro di emissione, ovvero, del cratere che le ha eruttate.

Fig. 9: bomba vulcanica.

Con gli anni, con le esperienze che diventano Memoria, a volte si impara a ricondurre le proprie idee. Peccato che di esse, prima o poi, resterà poco o niente; che Caronte non faccia eccezioni e non risparmi a nessun quella lugubre traversata.

Massimo Mattera

Come è cambiata l’agricoltura: l’evoluzione storica del mais

Circa 9.000 anni fa avvenne la prima domesticazione del mais nel Nuovo Mondo; oggi, esso rappresenta il 30% delle colture GM globali.

L’uomo, grazie al processo di domesticazione delle specie selvatiche, nel tempo, ha selezionato artificialmente le caratteristiche fenotipiche di maggiore interesse nutritivo ed agricolo, fino ad ottenere le specie domesticate. Una specie domesticata quindi, sia essa animale sia essa vegetale, presenterà un insieme di caratteri utili che la rendono maggiormente idonea all’allevamento od alla coltivazione. Nel caso delle specie vegetali di interesse agricolo la più evidente caratteristica ad esser stata selezionata riguarda la grandezza degli organi raccolti. Per facilitare la comprensione di questo concetto immaginiamo una popolazione di piante selvatiche che presenta dei frutti commestibili di dimensioni esigue. All’interno di questa singola popolazione vi è però un individuo che, a seguito di una mutazione, presenta gli stessi frutti, ma di dimensioni molto maggiori. Allora il proto-agricoltore prediligerà proprio i suddetti frutti e, dopo essersene nutrito, ne favorirà la dispersione. In poco tempo, da un singolo individuo, nascerà una popolazione di piante con grandi e succosi frutti commestibili. A questo punto, perché non iniziare a coltivarle?

Varietà di mais antico

Un qualcosa di analogo può essere successo anche per il mais (Zea mays L.).

Sono stati condotti numerosi studi allo scopo di ricavare informazioni sull’origine del granturco moderno: inizialmente si credeva che esso derivasse da un processo di domesticazione operato sul teosinte (Euchlena mexicana), ma in tempi recenti, una ricerca condotta dalla Duke University ha messo in evidenza come sia più probabile che invece derivi da un incrocio spontaneo verificatosi tra il teosinte e un’altra specie erbacea, il gamagrass (Tripsacum dactyloides). Quest’ultima ipotesi conferma l’evidente correlazione genetica tra il teosinte e il mais, già messa in risalto da Beadle nel 1939,  il quale scoprì come i 10 cromosomi del teosinte fossero omologhi ai 10 cromosomi del mais. Lo studio

presentato da Eubanks nel 2004, tuttavia,  dimostra come il gamagrass abbia contribuito notevolmente alla formazione del mais moderno.

Qualunque essa sia l’origine del granturco, sappiamo praticamente con certezza, grazie a studi archeobotanici, che è avvenuta 8700 anni fa nella valle del Rio Balsas, una regione del Messico sud-occidentale. Da questa zona, la sua coltivazione, si è poi diffusa in tutto il continente americano. Gli Incas seppero sfruttare enormemente l’eterogeneità degli ambienti caratterizzanti le regioni da loro colonizzate, dando origine ad un elevatissimo grado di varietà locali. Queste ultime sono delle varietà di una stessa specie perfettamente adattate all’ambiente che le ha generate e risultano essenziali al fine di mantenere stabile ed integro un sistema agricolo, in quanto, più è elevato il grado di diversità genetica fra le colture, più è elevata la resilienza di un agroecosistema. Quando Colombo sbarcò nelle Americhe, già vi erano coltivate tra le 200 e le 300 varietà di mais.

Così come in passato il granturco faceva parte della cosiddetta triade latino-americana, ossia la consociazione agronomica costituita per l’appunto dal mais, dal fagiolo e dalla zucca, oggi esso, insieme al riso, al grano e alla patata, rappresenta il 50% degli alimenti consumati dall’uomo. Purtroppo però la diversità genetica del mais è in corso di erosione, così come quella di numerose altre specie coltivate. L’agricoltura moderna, pioniera delle monocolture intensive, della meccanizzazione delle pratiche agricole, dell’impiego dei fertilizzanti e degli agrofarmaci chimici di sintesi, della manipolazione genetica mediante biotecnologie, è l’attività umana che maggiormente contribuisce al cambiamento climatico in atto. Oltre alla frammentazione degli habitat conseguente alla deforestazione per fini agricoli, all’erosione accelerata dei suoli, alla contaminazione chimica delle acque e dei terreni, l’agricoltura industriale è responsabile della perdita di variabilità genetica in agricoltura. Nel nostro caso, attualmente, solo 6 varietà di mais rappresentano il 71% delle coltivazioni globali dedicate a questa specie. Inoltre, il granturco è, ad oggi, una delle principali colture geneticamente modificate su scala globale, occupando il 30% dei terreni destinati a tali coltivazioni.

Uno dei principali problemi ecologici connesso ad un agrosistema uniformato da un punto di vista genetico è il fatto che esso sia frequentemente soggetto ad infestazioni, determinando così un inesorabile calo in termini di produttività. A tal proposito, una ricerca della National Academy of Science, già nel 1972, affermava: “…se in America le coltivazioni di mais sono soggette ad infestazioni è perché la tecnologia le ha volute tutte uguali, come gemelli identici: se si ammala una pianta si ammalano tutte. “.

Questa pregiata specie agraria si è quindi originata in un contesto storico nel quale veniva valorizzata la diversità genetica e nel quale vi era particolare attenzione alle dinamiche ecologiche caratterizzanti un ambiente diversificato, per poi evolversi, in tempi moderni, in una delle specie simbolo dell’agricoltura industriale, un’agricoltura che, presto o tardi, dovrà necessariamente essere sostituita da pratiche agroecologiche compatibili con un progresso sostenibile delle società umane.

Simone Valeri

Bibliografia
Beadle, G. W. (1939). Teosinte and the origin of maize. Journal of Heredity, 30(6), 245-247.
Bocchi, S. (2015). Zolle: storie di tuberi, graminacee e terre coltivate (Vol. 256). Raffaello Cortina. Doebley, J. (2001). George Beadle’s other hypothesis: one-gene, one-trait. Genetics, 158(2), 487-493.
Eubanks, M. W. (1997). Molecular analysis of crosses between Tripsacum dactyloides and Zea diploperennis (Poaceae). Theoretical and Applied Genetics, 94(6-7), 707-712.