Il caldo è servito

Coffea-arabicaIl comunicato stampa dell’acquisto, da parte della più grande catena di caffetterie Starbucks, di una piantagione di caffè in Costa Rica per farne un centro di ricerche, ci riporta ad una notizia apparsa alcuni mesi sulla rivista Plos One. Secondo i risultati di uno studio, condotto dai ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew (Gran Bretagna), la Coffea arabica, allo stato selvatico, potrebbe estinguersi nei prossimi settanta anni. La nefasta conseguenza di ciò sarebbe la scomparsa anche delle varietà utilizzate ai fini commerciali, per intenderci le miscele che finiscono nelle nostre tazze. Queste, infatti, derivano direttamente dalla specie selvatica, mediante selezione dei caratteri più idonei alla produzione.  Il solo pensiero che il caffè possa sparire, mi fa rabbrividire! Ma chi è il responsabile di quest’ orribile misfatto?

I ricercatori ci hanno anche consegnato il colpevole: il riscaldamento globale.

Quando si parla di riscaldamento globale, subito la mente corre ai ghiacciai che stanno lentamente sciogliendosi e agli animali legati a questo tipo di habitat. Ma, purtroppo, il riscaldamento globale, o per meglio dire il surriscaldamento, è colpevole anche di un altro genere di “delitti”, che potremmo definire gastronomici. Infatti molti prodotti, al pari degli animali, sono gravemente minacciati.

Nella lista dei “condannati a morte” notiamo alcune presenze eccellenti, il pane, ad esempio.

Genere di prima necessità, immancabile sulle nostre tavole, il pane rischia di diventare un bene prezioso e raro. Stando alle parole degli esperti, il suo prezzo potrebbe lievitare del 90% nei prossimi anni, a causa della siccità e dei disastri naturali che, dal 2011, hanno determinato il danneggiamento delle coltivazioni di grano ed il deperimento delle risorse.

Altra vittima potrebbe essere il cioccolato, il cibo degli dei, vera e propria delizia per i più golosi. I cambiamenti climatici e l’aumento delle temperature potrebbero rendere i terreni del Ghana e della Costa d’Avorio (paesi produttori della metà del cacao mondiale) non idonei alla coltivazione della pianta di cacao.

I primi impatti negativi del riscaldamento globale, sulle coltivazioni, si potranno avvertire già nel 2030, mentre la “scomparsa” della pianta di cacao, e di conseguenza del cioccolato, è prevista nel 2050, anno in cui le temperature potrebbero subire un incremento di 2 gradi e mezzo.

Anche il miele potrebbe non addolcire più le nostre giornate. Questo, perché le nostre api sono stressate. Infatti, i cambiamenti climatici influenzano le stagioni, provocando una primavera anticipata e un restringimento del periodo invernale. Tale sfasamento di 20-30 giorni si traduce in maggior lavoro per le api, la cui salute risulterebbe compromessa. Come compromessa è la produzione del miele, che pare rischi di estinguersi nei prossimi anni.

E se ora aveste bisogno di un “bicchierino” per buttar giù questi bocconi amari, mi duole informarvi che le bizzarrie del clima potrebbero non concedere neppure questa consolazione.

I ricercatori hanno, infatti, previsto un calo di un terzo della produzione nelle regioni vinicole più importanti del mondo, come la Toscana passando per la Francia fino ad arrivare in California. Diminuzione che dovrebbe verificarsi entro il 2040, visto che il riscaldamento globale e gli scompensi climatici rendono la raccolta dell’uva sempre più difficoltosa. Senza trascurare il fatto che, nell’immediato, gli effetti di tale fenomeno potrebbero riguardare la struttura dei vini.

Altra estinzione eccellente potrebbe essere quella del Kentucky Bourbon. Questo pregiato whiskey, invecchiato per almeno un anno, deve il suo particolare aroma e il colore ambrato al clima dello stato del Kentucky, in cui viene prodotto. Binomio che potrebbe essere presto spezzato dall’innalzamento delle temperature, che comporterebbero non solo un cambiamento nella modalità di conservazione, ma anche il trasferimento delle riserve di bourbon in altri territori degli Stati Uniti.

Ma se per il vino e per il bourbon, la “morte” sembra lontana, la fine della tequila è più vicina e la minaccia più incombente. In questi ultimi anni, le piantagioni nel nord del Messico di agave, pianta da cui si ricava il distillato, sono state fortemente colpite dalla siccità. E la situazione sembra irreversibile, tanto da spingere i coltivatori e il governo stesso a considerare l’ipotesi di abbandonare la coltivazione di agave in favore di quelle di mais.

Stilata questa lista di possibili estinzioni gastronomiche, non pensate che sia necessario trovare una soluzione al fenomeno del riscaldamento globale?

Io credo proprio di sì, perché l’unico peccato che voglio commettere è quello di gola!

Paola Pinto
13 aprile 2013

Niente più cosmetici…per gli animali

morte-ti-fa-bella“La morte ti fa bella” è il titolo di un vecchio film che tutti, almeno una volta nella vita, avranno sentito pronunciare. Pensandoci un po’ su, sono giunta alla conclusione che la morte sia un rimedio alquanto estremo, un prezzo troppo alto da pagare sia per gli aspiranti belli, che per le centinaia di animali, a cui la vanità umana è pressoché sconosciuta, ogni anno costretti a testare sulla propria pelle i prodotti di bellezza.

Tutti coloro, che come me, ritengono inutile e crudele questo tipo di sperimentazione, possono tirare un sospiro di sollievo e finalmente gioire per una buona notizia che è arrivata dall’Unione Europea l’11 marzo. Il Parlamento europeo sancisce, finalmente, il divieto di compiere test cosmetici sugli animali e blocca la commercializzazione degli stessi, in Europa. Questo è un traguardo eticamente davvero importante per una società civile, che arriva dopo una faticosa battaglia, piena di ostacoli e di battute d’arresto, intrapresa dalle associazioni animaliste venti anni fa. I primi effetti di questa campagna di sensibilizzazione si cominciarono ad intravedere nel 2003, quando con la direttiva comunitaria 2003/15/CE, l’Unione Europea si proponeva di modificare e gradualmente sopprimere la normativa vigente in materia di sperimentazione animale.

Come conseguenza di questa direttiva, nel 2004 erano vietati i test dei prodotti cosmetici finiti; e nel 2009, tale divieto era esteso anche ai test effettuati sui singoli ingredienti, presenti nei prodotti cosmetici. Nel marzo dello stesso anno 2009, si compiva un altro passo in avanti vietando la vendita di tutti i cosmetici i cui ingredienti fossero stati sottoposti a controlli che implicavano il “sacrificio” di animali, anche se avvenuti al di fuori dei confini dell’Europa. Molto si stava facendo, ma perché questa battaglia potesse dirsi vinta, l’Europa doveva fare un ultimo appello alla sua coscienza e abbattere la sola e unica concessione rimasta ancora in piedi. Fino a qualche giorno fa, infatti, le case cosmetiche potevano ancora testare la tossicità da uso ripetuto e riproduttiva e la tossicocinetica dei prodotti, sugli animali.

Ora, anche questi test non sono più leciti e così termina il lungo iter della direttiva 2003/15/CE. Non c’è che da festeggiare per quest’ obiettivo raggiunto, che rappresenta un importante punto di svolta, una rivoluzione a favore della tutela del benessere degli animali. Ma, e purtroppo dopo una bella storia, c’è sempre un ma, anche se la direzione intrapresa è quella giusta, il cammino da percorrere è ancora molto impegnativo. Infatti, in contraddizione con quanto sancito dalla direttiva 2003/15/CE, vi è un’altra direttiva, la 2010/63/UE, che autorizza la vivisezione per motivi scientifici. Parlare di “autorizzazione” è un po’ riduttivo, dovrei dire che incentiva tale aberrante pratica, consentendo di sperimentare su cani e gatti randagi (ART.11), limitando il miglioramento delle condizioni di vita degli animali detenuti in laboratorio (ART.2), non rendendo obbligatoti i metodi di sperimentazione sostitutivi , che risparmino gli animali (ART.4 e 13), consentendo il “riutilizzo” di animali già sottoposti a dolorosi test (ART.16), aprendo le porte della sperimentazione anche ai scimmie antropomorfe (ART. 5, 8 e 55), dando la possibilità di sperimentare anche senza anestesia e farmaci antidolorifici (ART.14). E se il contenuto di questi articoli non vi abbia messo i brividi, consentitemi di ricordare che vi è un allegato (ALLEGATO IV) a questa direttiva che elenca i metodi di soppressione “umana” degli animali, ossia: la dislocazione del collo, la distruzione del cervello, il biossido di carbonio, il colpo da percussione alla testa, la decapitazione, il colpo a proiettile libero con fucili o pistole, l’elettrocuzione, il dissanguamento.  Tutto ciò è agghiacciante, ed è ancor più terrificante rendersi conto di quanto la politica possa essere incoerente, legittimando ed invalidando al contempo la medesima atrocità!

 Anche questa, come tutte le guerre, sarà lunga, ma per il momento consoliamoci pensando che chi ben comincia è alla metà dell’opera!

Paola Pinto
29 marzo 2013

Gli Alieni

alieniNel 1992, a Rio de Janeiro, si tenne la conferenza della Nazioni Unite durante la quale fu data la definizione del termine “biodiversità”, intesa come, cito testualmente: “la variabilità degli organismi viventi, degli ecosistemi terrestri, acquatici e i complessi ecologici che essi costituiscono; la diversità biologica comprende la diversità intraspecifica, interspecifica e degli ecosistemi”.

In maniera più semplice, possiamo definire la biodiversità come l’insieme, ricco e variegato, delle forme in cui la natura si manifesta ai nostri occhi. Non è quindi difficile comprendere quanto sia importante per noi, per la nostra esistenza e sopravvivenza. Insomma, la biodiversità è uno dei più grandi patrimoni dell’umanità, da difendere e preservare nel tempo. Ma al pari degli altri patrimoni artistico – culturali, la sua conservazione è messa a dura prova, costantemente. Le cause di questo rischio sono molteplici, ma negli ultimi tempi la minaccia più ingombrante è rappresentata da una vera e propria invasione aliena. Non parlo di esseri che provengono da pianeti extraterrestri, ma di specie vegetali ed animali che abitano e colonizzano un territorio diverso dal loro areale d’origine. Questa contaminazione raramente è frutto di una migrazione della specie, o del superamento, da parte della stessa, delle barriere biogeografiche; l’importazione accidentale o intenzionale è da attribuirsi all’uomo.

Molte piante vengono, infatti, introdotte per scopi agricoli, per la selvicoltura, oppure come piante ornamentali; le specie animali vengono rilasciate a fini venatori, o come animali da compagnia, oppure per motivi estetici, cioè per arricchire la fauna locale. In altri casi, le specie aliene sfruttano mezzi di trasporto, quali navi e aerei. Poco conta come questi invasori giungano, importa rimarcare che l’introduzione di specie aliene, o alloctone, è un’emergenza ambientale, rappresentando la seconda causa di perdita della biodiversità. Questo fenomeno sta assumendo sempre più i connotati di un vero e proprio problema, su cui l’Agenzia Europea dell’Ambiente (Aea) ha richiamato l’attenzione con il suo rapporto “The impact of invasive alien species in Europe”. Da questo emergono dati preoccupanti: in Europa sono presenti 10 mila specie alloctone, di cui l’11% provoca tangibili danni ecologici. Anche in l’Italia la situazione non è confortante, si contano, infatti, 1500 specie aliene. Per esser più chiari, basti pensare che delle 395 specie europee in pericolo di estinzione, 110 lo sono proprio a causa delle specie aliene. Non so se i numeri hanno reso l’idea delle proporzioni di tale evento. Se cosi non fosse, tenterò di spiegare i danni che queste specie infliggono ai nuovi ambienti in cui si insediano.Per prima cosa bisogna ricordare che ogni habitat ha un suo equilibrio, che viene sconvolto dall’inserimento di una nuova specie. Ciò è evidente non solo dalla degradazione che può subire l’habitat, ma anche dalle ripercussioni sulle specie che abitano tale ambiente. La presenza di ospiti indesiderati può comportare, interferendo con le specie originarie o anche dette autoctone, uno sgradito declino di queste ultime, fino ad una ancor più sgradita estinzione delle stesse. Ciò si verifica perché le specie autoctone risentono non poco della competizione per le risorse alimentari e per l’habitat con quelle aliene, favorite anche dall’assenza di predatori e parassiti propri L’estinzione di una specie endemica è sicuramente l’estrema conseguenza di tali invasioni, ma si può anche assistere all’ibridazione della nuova arrivata con le specie native, alla trasmissione di malattie, a cui gli organismi autoctoni risultano essere più suscettibili. Il risultato di tutto ciò è l’incontrollata crescita demografica degli alieni, che da curiosità biologica diventano una seria minaccia! Una minaccia che non incombe solo sull’ambiente e le specie animali e vegetali che lo popolano, ma che colpisce anche gli esseri umani.

Proprio così! Gli invasori creano seri problemi alla nostra economia e alla salute pubblica. Gli effetti negativi delle invasioni sull’economia si palesano in termini di: ridotta produttività dei raccolti, diminuzione della disponibilità idrica, difficoltà nel mantenimento dei cicli dei nutrienti, compromessa capacità d’impollinazione. Ma di gran lunga più seri sono i danni alla salute. Le specie aliene sono spesso veicolo di parassiti e patogeni e di conseguenza, responsabili della trasmissione e diffusione di malattie infettive. L’esempio più emblematico di ciò è rappresentato dalla zanzara tigre, vettore di circa 20 virus diversi, come febbre gialla e chikungunya. I loro nomi un po’ esotici ci inducono a pensare che queste malattie non siano presenti nel  nostro paese, ma a ridestarci da questa dolce illusione ci pensa  Piero Genovesi dell’Ispra, che ci ricorda che casi di febbre chikungunya si sono verificati nel 2007, nel nord Italia. Il problema delle invasione aliene non è da sottovalutare, bensì da arginare, prevenendo l’introduzione degli organismi alloctoni, sorvegliando gli stessi laddove presenti, rimuovendo o impedendone la diffusione, ove possibile.

E forse, anche sperando che questi alieni, come ET, vogliano fare una telefonata per tornare a casa!

Paola Pinto
27 febbraio 2013

Non solo animali

non-solo-animaliMartedì 22 gennaio, l’On M.V. Brambilla è stata insignita del premio “Un bosco per Kyoto 2013 ”, per il suo impegno nel difendere la vita e la dignità degli animali.

Mi è subito venuto da pensare che più persone dovrebbero, come lei, dedicare il proprio tempo a difendere queste fragili creature. Ma, altrettanto velocemente,  ho pensato che ne esistono poche e ancor meno sono coloro che mostrano interesse verso il tanto importante e spinoso tema dei maltrattamenti agli animali.

Questi sono tempi difficili, e forse si è troppo presi a risolvere le proprie problematiche per soffermarsi a pensare alle altre piaghe che affliggono la nostra società. Ma anche per gli animali sono tempi duri, non economicamente né politicamente, ma comunque, per loro, la sopravvivenza è un percorso ad ostacoli, talvolta insormontabili. Dovremmo guardare più in là di noi stessi, non dovremmo restare sordi ed indifferenti di fronte alle indicibili pene che infliggiamo agli animali.

Pensate che stia esagerando? Vi dimostrerò che non è così! Per farlo mi basterebbe ricordarvi la sorte degli animali “utilizzati” per la ricerca scientifica, o di quelli da cui si ricavano pellicce; potrei menzionare le aberranti condizioni in cui sono tenuti gli animali negli allevamenti intensivi. Purtroppo gli esempi da fare sono tanti, ma di alcuni se ne parla poco, rivolgendogli solo uno sguardo distratto. A questi, vorrei dedicare la mia attenzione, perché non si dimentichino i maltrattamenti subiti da altri animali, giudicati  “pericolosi”, ma che ai miei occhi appaiono indifesi e disarmati. Cosa può mai fare per difendersi un orso detenuto in una fabbrica della bile? Nulla! Proprio nulla, perché sarebbe davvero arduo ribellarsi rinchiuso com’è in una gabbia piccolissima, dove qualsiasi movimento gli è impedito. Come potrebbe difendersi, dilaniato dal dolore provocato da un catetere permanentemente impiantato nella cistifellea, da cui, due volte al giorno, viene estratta la bile.  Bile considerata in alcuni paesi asiatici, precisamente Cina, Corea e Vietnam, un ingrediente indispensabile per la preparazione di medicinali, prodotti cosmetici e alcune bevande tradizionali. Ma a chi importa che la bile è inutile, che esistono più di cinquanta sostanze alternative, sintetiche ed erboristiche, che possono sostituirne l’uso e che sono sicuramente più facilmente reperibili, più economiche, più etiche! Importa a pochissime persone, e a pochissime persone importa che ogni anno centinaia e centinaia di squali di varie specie vengono uccisi per una zuppa. Proprio così, per una zuppa! Anche in questo caso, pare che le pinne dello squalo siano necessarie per preparare una prelibata zuppa. Conferiscono sapore e gusto a questo piatto? Assolutamente no! Ma servono solo perché, dato l’elevato contenuto in  fibre di collagene, dona a questa ricercatezza culinaria la giusta consistenza. Mi sembra un valido motivo per far continuare questo sterminio, questa strage silenziosa che si consuma nei mari asiatici. A questa barbarie è stato dato un nome: finning. Letteralmente vuol dire spinnamento, praticamente agli squali catturati vengono asportate, da vivi, le pinne pettorali, dorsali e il lobo inferiore della pinna caudale. Il resto del corpo, mutilato, viene rigettato in mare e l’animale va incontro ad un tragico destino: impossibilitato a nuotare, affonderà nel profondo del mare morendo lentamente o sarà divorato da altri predatori. Dopotutto, però, sono solo animali. E’ vero lo sono, ma non per questo i nostri atti nei loro confronti sono meno efferati, meno brutali, più sopportabili. Sono animali che come qualsiasi altro essere vivente merita rispetto e la garanzia di una vita degna. Sono animali che, come noi, fanno parte di qualcosa di più grande, la Natura, e noi non siamo superiori a tal punto da poter interferire continuamente e drammaticamente nelle loro vite.  Impariamo a rispettarli, a rispettare la diversità, in qualsiasi forma essa si presenti a noi. Impariamo a proteggere chi è più debole, chi non ha mezzi, né forze, né voce per farlo da solo. Impariamo ad usare con coscienza e responsabilità gli strumenti e le conoscenze, derivati dal nostro  progresso culturale e scientifico. Impariamo a non confondere l’evoluzione con la supremazia. Impariamo ad essere compassionevoli, ricordando che la crudeltà non ammette giustificazioni. E se davvero vogliamo definirci una “società civile”, è forse ora di  fermarsi a riflettere su queste parole :  “La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali”. (Gandhi)

Paola Pinto
30 gennaio 2013

Strategie antifreddo

strategie-antifreddoFreddo, gelo e vento hanno fatto la loro comparsa. Anche la neve è arrivata ad imbiancare, qua e là, montagne e città. Indossati cappotti, guanti e cappelli, ci proteggiamo dal freddo, o, almeno, tentiamo.  Anche per gli animali, l’inverno rappresenta un momento critico. Per alcuni di essi, il freddo è davvero insopportabile, per altri diviene difficile procacciarsi il cibo e, di conseguenza, arduo ed energicamente troppo dispendioso rimanere caldi. E così, non potendo utilizzare gli umani mezzi per ripararsi, molte specie  adottano delle strategie per superare questa rigida stagione.

Chi ha la possibilità, come gli Uccelli, migra verso luoghi con clima più mite. C’è chi, invece, attua uno stratagemma molto diverso, ma altrettanto efficace: il letargo. Questo è uno stato di torpore, un sonno più o meno profondo cui si abbandonano i mammiferi per affrontare i mesi più freddi dell’anno. I Mammiferi che trascorrono così l’inverno si presentano quasi o totalmente immobili, rintanati in cavità accuratamente scelte, senza assumere cibo. In essi, il letargo assume degli aspetti peculiari, in quanto intervengono imponenti meccanismi di regolazione delle funzioni organiche. All’immobilità si associa, infatti, l’attenuazione del battito cardiaco, che si riduce all’incirca a 3 pulsazioni al minuto; l’abbassamento del ritmo respiratorio e della temperatura corporea, sino a raggiungere i 4°C; il rallentamento delle perdite d’acqua; la riduzione del metabolismo. Il tutto è preceduto da una fase di accumulo di grasso, che verrà metabolizzato durante questa fase. A svolgere questa funzione interviene la “ghiandola del letargo”.

Impropriamente definita tale, in realtà consiste di  un ammasso di tessuto adiposo, situato nel torace e nell’addome con ramificazioni che spesso raggiungono la zona cervicale. Il compito di questo tessuto sarebbe appunto quello di conservare i lipidi in piccole catene, rendendoli disponibili durante la fase letargica. Quanto appena descritto, rappresenta un caso “estremo”. Difatti questo letargo molto accentuato è tipico solo di una parte di Mammiferi: molti pipistrelli (Chirotteri), un solo Insettivoro(il riccio), l’echidna e l’ornitorinco (Monotremi), alcuni Marsupiali e qualche Roditore (marmotta, ghiro, criceto, moscardino). In altre specie di Mammiferi, il letargo si manifesta con aspetti diversi. E’ questo il caso dello stato di torpore dell’orso, durante il quale l’organismo pur non assumendo né cibo né acqua, continua a svolgere tutte le  funzioni fisiologiche, anche se in forma ridotta, e la temperatura corporea non subisce mai un brusco calo. Inoltre, si possono osservare intermittenti risvegli e la capacità da parte delle femmine di partorire e allattare i cuccioli.

Un’altra variazione sul tema è offerta dallo scoiattolo. Il suo non può definirsi un vero e proprio letargo, bensì un sonno prolungato alternato a periodi di esigua attività, dedicata alla ricerca di cibo immagazzinato precedentemente in vari depositi. Fin ad ora abbiamo parlato solo dei Mammiferi, ma il freddo è un problema che affligge un po’ tutti gli animali. Lo sanno bene i vertebrati a sangue freddo e certi Invertebrati. Anche se nel loro caso è più corretto parlare di ibernazione, il comportamento adottato durante l’inverno da questi animali ha lo stesso significato adattativo del letargo dei Mammiferi. Tartarughe, rane e serpenti ai primi freddi invernali si rintanano in profonde buche, in uno stato di torpore che comporta un drastico rallentamento del metabolismo. Rettili ed Anfibi, essendo animali a sangue freddo, per mantenere costante la temperatura corporea dipendono dal calore del sole, che fornisce energia al loro metabolismo.

In inverno, con il freddo e l’irraggiamento solare ridotto e meno intenso, risulta molto difficile per questi animali far fronte alle loro necessità fisiologiche. Pertanto, anche in questo caso, l’unico escamotage per sopravvivere è condurre una vita latente, permanere in uno stato di sospensione reversibile dei processi vitali. Pure molti Insetti non ne vogliono proprio sapere di stare al freddo.  Api, vespe, calabroni e formiche cercano un rifugio e vi trascorrono la stagione fredda dormendo; appena le condizioni climatiche ritornano alla normalità, l’attività dell’insetto riprende. Si parla in questo caso di quiescenza. Insomma, qualsiasi nome gli si attribuisca, declinato in modi diversi, questo comportamento conserva sempre lo stesso significato adattativo di difesa dalle avversità climatiche, a dimostrazione del fatto che in natura tutte le specie mirano alla sopravvivenza. A questo punto, mi viene da pensare che, dopo tutto, non è tanto giusto affermare che “chi dorme, non piglia pesci”!

Paola Pinto
30 dicembre 2012

Piante sensibili

Adornano le nostre case, impreziosiscono i nostri giardini, arricchiscono i prati. Ovviamente, sto parlando delle piante. Straordinari organismi che si presentano ai nostri occhi con una varietà di forme e colori davvero sorprendente. E sempre ai nostri occhi, appaiono assolutamente immobili, completamente distanti dal mondo  che le circonda. Ma scopriamo se le cose sono davvero così come sembrano.

La maggior parte delle piante vive in ambienti caratterizzati da un mosaico di parametri, variabili non soltanto con cadenza stagionale, ma anche mutabili in intervalli di tempo più ristretti di giorni, se non addirittura di ore. Tutti questi fattori influenzano da vicino la vita di una pianta, la sua crescita, lo sviluppo e la morfogenesi. Appare ovvio, quindi, che tutte le piante debbano essere in grado di percepire i suggerimenti ambientali, come cambiamenti di temperatura, di umidità, di durata del fotoperiodo, di processare le informazioni raccolte e rispondere adeguatamente a questi stimoli.

Ebbene, le piante sono capaci di tutto ciò: percepire, tradurre l’informazione, reagire.

Quindi, la loro “immobilità” è solo apparente! Ma non disperiamoci per questo errore di valutazione commesso, dopotutto anche Linneo, come noi, aveva dato un giudizio che oggi appare inappropriato, affermando che “gli animali sentono, le piante no”. Si sbagliava, ci sbagliavamo tutti, o quasi.

Le piante si dimostrano degli organismi sensibili e percettivi.

Ma, a nostra discolpa (e a quella di Linneo), possiamo dire che certo le piante non possiedono organi di senso ed apparati tanto differenziati come quelli degli animali. I recettori, nei vegetali, sono rappresentati da organi alquanto semplici, come: fotorecettori, coinvolti nell’assorbimento dell’energia luminosa; statoliti d’amido, deputati alla percezione della gravità; ectodesmi e papille tattili, responsabili della sensibilità agli stimoli meccanici.

Ed anche le loro risposte sono più lente. Ma basta conoscerle per capire che, però, ci sono. Cominciamo col dire che le risposte di una pianta ai diversi tipi di informazioni raccolte nell’ambiente, possono essere riunite in quattro classi: tropismi, nastie, tassie e risposte morfogeniche.

I tropismi sono movimenti effettuati dai vegetali fissi, in una direzione dipendente da quella dello stimolo. Essi provocano una crescita orientata della pianta, o di una sua parte, in funzione delle condizioni ambientali. Alcuni esempi di questo tipo di movimento sono il fototropismo, in risposta agli stimoli luminosi; il geotropismo, come reazione alla forza di gravità; il chemiotropismo, in risposta alla presenza di sostanze chimiche e il tigmotropismo, reazione agli stimoli tattili che si osserva palesemente nei viticci  che toccando un oggetto, vi cresceranno attorno, avvolgendolo.

Nel caso delle nastie siamo sempre di fronte ad una risposta che si traduce in movimento. Ma , in questo caso, la direzione non dipende da quella dello stimolo. Esse avvengono per fenomeni di accrescimento o per fenomeni di cambiamento di turgore. A seconda della natura dello stimolo, riconosciamo la chemio nastia,  la seismonastia,che rappresenta la reazione agli stimoli meccanici. Un esempio di questo tipo di nastia è dato dalla trappola delle piante insettivore: quando un pelo sensoriale viene toccato, le due metà della foglia si chiudono, in un battito d’ali. Anche i movimenti di apertura e chiusura dei fiori sono reazioni nastiche: fotonastie, dovuti alle oscillazioni dell’intensità luminosa, e termonastie, quando causati da variazioni di temperatura.

Le tassie, a differenza delle reazioni precedenti, sono risposte agli stimoli che si osservano nelle forme vegetali che si spostano liberamente(dotate, cioè, di locomozione). Si traducono in veri e propri movimenti verso(tassie positive) o lontano(tassie negative) dallo stimolo. Anche le tassie vengono classificate sulla base della natura dello stimolo in chemiotassie, fototassie, termotassie(sensibilità alle diverse temperature), tigmotassie (reazione agli stimoli tattili), aerotassia e idrotassia (rispettivamente reazione all’ossigeno e all’umidità).

Infine, le piante producono risposte morfogeniche. In questo caso, la pianta risponde ad uno stimolo con un vero e proprio cambiamento, che può interessare o il metabolismo di un tessuto, o l’intera pianta. Esempi di questo tipo di risposta sono l’induzione a generare fiori, l’induzione alla germinazione dei semi dormienti.

Insomma, i sistemi sensoriali e i meccanismi di risposta delle piante sono, senza ombra di dubbio, poco sofisticati. Non può essere attribuita una categoria umana ai loro comportamenti. Ma questo non deve indurci ad ignorare  la capacità delle piante di “sentire” l’ambiente. Il grave errore che spesso commettiamo è di giudicare inferiore tutto ciò che non riusciamo a capire, o a vedere. La sola cosa che in natura realmente conti è che le strategie messe in atto si dimostrino vantaggiose ai fini della sopravvivenza. E nel caso delle piante, dobbiamo ammettere che hanno centrato l’obiettivo!

Naturalmente Arte

Il Mausoleo Tai Mahal in India, la Grande Muraglia Cinese, il Colosseo a Roma, le Piramidi d’Egitto, sono solo alcune delle opere architettoniche più belle e suggestive del mondo. Ma esiste una realizzazione altrettanto stupefacente che, però, non è da attribuirsi alla mano dell’uomo, né al suo ingegno, bensì all’incessante lavorio di organismi tanto semplici quanto piccoli, che inconsapevolmente creano un vero e proprio capolavoro.
Senza troppi indugi, vi dirò che l’opera d’arte tutta bio di cui parlo è la barriera corallina, anche detta reef.
E gli ignari architetti sono antozoi Madreporari, appartenenti al phylum degli Cnidari.

I coralli di questo ordine sono organismi esclusivamente marini, vivono fissati al substrato e per la maggior parte,sono coloniali. A differenza delle altre classi di Cnidari, presentano solo lo stadio polipoide, che consiste di una struttura tubulare di tessuto molle, con un’unica apertura circondata da sei (o multipli di sei) tentacoli, estesi di notte per catturare il plancton. Protezione e sostegno alle parti molli dell’individuo, vengono offerte da uno scheletro esterno, il corallum, costituito da carbonato di calcio (CaCO3). E’ proprio dalla sedimentazione degli scheletri calcarei dei coralli che si origina l’impalcatura organica di questa biocostruzione, in eterno divenire. Infatti, senza sosta, nuovi polipi crescono sulle spoglie dei loro predecessori, divenendo al tempo stesso architetti e materia prima della barriera. Il successo ed il mantenimento di questo ambiente è garantito dal rapporto simbiotico dei coralli con un gruppo di alghe unicellulari, le zooxantelle.

Queste forniscono, attraverso la fotosintesi clorofilliana, sostanze nutrienti e ossigeno, favoriscono la fissazione del carbonato di calcio ed eliminano i cataboliti, che potrebbero danneggiare lo scheletro stesso. In cambio, il polipo offre loro protezione. Questo delicato e prezioso equilibrio, ha bisogno, per essere mantenuto,di fattori ambientali peculiari, quali acque limpide, pulite e poco profonde; temperatura, in inverno, sempre superiore ai 20°C; salinità costante e ottima illuminazione. La necessità di tali condizioni rende chiaro il perché della presenza delle formazioni coralligene in determinate zone dei mari tropicali, e nello specifico, nell’ area indo pacifica, ai Caraibi ed alle isole occidentali dell’Oceano Indiano. Vale decisamente la pena visitare questi luoghi, perché la barriera corallina risulta essere un ecosistema di grande bellezza. Osservandola, ci troviamo di fronte ad un giardino variopinto e variegato, che ospita una straordinaria ricchezza di forme di vita vegetale ed animale.

Oltre alle alghe che vivono in simbiosi con i coralli, la flora è rappresentata da numerose alghe rosse, come l’alga incrostante Porolithon dell’area indo pacifica e alcune alghe verdi, come la Caulerpa, e specie di piante acquatiche come il Thalassodendron, che crea una vera e propria prateria sommersa. Legata a questo tipo di habitat è la massiccia presenza di animali erbivori, come molluschi, crostacei, ricci di mare e tanti tantissimi pesci, come il pesce pappagallo e il pesce chirurgo. Sono molti anche i pesci con altre abitudini alimentari, o meglio dire predatorie. Tra questi citiamo il pesce farfalla, il pesce palla, il pesce istrice, il pesce balestra e quello angelo, tutti accomunati dall’avere livree coloratissime e forme particolari, oltre, come detto, dal cibarsi di piccoli molluschi, invertebrati e degli stessi polipi del corallo. Ma lo spettacolo continua! E già, perché tutti gli anfratti e i nascondigli che la barriera naturalmente crea, sono frequentati anche da pesci di più imponenti dimensioni, come le razze e le murene e spingendoci un po’ più a largo non sarà difficile imbattersi in uno squalo.

Altrettanto facile è ammirare le stravaganti oloturie (anche conosciute come “cetrioli di mare”), le vistose stelle marine e le diversi tipi di spugne. Insomma la ricchezza, in termini di biodiversità, della barriera corallina è inestimabile, tanto da giustificare l’inclusione nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità della Grande Barriera Corallina, la più estesa formazione di coralli al largo della costa australiana. Anche il suo valore economico è incalcolabile. Si stima che, in Asia, la vita di almeno un miliardo di persone dipenda dal pesce , che abita la barriera. Per questi motivi, poco importa che sia un’opera d’arte “umana” o della natura, ciò che realmente conta è che, al pari di qualsiasi altra manifestazione creativa, possa essere apprezzata oggi, domani e dai nostri posteri.

Paola Pinto