L’anello di Re Salomone, Konrad Lorenz

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L’anello di Re Salomone – Konrad Lorenz

Divertente. Non è certo l’aggettivo che ci si potrebbe aspettare descrivendo un manuale di etologia scritto dal premio Nobel Konrad Lorenz, ma “L’anello di Re Salomone” è proprio divertente e a tratti anche toccante. L’autore e studioso del comportamento animale si racconta, con un linguaggio semplice e coinvolgente, nelle sue esperienze di vita assieme alla innumerevoli creature che hanno abitato la sua casa ad Altenberg, tra oche selvatiche e pappagalli esotici, topolini del deserto e scimmie tropicali.

Molti hanno imparato a conoscere gli animali grazie alle sue parole, in tanti si sono soffermati a guardare anche solo un cane o un gatto con occhio diverso dopo aver letto il suo libro. Persino un acquario assume una connotazione del tutto diversa dopo i racconti di Lorenz.

Punto focale dei suoi studi etologici è stato il distinguere comportamenti istintuali dai comportamenti appresi, ricercandole nelle diverse specie. Questo è facile da osservare in un cane, ma sarà più complesso comprendere la natura di un comportamento di un pappagallo parlante quando ripete certe frasi, o in un anatroccolo appena uscito dall’uovo.

Molti sono i commenti simpatici avvenuti durante le osservazioni, come quello riportato di seguito, in cui un pesce gioiello (Hemichromis bimaculatus), mentre riporta a bocca i suoi figli al nido, si ritrova di fronte ad una preda prelibata che inghiotte, rischiando così di mangiarsi i suoi stessi piccoli. “Invece accadde una cosa veramente incredibile: il pesce padre se ne rimase immobile, con le guance gonfie, ma senza masticare. Se mai ho visto un pesce riflettere, è stato proprio quella volta. Che cosa straordinaria: un pesce che vive una vera e propria situazione conflittuale, né più né meno di un uomo, e che se ne sta lì immobile, senza via d’uscita, incapace sia di avanzare sia di retrocedere!

Konrad Lorenz, considerato il padre della moderna etologia scientifica, fu insignito del Premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1973, condiviso con gli scienziati e colleghi Nikolaas Tinbergen e Karl von Frisch. L’Anello di Re Salomone fu edito per la prima volta nel 1949, un testo  intramontabile e d’obbligo per ogni amante della natura, appassionerà il lettore come un un romanzo.

Massimo Gigliotti
28 aprile 2013

L’educazione ambientale passa anche attraverso… la carta!

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Il fiore, simbolo portante di “Edumondo” che concilia divertimento, cultura ed ambiente in un unico taglio e con un unico fine: sensibilizzare sui temi dell’ambiente e della natura.

La tematica ambientale va molto di moda e tantissimi sono i libri che ne parlano. Ma quali sono i testi più “virtuosi” che trattano di sostenibilità ambientale? L’idea di censire i migliori libri sull’ambiente è venuta a due donne: Marina Boetti, titolare della libreria Edumondo di Cagliari, specializzata nelle tematiche della educazione ambientale, e Ottavia Pietropoli, educatrice ambientale originaria di Rovigo. La loro passione per l’ambiente e per i libri le ha unite in questo progetto iniziato come una semplice ricerca finalizzata ad identificare i migliori 100 libri per ragazzi sulla tematica ambientale pubblicati tra il 2011 e il 2012, per arricchire la newsletter mensile della libreria Edumondo. Col passare dei mesi la ricerca è diventata sempre più appassionante ed è nata l’idea di farne una piccola pubblicazione gratuita.

I criteri di scelta sono stati principalmente il contenuto del libro, il luogo di stampa e il tipo di carta utilizzata. Le stesse autrici “confessano” una certa soggettività nella scelta “perché stiamo pur sempre parlando di libri e i libri parlano prima di tutto alla nostra anima”. Dalla ricerca hanno scoperto come alcuni editori stampino libri sull’ecologia in Cina su carta bianca, senza vedere un controsenso in una tale azione. Altri, preoccupati di fare quella che viene definita come “pulizia verde”, il Greenwashing, stampano su carta riciclata i soli libri destinati alla sezione ambiente, mentre tutto il resto del catalogo dell’editoria viene stampata su carta in fibra vergine.

La possibilità di stampare in Italia in modo più ecologico è possibile, ma ancora poco diffuso: solo il 30% degli editori applica politiche di sostenibilità ambientale, alcuni per l’intero catalogo, come per esempio, citata dalle autrici, la casa editrice “Coccole e Caccole”.

L’elenco dei 100 libri sono stati suddivisi in due grandi categorie: Lettori in erba, 80 libri di narrativa per ragazzi; Sempreverdi, 20 titoli per ragazzi, insegnanti, educatori e genitori.

Nonostante ognuno di questi libri, essendo stati inclusi nell’elenco, siano per Marina e Ottavia dei titoli di valore, ci suggeriscono due libri tra i loro preferiti. “Storia dell’immondizia” è un libro per i più giovani in grado di stimolare e divertire su un problema senza epoca, ma mai ovvio né banale; di Gianni Rodari, “Il filobus numero 75” descrive l’emozione del contatto diretto con la natura, sentimento importantissimo per chi si occupa di educazione ambientale, considerato come punto di partenza per affrontare i problemi dell’inquinamento e dei rifiuti del mondo odierno. Per l’accattivante veste grafica e l’altissimo valore di contenuto, sono vivamente consigliati i libri della collana “a piccoli passi” pubblicati da Motta Junior.

Oggi alle autrici piacerebbe proseguire nel progetto, aggiornando la pubblicazione ogni anno e magari portare in giro nelle scuole e nelle biblioteche il loro lavoro proponendo, quindi, anche un nuovo modo di vedere un libro, non solo dal punto di vista contenutistico ma anche dalla sua “forma”, il suo valore di stampa e di impronta ecologica. “Crediamo molto nel potere dei libri di veicolare messaggi che possano cambiare la società e ci piacerebbe fare la nostra parte in questo processo!”.

Il PDF gratuito dei 100 libri per l’ambiente 2012 è scaricabile dal sito: www.edumondo.it

Massimo Gigliotti
10 aprile 2013

La fine del mondo: flop dell’ignoranza

calendario-mayaLa fantomatica data del 21 dicembre 2012 è passata e la fine del Mondo, a quanto pare, non ci ha nemmeno sfiorato. È perciò arrivato il momento di chiedere scusa. No, non di tirare un sospiro di sollievo; proprio “chiedere scusa”! Necessitano delle scuse ad archeologi e scienziati che a gran voce hanno provato a sfatare la profezia, con il solo risultato di aver parlato a vuoto. Ma le scuse più grandi vanno rivolte ai Maya e ai loro attuali discendenti, che sono stati assillati da giornali e documentaristi di tutto il mondo con le solite domande.

La profezia della fine del mondo, infatti, non è da attribuirsi ai Maya, bensì alle conclusioni errate dell’opinione pubblica. Il famoso “calendario circolare” ha un ciclo molto lungo ma come ogni altro calendario, agenda o diario, guarda un po’, quando finisce ne comincia un altro.

La facilità con cui l’ipotesi catastrofica è dilagata nel mondo, sta nel fatto che l’idea hollywoodiana della fine ci ha affascinato, tanto da ignorare tutte le voci e le prove del contrario.

Il problema è che di profezie apocalittiche l’umanità ne è piena! Tra le più recenti nell’anno 2000 si temeva il peggio per via della biblica frase “mille non più mille”, oppure nel maggio del 2011, quando un “burlone” ha anticipato la profezia Maya. E come può quindi mancare l’ipotesi di un suo rinvio? Due fratelli, un matematico e un docente di storia e culture precolombiane, sono arrivati alla conclusione che il calcolo che riporta l’anno 2012 come l’ultimo sia errato, stimando così il nuovo anno nel 2116. Se questa sia solo la data di fine di un’Era o se è accompagnata da solenni distruzioni non ci è dato sapere; il sicuro è che l’attuale generazione non ha motivo di preoccuparsi!

Nel passato, invece, molti Europei aspettarono con ansia il 1666 ricordando il numero della bestia. L’Europa era appena passata dalla pestilenza, e quando Londra bruciò in un grosso incendio proprio in quell’anno, in molti credettero che la fine era ormai vicina.

Quando l’ipotesi della fine si trasforma nella speranza di un nuovo inizio, si cercano ovunque indizi e segni per avvalorare la teoria. Terremoti ed eruzioni, pestilenze e guerre catastrofiche, allineamento dei pianeti e passaggi di comete. La verità è che la storia, naturale e umana, è colma di questo tipo di eventi e così sarà sempre. L’unica fine certa del nostro pianeta sarà fra 5 miliardi di anni circa, quando il sole concluderà la sua “vita”, prima espandendosi e poi, per farla breve, spegnendosi. Ma per allora potremmo aver colonizzato altri pianeti, potremmo venire a contatto con civiltà aliene oppure potremmo esserci estinti per cause naturali o, addirittura, per autodistruzione.

Forse ora, avendo finito di doverci angustiare per la collera degli Dei precolombiani, i tempi sono maturi per preoccuparci del vero problema che ci sta portando al baratro: l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse ambientali. I combustibili fossili (e quindi il petrolio e il metano, per esempio) si stanno esaurendo, e così i giacimenti di metalli, primi tra questi rame e uranio. Anche le scorte di acqua potabile si assottigliano a causa degli agenti inquinanti immessi nell’ambiente. Il cambiamento climatico sarà -anzi è- un altro demone da affrontare. Siamo ormai in troppi sul Pianeta e saremo sempre di più; il genere umano farà sempre più uso anche di risorse alimentari e di energia. Il mondo scientifico denuncia questi drammi, e non si tratta di profezie quando prevedono il caos, ma di studi ai quali dovremmo dare ascolto e cercare rimedio, se siamo ancora in tempo e se  saremo capaci di cambiare.

Massimo Gigliotti
26 dicembre 2012

Giardini verticali e sostenibilità ambientale

Nell’ultimo decennio si è distinta una tipologia di architettura eco-sostenibile e naturale: i giardini verticali o muro vegetale. L’idea di Patrick Blanc, botanico francese e appassionato di piante tropicali, ha raggiunto il successo nel 2006 con la realizzazione, assieme all’architetto Jean Nouvel, del giardino verticale sulla facciata del Musée du Quai Branly -Museo di arti primitive non occidentali- nel cuore di Parigi, a due passi dalla Tour Eiffel. Blanc ha realizzato i suoi progetti in tutta Europa e nel Mondo, e ad oggi diversi progettisti hanno attuato opere verdi grazie al suo brevetto. Noi italiani non siamo da meno, anzi!

Il giardino verticale realizzato sulla facciata del centro commerciale Fiordaliso di Rozzano, alle porte di Milano, è stato riconosciuto dal Guinness World Record come il più esteso al mondo. Questo muro vegetale ha una superficie di quasi 1.263 metri quadri e ospita 44.000 piante di oltre 200 essenze, lungo un’altezza di otto metri. Il nuovo record batte il precedente detenuto dalla Caixa Forum di Madrid, anch’essa opera di Patrick Blanc e degli architetti Herzog & de Meuron.

Il progetto di Rozzano è dell’architetto Francesco Bollani e del gruppo Sviluppo & C. Le piante sono rette da piccole cassette metalliche assemblabili in modo da facilitarne la manutenzione. La parete è irrigata da un impianto che raggiunge ogni cassetta ed è alimentato da acqua piovana raccolta da cisterne interrate.

Oltre alla struttura metallica, i giardini verticali sono costituiti da un telo di PVC che otre ad aumentare la rigidezza della struttura, la rende impermeabile; sopra a questo uno strato di cartonfletro garantisce la distribuzione uniforme dell’acqua su tutta la superficie. Le piante non avranno bisogno di terreno di crescita. Ma in fatto di sostenibilità, quanto può essere valido un progetto del genere?

Oltre ad avere un forte impatto estetico perlopiù positivo, i giardini verticali introducono essenze vegetali nelle città dove manca spazio orizzontale. La sue funzioni utili sono molteplici e vanno dall’assorbimento di CO2 e filtrazione e depurazione dell’aria delle polveri inquinanti, alla valorizzazione degli edifici e alla psicologia che può indurre la visione del verde.

Dal punto di vista naturale però è fortemente sbagliato pensare che inverdire i muri possa essere una soluzione alla cementificazione. Un progettista può pensare che la sua funzione si equivalga a quella di un bosco, ma quest’ultimo, e nemmeno un semplice prato, non è solo uno scambio chimico di ossigeno con anidride carbonica. Esistono complicati equilibri energetici di ecosistema che non possono reggere in un contesto architettonico.

La speranza è che progetti di questo tipo possano aprire la strada alla sensibilità naturale che si è persa nelle città e nei cittadini. Il mondo naturale esterno non si riduce a spiagge e mare, baite e sci, funghi e castagne; è anche necessaria una consapevolezza dell’importanza del mantenimento di aree naturali in quanto tali, senza sfruttamento antropico, nemmeno di tipo turistico.

In progetti green come in quello delle pareti vegetali, troppo spesso la tendenza dei progettisti è quella di utilizzare il materiale vegetale come un arredo scordando di avere di fronte un sistema vivente; è positivo che architettura ed economia si stiano evolvendo verso un’ottica sostenibile ma l’importante è ricordare che il vero mondo naturale è fuori dalle città e nulla lo potrà mai sostituire.

Massimo Gigliotti
28 ottobre 2012

Successi e ritardi nel recupero della Costa Concordia

Costa Concordia

Sono mesi che il silenzio mediatico è sceso sul caso “Costa Concordia” ma il relitto è ancora sulla al largo dell’Isola del Giglio. A fine aprile si concludeva la gara di appalto per la rimozione della nave da crociera, vinta dalla società Titan Salvage, in collaborazione con la società italiana Micoperi. La Titan Salvage è una società statunitense, appartenente al gruppo Crowley Group, leader mondiale nel settore del recupero di relitti. Micoperi, invece, è una società italiana specializzata che ha una lunga esperienza sia nella costruzione che nella progettazione subacquea.

L’ufficio stampa di Costa Crociere precisava che sarebbero state effettuate una serie di operazioni per riportare il relitto ad una condizione di galleggiamento, per essere poi trainato alla base operativa del porto di Civitavecchia. Delusa dalla decisione del comitato tecnico, è di sicuro la Regione Toscana che sperava in un risvolto positivo della tragedia per l’economia con l’impiego di forza lavoro locale. La scelta era invece ricaduta sul consorzio italo-statunitense in base a criteri di “minor rischio possibile; minor impatto ambientale possibile; salvaguardia delle attività turistiche ed economiche dell’Isola del Giglio; massima sicurezza degli interventi” così come commentava la società armatrice italiana.

Tuttavia, dopo le positive dichiarazioni di celerità nelle operazioni di recupero, è stato tutto rimandato. La rimozione, a quanto pare, è diventata più complessa del previsto e così le fasi più delicate del recupero non avverranno nel dicembre 2012 come da progetto iniziale ma si slitta di quattro o cinque mesi, alla fine di primavera 2013. La notizia trapelata dall’Osservatorio di Monitoraggio non è stata ben accolta dal sindaco del Giglio Sergio Ortelli, il quale ha richiesto che la comunità dell’isola torni ad essere aggiornata costantemente sui lavori, così come era avvenuto durante il recupero del carburante dalle cisterne della nave. I cittadini sembrano però non essere sorpresi: i lavori vanno a rilento, ma nonostante sia comprensibile il danno ambientale in atto, sono felici di avere una fonte di guadagno sicura, dovuta soprattutto ai lavoratori che alloggiano sull’isola. Se non fosse per loro, la crisi economica avrebbe avuto effetti assai spiacevoli per i commercianti e albergatori gigliesi.

Nonostante i problemi e i rinvii attuali, vanno ricordati anche i risultati positivi ottenuti grazie al rapido intervento e alla coordinazione della Marina Militare, dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile per la salvaguardia ambientale. Il susseguirsi degli eventi furono seguiti attentamente anche dalle associazioni ambientali come Greenpeace e Legambiente. Il pericolo di disastro, che poteva essere causato dallo sversamento del carburante in mare, è stato sventato grazie al lavoro della società olandese Smit, assieme alla società Tito Neri di Livorno. Seppur il fondale della Gabbianara, uno dei paesaggi sottomarini più suggestivi del Mediterraneo, non sia più in ottime condizioni, il problema più grave non si è verificato. Lo stesso Ministro dell’Ambiente Clini aveva spiegato che: “Un danno ambientale è già stato provocato nei fondali di fronte all’Isola del Giglio; certo, un danno ancora molto contenuto, si tratterà poi di vedere a fine operazioni quale sarà la situazione.” L’inquinamento del mare che fu riscontrabile presso le acque in cui giace ancora tuttora il relitto della Costa Concordia era superiore a quello delle aree industriali che si affacciano sul mare, come per esempio Marghera a Venezia, Piombino a Livorno o Vado a Savona. La situazione era quindi molto pericolosa. Ci pensò il sindaco Ortelli a rasserenare gli animi: non si trattava infatti di idrocarburi, bensì di oli alimentari, lubrificanti e detergenti. Le unità antinquinamento del Ministero dell’Ambiente, comunque, si mobilitarono immediatamente per circoscrivere e bonificare l’area. In ogni caso gli esperti rassicuravano, spiegando che i detersivi sono aggressivi velocemente, quando sono molto concentrati, però si può contare sul vantaggio che possono disperdersi in maniera altrettanto rapida, limitando i danni da contaminazione.

Il carburante fu recuperato dagli operatori della Smit, i quali introdussero del vapore nei serbatoi per riscaldare il carburante, che si stava solidificando a causa delle basse temperature registrabili sott’acqua (l’incidente avvenne il 13 gennaio 2012); la quantità di carburante ammontava a circa 2.400 tonnellate, paragonabile a quello contenuto in una petroliera di piccole dimensioni.

La vicenda peraltro fa sorridere – di un sorriso amaro – tenendo presente che la Concordia poteva essere definita una nave ecocompatibile di rispetto. Infatti la nave possiede tutte le certificazioni che assicurano uno basso impatto ambientale. Il tutto si può dedurre da uno specifico documento, il Green Passport, pubblicato dal Registro dei Lloyds di Londra nel 2010.

Dopo la tragedia che ha visto protagonista l’isola del Giglio, il ministro Clini ha dichiarato in tono deciso: “Basta con la gestione di queste navi che vengono usate come se fossero dei vaporetti. Questo non è turismo sostenibile, ma turismo pericoloso. Dobbiamo intervenire rapidamente e con decisione per evitare che queste grandi navi arrivino vicino ad aree ambientalmente sensibili.

A questo proposito Greenpeace fa notare che i casi pericolosi si ripetono nel tempo. Ad esempio nel dicembre 2011, sempre nella stessa zona, il traghetto Eurocargo Venezia, a causa di una tempesta, ha perso 40 tonnellate di sostanze tossiche in mare. Circostanze che mettono costantemente a rischio la sostenibilità ambientale. Gli esponenti di Greenpeace, quando ancora si temeva il pericolo di marea nera, hanno spiegato: “Lo sversamento di solo tre/quattrocento tonnellate di carburante dal portacontainer RENA, in Nuova Zelanda ha ucciso circa 20mila uccelli marini e inquinato decine di chilometri di costa. L’emergenza ambientale che si profila nel caso della Costa Concordia è tristemente simile a quella che ha seguito l’affondamento, il 5 aprile 2007, della nave da crocera Sea Diamond a Santorini e ripropone la questione dei rischi causati dall’avvicinamento alla costa dei grandi traghetti.

Circoscrivere il passaggio delle grandi navi vicino ai litorali è determinante per salvaguardare l’ecosistema. Il punto d’arrivo dovrebbe essere un turismo sostenibile che possa veramente definirsi tale. Inoltre il WWF chiede alle autorità governative di non sottovalutare la questione delle rotte, stabilendo non solo norme più rigide che vietino il passaggio delle navi vicino alle coste, ma impegnandosi, affinché siano definite con rigore le rotte da osservare, specialmente per il traffico commerciale pericoloso, come quello petrolchimico. In tal modo si possono preservare con cognizione di causa le aree marine protette e tutto il Mediterraneo.

Massimo Gigliotti

Il ciclo vitale del Macaone

Sono in aumento negli ultimi decenni i centri visita dedicati ai lepidotteri, in genere chiamati “casa delle farfalle”. Spesso queste piccole oasi ospitano numerose specie esotiche dai colori vivaci e dalle grandi ali, ma quelle delle foreste pluviali non sono le uniche farfalle così stupefacenti. 

Alcuni esemplari di incantevole interesse vivono anche nel nostro territorio. Una tre le più comuni da avvistare tra marzo e settembre è il Macaone (Papilio Machaon). Questa farfalla con la sua livrea gialla con striature nere è presente su tutto il suolo italiano fino ad una quota di 2000 metri. La sua apertura alare è di circa 8 cm, una tra le più ampie tra i lepidotteri della nostra fauna originale. Appartiene alla famiglia dei Papilionidi ed è possibile osservarla volteggiare sulle radure boschive, sebbene frequenti con maggiore assiduità parchi e giardini.

Il macaone è anche, per gli appassionati, una delle specie più facili da allevare. Il suo bruco (o più giustamente baco, parlando di lepidotteri) si nutre di Apiaceae e quindi principalmente di finocchio e carota, ma anche la ruta è molto ricercata. Il bruco compie diverse mute e nelle sue ultime fasi si presenta verde con anelli neri e punti arancioni. Nei primi stadi invece è nero con macchie bianche, apparendo all’occhio disattento una semplice deiezione di uccello. Questo tipo di mimetismo è una particolare strategia definita come criptismo, nella quale l’individuo assume forme e colore dell’ambiente o di parte di esso. In questo caso il bruco non si nasconde ma crea un’illusione al possibile predatore. Il bruco del macaone presenta anche una difesa attiva con un organo estroflessibile posto sul capo, l’osmeterio che emette acido butirrico.

Dopo due o tre settimane circa avviene l’impupamento: il bruco abbandona la pianta nutrice e si trasforma in crisalide in uno spazio adatto e il più possibile protetto. La crisalide succinta è di colore tra il verde e il beige; se le condizioni sono sfavorevoli o se sopraggiunge l’inverno, va incontro a diapausa attendendo tempi migliori. Infatti alcuni lepidotteri superano la stagione avversa sotto forma di crisalide, altre anche allo stadio adulto, riparate dal vento e dal freddo: sono in realtà poche le farfalle che vivono per soli pochi giorni. Alcune vivono per un anno intero! Normalmente, la crisalide del Macaone schiude in 10-15 giorni. La farfalla adulta si nutre di nettare di diversi fiori o da frutta in fermentazione. Sulle ali posteriori è presente una striscia azzurra e due macchie ocellari rosse, da dove dipartono due corte code (appendici caudali), che rendono inconfondibile la specie e la distinguono dal Podalirio (Iphiclides podalirius). Gli ocelli rossi sono utilizzati per distrarre i predatori, soprattutto uccelli insettivori. Il maschio e la femmina sono molto simili tra loro, si possono distinguere solo per le dimensioni maggiori nella femmina e dall’addome lievemente più stretto e a punta nel maschio, rigonfio e più arrotondato nella femmina.

É una specie territoriale è il maschio difende il suo territorio cacciando via gli altri esemplari maschi. Le uova vengono deposte singolarmente sulla pianta nutrice. Hanno la grandezza di una capocchia di spillo e inizialmente sono gialle diventando via via più scure tendenti al nero prima di schiudere in circa 10 giorni. Se viene allevata, è una delle poche farfalle amichevoli che si posano volentieri sulla propria mano. Purtroppo negli ultimi anni a causa dell’inquinamento atmosferico e della riduzione del verde spontaneo ha di molto ridotto la presenza di questo bel esemplare ma ponendo anche solo una pianta di finocchio sul balcone o in giardino, si crea un sito di posa per le uova in più, favorendo il possibile ripopolamento della specie.

Massimo Gigliotti

La mobilità sostenibile in Italia

Mobilità sostenibile
Mobilità sostenibile.

Gli italiani detengono il record di motorizzazione, con una media di 62 automobili ogni 100 abitanti. La pubblica amministrazione, invece di incentivare investimenti sulla mobilità urbana, resta incentrata sui settori dell’infrastruttura a lunga distanza come le reti autostradali e l’alta velocità. Come capita ormai di frequente, quando le ragioni dei cittadini e dell’ambiente restano sospese a mezz’aria, entrano in gioco le associazioni. Euromobility è un associazione italiana senza fini di lucro che promuove un’azione culturale, formativa e informativa sull’intero territorio nazionale e internazionale, volta a incoraggiare e diffondere valori civili idonei a stimolare l’introduzione di nuove forme di mobilità e trasporto, sia individuale che collettivo, sempre più ecosostenibili, a vantaggio della qualità della vita dei cittadini e nel maggiore rispetto possibile dell’ambiente.

La mobilità sostenibile in Italia delinea una questione complessa da risolvere, infatti spesso gli Italiani non prendono in esame le possibilità alternative, come ad esempio i mezzi pubblici, le piste ciclabili o il car sharing. In base ai dati che emergono dal rapporto Euromobility 2011, l’80% dei nostri connazionali non conosce che cosa voglia dire “car sharing”. Si tratta di un servizio che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola e riportandola in un parcheggio vicino al proprio domicilio, e pagando in ragione dell’utilizzo fatto. Il car sharing è disponibile in diverse città come Milano, Roma, Torino, Bologna, Palermo, Firenze ma anche Mantova, Livorno, Taranto, Bari e tante altre.

Per la mobilità a due ruote emerge un dato positivo: in Italia è in aumento la costruzione di piste ciclabili che permettono un uso sempre più ampio delle biciclette, in modo da poter contribuire alla lotta contro l’inquinamento dell’aria. Legambiente ha provveduto anche ad elaborare una graduatoria dei comuni italiani che si sono distinti in questo senso e le città più virtuose in tema di piste ciclabili sono Reggio Emilia e Lodi, accompagnate da Modena, Mantova, Vercelli, Cremona, Forlì, Ravenna, Cuneo, Ferrara, Piacenza e Padova. Non mancano però a questo proposito i casi che fanno discutere. Nella città di Milano il 65% delle piste ciclabili non sono a norma di legge presentando, tra le inadeguatezze più palesi, segnali sbagliati, corsie interrotte o che finiscono nel traffico, marciapiedi da condividere con i pedoni.

Ciò nonostante, si è ormai sempre più diffuso su tutto il territorio Italiano il servizio di bike sharing per muoversi agevolmente in centro urbano. Il servizio è analogo a quello del car sharing e prevede che ci siano delle stazioni in diversi punti della città dove poter disporre le biciclette. Il bike sharing, infatti, è una scelta di mobilità sostenibile compiuta ormai da 150 amministrazioni comunali: i risultati stentano ad avvicinarsi a quelli del resto d’Europa, ma possono comunque definirsi incoraggiati. Modena, Cuneo e Milano sono le tre città italiane più impegnate a combattere l’inquinamento atmosferico tramite questo servizio, con un rapporto di 1 mezzo ogni 1000 abitanti.  Euromobility, però, ha bocciato l’Italia su tutti i punti per essere al di sotto della media europea. Il loro impatto è ancora ininfluente. A Roma le bici da utilizzare in comune sono appena 105, cifre irrisorie in confronto ai 2,7 milioni di abitanti. Davvero nulla a che vedere, con le 2500 biciclette disponibili a Bruxelles. Sempre a Bruxelles le auto condivisibili sono 227, a Monaco 345, mentre in Italia 113 a Torino, 86 a Milano, 36 a Palermo. E tutto questo senza toccare il servizio dei classici mezzi pubblici. I dati sono sicuramente lontani a quelli di capitali europee come Parigi, dove il rapporto del bike sharing è di una bici ogni 100 abitanti, ma anche Legambiente conferma che i risultati sono uno stimolante punto di partenza per migliorare questo servizio di mobilità a impatto zero e favorire così anche lo sviluppo del cicloturismo sostenibile.

Le singole iniziative di alcune città fanno ben sperare in un miglioramento continuo. Sull’onda tedesca – dove è in progetto una vera e propria autostrada riservata ai mezzi a due ruote che colleghino città importanti come Dortmund e Duisburg – la città di Pesaro sta progettando la “bicipolitana”, una sorta di metropolitana di superficie dove possono circolare solo biciclette tradizionali o elettriche. Tutta la città sarà a misura di ciclista, con ben trenta zone ad accesso limitato, in modo del tutto gratuito e ad impatto nullo. A Lecce è prevista una grande opera di infrastruttura ciclabile che sia in grado di collegare il capoluogo e dei suoi diversi quartieri con la zona turistica di San Cataldo. In favore anche alla conservazione del paesaggio, è stata realizzata a Siena una pista ciclabile sul percorso della vecchia ferrovia che univa Colle di Val d’Elsa e Poggibonsi; splendido esempio di recupero del territorio in difesa del verde naturale. Sempre a scopo turistico, molto interessante è a Roma l’idea di una pista ciclabile intorno al Colosseo: tutto ciò non fa altro che puntare sempre più alla valorizzazione del territorio.

 

Massimo Gigliotti