I microchip che lavorano come il cervello

chip-cervelloEsistono alcuni microchip che imitano in tempo reale l’elaborazione di informazioni del cervello.

I ricercatori neuroinformatici dell’Università e dell’ETH di Zurigo hanno avviato una collaborazione con gli Stati Uniti per dimostrare come le abilità cognitive complesse possono essere eseguite da sistemi elettronici costruiti con i cosiddetti chip neuromorfici.
Hanno così dimostrato come assemblare e configurare questi sistemi elettronici in modo da farli funzionare in modo simile a come agisce il cervello.

Nessun computer lavora efficientemente quanto il cervello umano, sebbene costruire un cervello artificiale sia il sogno di tantissimi scienziati, ma i ricercatori neuroinformatici hanno fatto un passo avanti in questa direzione, riuscendo a comprendere il modo di configurare questi chip neuromorfici al fine di imitare le capacità elaborative del cervello.

Hanno potuto fare ciò costruendo un sistema di elaborazione sensoriale artificiale che mostra le capacità cognitive attraverso la simulazione dei neuroni biologici.

Giacomo Indivieri, docente presso l’Instituto di neuroinformatica dell’Università di Zurigo ha affermato che l’obiettivo è quello di emulare le proprietà dei neuroni e delle sinapsi biologiche grazie a un microchip.
Ma la complessità dell’operazione risiede nel riuscire a configurare le reti artificiali come un neurone, in modo tale che riescano a svolgere dei compiti specifici di un certo livello.
È stato dunque sviluppato un sistema dalle capacità di elaborazione simile a quella dei neuroni con chip che possono essere configurati per qualunque modalità di comportamento.

Gli scienziati hanno dimostrato per la prima volta come può essere costruito un sistema hardware di elaborazione neurale in cui è l’utente a determinare il tipo di comportamento da eseguire, risultati importanti per lo sviluppo di nuove tecnologie ispirate al funzionamento del cervello.

Maria Grazia Tecchia
26 luglio 2013

Le etichette con le calorie sui menu non migliorano le scelte dei consumatori

Nonostante la mancanza di prove concrete che la presenza di etichette informative inducano i consumatori a fare scelte alimentari più sane, restano uno strumento importante nella lotta contro l'obesità. (SD, Minerva Studio, FL)
Nonostante la mancanza di prove concrete che la presenza di etichette informative inducano i consumatori a fare scelte alimentari più sane, restano uno strumento importante nella lotta contro l’obesità. (SD, Minerva Studio, FL)

Non esistono prove certe che la presenza di etichette indicatrici delle rispettive calorie per porzioni sui menu riesca a migliorare la scelta di alimentazione dei consumatori, eppure queste indicazioni sono diventati uno strumento molto importante nella lotta all’obesità.

I ricercatori della Carnegie Mellon University hanno provato ad osservare l’effetto di queste etichette sulla scelta dei consumatori, pubblicando lo studio sull’American Journal of Public Health e rivelando che le calorie riportate sui menu non incidono molto sulla scelta del pasto.

Lo studio, condotto da Julie Downs, professoressa associata di ricerca di scienze sociali del Collegio di Scienze umane e sociali del CMU Dietrich, ha osservato da vicino le reazioni di 1121 commensali adulti a pranzo  presso due dei punti della famosa catena McDonald di New York.
Tutti i commensali sono stati divisi in tre gruppi, distinti in base al tipo di informazione loro fornita sul cibo che si apprestavano ad ordinare.

Al primo gruppo è stato indicato l’apporto calorico giornaliero raccomandato, al secondo l’assunzione consigliata di calorie per pasto e al terzo non è stata data alcuna indicazione.

Il risultato è stato che le raccomandazioni caloriche non vengono combinate con le informazioni delle etichette sui menu, dunque i clienti non vengono aiutati da questo tipo di informazioni nella scelta del menu, e non è stata registrata nemmeno una riduzione delle calorie per pasto acquistato in base alle indicazioni di assunzione per giorno o per pasto.

Downs ha affermato che effettivamente tenere il conto di tutte le calorie è un lavoro da non poco e che non tutti sono disposti a farlo e a regolarsi sulla quantità di calorie da assumere durante una giornata, anche se includere nel menu le indicazioni in tal senso può essere utile a motivare i ristoranti al fine di cambiare le combinazioni dei vari menu.

Maria Grazia Tecchia
24 luglio 2013

Sindrome di Down: più vicini ad una cura

donna-incintaI ricercatori del Massachusetts Medical School sono i primi ad aver scoperto che un cromosoma X presente in natura può essere indirizzato e neutralizzare il cromosoma responsabile della trisomia 21, ovvero della Sindrome di Down.

Questa sindrome è una malattia genetica che consiste nella perdita di valori cognitivi, a causa di una coppia di cromosomi in più nel corredo genetico.
Gli esseri umani posseggono 23 coppie di cromosomi, di cui due sono cromosomi sessuali, per un totale di 46 cromosomi in ogni cellula. Le persone con la sindrome di Down invece, nascono con tre copie del cromosoma 21 invece di due, e questa “trisomia 21” provoca disabilità cognitiva, insorgenza precoce di Alzheimer, alto rischio di leucemia infantile nonché difetti cardiaci e del sistema immunitario e disfuzione dei sistema endocrino.

Questa patologia si dimostra essere piuttosto complicata da curare in quanto si tratterebbe di correggere un intero cromosoma con cellule trisomiche.

La scoperta dimostra che il difetto genetico responsabile della trisomia 21 può essere soppresso in cellule di coltura (in vitro).
Si tratta di un risultato davvero molto importante che apre nuove strade ai ricercatori che studiano patologie cellulari, potendo identificare in questo modo il complesso percorso del genoma difettoso nella sindrome di Down. Così facendo, sarà molto più semplice studiare la malattia e riuscire a fornire dei farmaci adatti e mirati per le terapie future volte alla correzione di questo problema.

Il Professor Lawrence ha affermato che la correzione di centinaia di geni che fanno parte di un intero cromosoma è stata fino ad oggi al di fuori delle possibilità della scienza, ma con queste scoperte la ricerca riparte con ottime premesse per la terapia futura.

Lo studio ha appurato che la potenza del gene RNA XIST, normalmente responsabile dello spegnimento di uno dei due cromosomi X che si trovano nei mammiferi di sesso femminile, sarebbe potenzialmente in grado di spegnere anche il cromosoma in più che causa la sindrome di Down, agendo in laboratorio con cellule staminali derivanti dal paziente.

Questo importante lavoro consiste nell’aver dimostrato che il gene XIST può essere inserito in una posizione specifica del cromosoma difettato usando la nucleasi a dita di zinco (ZFN) e reprimendo il cromosoma in più lasciando inalterata l’espressione genetica a livelli quasi normali.

Maria Grazia Tecchia
21 luglio 2013

Un computer ha l’intelligenza di un bambino di 4 anni

Lo studio paragona l'intelligenza naturale a quella artificiale, uno dei sistemi con la più avanzata intelligenza artificiale ha un media di quoziente intellettivo pari a quello di un bambino con una media di quattro anni. (Immagine: Lego)
Lo studio paragona l’intelligenza naturale a quella artificiale, uno dei sistemi con la più avanzata intelligenza artificiale ha un media di quoziente intellettivo pari a quello di un bambino con una media di quattro anni. (Immagine: Lego)

I ricercatori della conoscenza artificiale e naturale presso l’Università dell’Illinois di Chicago hanno testato il quoziente intellettivo di uno dei migliori sistemi di intelligenza artificiale per stabilirne il vero grado di intelligenza.

Ed ecco che si scopre che l’intelligenza di questa macchina è pari a quella che potrebbe essere l’intelligenza di un bambino medio di 4 anni.
Questo risultato è scaturito dalla comparazione dei risultati del test con i quelli ottenuti dalla valutazione del quoziente intellettivo standard di bambini piccoli di una scuola materna.

I risultati del test della macchina però, a differenza di quelli dei bambini, erano molto diversi nelle tre diverse parti della prova.

Nel test di riconoscimento vocale e di associazione tra le cose la macchina sembra aver risposto molto bene, mentre ha stabilito un pessimo risultato per quel che riguarda il test sulla comprensione.

“Risultati così disomogenei tra loro in un test eseguito da un bambino denoterebbero sicuramente sintomi di qualche problema”, ha affermato Robert Sloan, professore e capo di informatica presso l’UIC.
“L’ostacolo principale nel costruire un’intelligenza artificiale sta nel fatto che questa è infinitamente limitata rispetto a quella umana, perché l’uomo la costruisce sull’esperienza e l’apprendimento dal mondo che lo circonda” ha continuato il professore.
E dunque, un essere umano crescendo impara che se butta giù degli oggetti questi cadono o che se tiri la coda al cane non lo apprezzerà di certo, o ancora che il ghiaccio è un elemento freddo; una macchina invece può semplicemente fornire l’informazione della temperatura in cui l’acqua gela.

Sebbene ad oggi la scienza sia molto lontana dal riuscire a paragonare l’intelligenza artificiale a quella di un bambino di 8 anni, questi studi sono molto importanti per stabilire quali sono i punti di forza dell’elaborazione delle macchine e quali invece i problemi da correggere.

Maria Grazia Tecchia
18 luglio 2013

L’acqua sopraffusa si trasforma in un nuovo liquido

ghiaccio-acquaI ricercatori dell’Università dell’Arkansas hanno scoperto che l’acqua si trasforma in una nuova forma di liquido quando portata a temperature molto basse.

Attraverso una simulazione eseguita in acqua “sopraffusa”, ovvero acqua portata quasi al punto di congelamento, un gruppo di ricerca guidato dal chimico Feng Wang ha confermato una fase di transizione da liquido a liquido in una situazione con 207 Kelvin o 87 gradi sotto lo zero della scala Fahrenheit.
Le proprietà dell’acqua sopraffusa sono importanti per capire il processo base durante il quale la crioprotezione, cioè la conservazione dei tessuti o delle cellule attraverso l’azoto liquido, permette lo scongelamento senza riportare danni agli stessi, come affermato dal Professore del dipartimento di chimica e biochimica nel “William Fullbright College of Arts and Sciences”, dottor Wang.

L’acqua poco prima di solidificarsi in ghiaccio si trasforma in un nuovo liquido, e questo studio fornisce una prova evidente della fase di transizione da liquido a liquido nell’acqua sopraffusa, mostrando che l’acqua si espande ad una temperatura davvero molto bassa anche senza la formazione di ghiaccio.

La fase di transizione da liquido a liquido nell’acqua sopraffusa è stata usata per spiegare alcune proprietà anomale dell’acqua, in quanto la verifica attraverso gli esperimenti di questa fase di transizione non era fino a questo momento esaustiva, a causa delle contraddizioni tra i diversi studi teorici derivati da simulazioni differenti.
Il team di ricerca dell’Università dell’Arkansas ha indagato su questa fase usando il modello chiamato Water potential from Adaptive Force Matching for Ice and Liquid.
Secondo questa simulazione eseguita nel recente studio, si verifica una differenza nella tipologia del liquido a temperature differenti che viene dimostrata da un cambiamento da alta a bassa densità.
La scoperta è stata pubblicata l’8 Luglio sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
ed è stata supportata dalla National Science Foundation Faculty Early Carrer Development Award.

Maria Grazia Tecchia
16 luglio 2013

Vivi veloce, muori giovane: i topi longevi sono più pigri

I topi di sesso femminile meno “esplorativi” ed attivi hanno un’aspettativa di vita maggiore rispetto alle loro compagne. (UZH, sciencedaily)
I topi di sesso femminile meno “esplorativi” ed attivi hanno un’aspettativa di vita maggiore rispetto alle loro compagne. (UZH, sciencedaily)

I topi femmina con un’aspettativa di vita maggiore sono meno attivi, meno esplorativi e mangiano meno dei corrispettivi con un’aspettativa di vita breve. I biologi dell’Università di Zurigo rivelano che esiste una correlazione tra longevità e personalità nei topi femmina e che una piccola dose di coraggio è necessaria per garantir loro la sopravvivenza.

Studi condotti su 82 topi di appartamento dimostrano che vi è audacia, un alto livello di attività e una forte tendenza all’esplorazione nei topi, sia di sesso femminile che maschile, che posseggono due diverse varianti alleliche del cromosoma 17. Secondo la previsione della teoria della storia della vita, cioè come gli individui investono la propria esistenza per la crescita e la riproduzione, gli individui con una maggiore aspettativa di vita esprimono solo a tratti una personalità reattiva e sono timidi, meno attivi e meno esplorativi rispetto agli individui con un’aspettativa di vita più bassa.

La personalità è legata all’aspettativa di vita?

I topi femmina con variante allelica T, una delle due varianti del cromosoma 17, hanno una vita più lunga. Questa variante nei topi di appartamento è naturalmente ereditaria e dunque trasmessa al 90 % della prole dei maschi che portano la variante T.
Gli embrioni che ereditano questa variante da entrambi i genitori, tuttavia, muoiono addirittura prima della nascita. Con questo esperimento, Yannich Auclair ha voluto indagare sulla possibile relazione tra questo gene e la personalità dei topi.

Vivi veloce, muori giovane (anche se sei un topo)
La ricerca rivela che le femmine con la variante T vivono più a lungo e sono meno attive delle altre con un’aspettativa di vita più breve. Consumano meno cibo, sono meno esplorative ed esprimono raramente una personalità reattiva favorendo invece un atteggiamento cauto e volto alla conservazione delle energie come vuole la teoria della storia della vita.
Ma per la prima volta si è potuto dimostrare scientificamente come la personalità è associata al fattore genetico che ne influenza dunque l’aspettativa di vita.

I ricercatori suppongono, inoltre, che la selezione naturale non favorisce i topi che sono troppo cauti poiché un topo che deve cercare cibo ed è in grado di riprodursi, deve necessariamente possedere un minimo di coraggio.

Maria Grazia Tecchia
9 luglio 2013

L’attività fisica rende il cervello più resistente allo stress

Un gruppo di ricercatori dell'Università di Princeton ha evidenziato come l'attività fisica predisponga verso una “riorganizzazione” il cervello affinché le risposte date da stress ed ansia siano ridotte nelle funzioni cerebrali. L’attività fisica ha comportato l’aumento di nuovi neuroni nell’ippocampo – regione del cervello che regola l’ansia – in alcuni topi che hanno corso per 42 giorni. Le cellule” marroni” sono i nuovi neuroni, le blu i neuroni maturi. Lo studio ha messo in risalto come la presenza delle cellule “nuove”(marroni) risulti più numerosa nei topi “attivi” rispetto a quelli sedentari. (Sciencedaily / laboratorio Gould)
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Princeton ha evidenziato come l’attività fisica predisponga verso una “riorganizzazione” il cervello affinché le risposte date da stress ed ansia siano ridotte nelle funzioni cerebrali. L’attività fisica ha comportato l’aumento di nuovi neuroni nell’ippocampo – regione del cervello che regola l’ansia – in alcuni topi che hanno corso per 42 giorni. Le cellule” marroni” sono i nuovi neuroni, le blu i neuroni maturi. Lo studio ha messo in risalto come la presenza delle cellule “nuove”(marroni) risulti più numerosa nei topi “attivi” rispetto a quelli sedentari. (Sciencedaily / laboratorio Gould)

Quando eseguiamo esercizi fisici, la risposta del cervello allo stress è molto ridotta e l’ansia ha meno probabilità di interferire con la normale attività del cervello.

Questo è quanto affermato dal gruppo di ricerca dell’Università di Princeton che riferisce al Journal of Neuroscience i risultati dei test eseguiti in laboratorio, dove in topi che facevano esercizio fisico regolarmente, quando stimolati con fattori di stress – come ad esempio l’esposizione ad acqua fredda – il cervello ha esibito un picco nell’attività dei neuroni che spegnevano l’eccitazione dell’ippocampo ventrale, ovvero la regione del cervello che regola l’ansia.

Questi risultati risolvono una discrepanza nella questione degli effetti dell’attività fisica sul cervello , in quanto in linea teorica l’attività fisica riduce l’ansia ma promuove anche la crescita di nuovi neuroni nel’ippocampo ventrale. A causa dunque di questi neuroni giovani, che sono solitamente più eccitabili di quelli più maturi, l’esercizio fisico dovrebbe addirittura aumentare l’ansia e non diminuirla.

Tuttavia, i ricercatori della Princeton hanno dimostrato che l’esercizio fortifica il meccanismo che impedisce a queste cellule del cervello di attivarsi.

L’effetto dell’attività fisica sull’ippocampo ventrale non è stato ancora studiato e conosciuto a fondo, ma la ricerca dimostra che il cervello può essere estremamente adattabile a un diverso stile di vita.
Si evince dunque che negli individui meno in forma vi è una maggiore probabilità di comportamento ansioso: l’ansia spesso si manifesta in un comportamento ad evitare situazioni avvertite potenzialmente pericolose, aumentando in tal modo le probabilità di sopravvivenza.

Gli esperimenti sono stati condotti su due gruppi di topi dove al primo veniva data una ruota per poter fare esercizio fisico mentre al secondo no.

Dopo qualche settimana, i topi attivi e quelli sedentari sono stati egualmente esposti all’acqua fredda:
nei topi sedentari lo studio ha evidenziato che i geni di breve durata si sono trasformati in seguito all’attivazione dei neuroni, mentre nei topi attivi questa reazione non c’è stata, non hanno avuto il sussulto di eccitazione come risposta al fattore stressante, mostrando una certa capacità di controllo rispetto ai topi non corridori.

È stato inoltre evidenziato che nei topi corridori vi era un’alta concentrazione dell’amminoacido GABA, ovvero il neurotrasmettitore che  regola l’eccitabilità dei neuroni; quando gli scienziati hanno bloccato il recettore GABA, l’effetto di riduzione di ansia in seguito all’attività fisica è sparito.

Maria Grazia Tecchia
7 luglio 2013