Il cervello dei primati segue un modello di sviluppo prevedibile

sviluppo-primatiI neuroscienziati hanno fatto un passo in avanti nella comprensione dell’evoluzione del cervello, dimostrando che le differenze tra uomo e primati possono essere spiegate come conseguenze naturali di uno stesso programma genetico iniziale.

La ricerca è stata pubblicata sul Journal of Neuroscience  e grazie al professor Marcello Rosa e al suo team della Scuola di Scienze Biomediche in primis e ai colleghi dell’Università Federale di Rio de Janeiro in Brasile, si è potuto dimostrare tramite una comparazione a computer l’ampliamento di alcune aree del cervello umano rispetto a quello dei primati, segno dell’evidente sviluppo cognitivo.

Questa scoperta suggerisce che alcuni tratti puramente umani, come ad esempio la capacità di pianificare, di prendere decisioni complesse o di parlare, sono una semplice conseguenza naturale dell’evoluzione del cervello che presenta dimensioni maggiori.

Il professor Rosa ha affermato che gli scienziati sapevano da tempo che alcune aree del cervello umano, in riferimento a come è organizzato il cervello di una scimmia, sono più grandi di quanto ci si aspetterebbe ma che nessuno fino ad oggi si era reso conto che questo allargamento selettivo è parte di una tendenza che è stata presente fin dagli albori dei primati.

Utilizzando delle mappe celebrali, i neuro scienziati hanno potuto comparare le dimensioni del cervello di diversi esseri umani e di tre specie di scimmie quali i Cappuccini, i Macachi e gli Uistitì. Il risultato è che vi sono due regioni, ovvero la corteccia prefrontale laterale e il bivio parietale temporale, che sono più estesi rispetto agli altri cervelli.

La prima di queste due aree è infatti legata alla pianificazione a lungo termine, all’espressione della personalità e al processo decisionale; la seconda, invece, è legata alla consapevolezza di sé.
Dunque più grande è il cervello, più diventano estese queste aree, maggiore è la differenza.

Lo studio vuol raggiungere l’obiettivo finale di capire se effettivamente i primati più prossimi all’uomo hanno aree celebrali organizzate come quelle dell’essere umano.

Maria Grazia Tecchia
25 ottobre 2013

Il segreto della longevità? Custodito dalla talpa senza pelo

La talpa senza pelo (Heterocephalus glabe) ha una caratteristica che tutti gli animali (e non solo) vorrebbero: vive una vita lunga di circa 30 anni, ovvero 10 volte in più rispetto agli altri roditori, sana e immune ai tumori fino alla fine dei suoi giorni.

Eterocefalo glabro o talpa senza pelo (Heterocephalus glaber). (© Wikimedia)

I biologi dell’Università di Rochester stanno studiando la longevità dell’animale focalizzandosi sulla produzione delle loro proteine.

Le proteine sono alla base di tutte le funzioni di una cellula animale e, conseguentemente, sono assolutamente essenziali a tutti gli organismi. Ma prima di svolgere il loro compito, le proteine devono assumere la forma adeguata che permetta loro di connettersi ed interagire con le altre strutture della cellula.

Gli scienziati Vera Gorbunova e Andrei Seluanov hanno pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences un documento nel quale descrivono la loro scoperta nella costituzione delle proteine perfette della talpa senza pelo.

Lavorando sull’RNA ribosomiale, gli scienziati hanno effettuato la scoperta: dopo aver applicato un colorante ad un campione di rRNA, hanno trovato ben tre bande scure – che rappresentano concentrazioni di diverse molecole di rRNA – e non le solite due bande che sono caratteristiche di tutti gli altri animali.
A questo punto gli studiosi hanno voluto approfondire la scoperta, tentando di cogliere il nesso con la qualità delle proteine della talpa senza pelo.

Dal momento che i filamenti dell’RNA agiscono come macchina di sintesi proteica, cambiarne la forma può avere un diverso effetto sull’organizzazione delle parti ribosomiche.
La presenza di quella banda scura in più è strettamente legata alla correzione di alcune proteine che vengono prodotte occasionalmente in modo errato, permettendo di avere 40 probabilità in meno di incontrare un errore di questo tipo nelle cellule della talpa senza pelo rispetto a quelle contenute in una cellula di topo.

Si tratta di una scoperta fenomenale perché proteine senza aberrazioni aiutano il corpo a funzionare in modo più efficiente, e queste preziosissime informazioni potranno servire in futuro anche in campo medico per migliorare i trattamenti farmaceutici per gli esseri umani.

Maria Grazia Tecchia
19 ottobre 2013

Il riscaldamento globale ha aumentato il rischio del caldo record

Secondo i ricercatori le probabilità di intensi periodi di calore dono quadruplicate rispetto all’epoca pre-industriale, quando, nell’atmosfera, c’era molta meno anidride carbonica. (© Tom Wang / Fotolia)

I ricercatori hanno calcolato che il caldo intenso che si è verificato durante l’estate del 2012 è fino a quattro volte più probabile che si ripresenti in futuro rispetto all’epoca pre-industriale, quando nell’atmosfera c’era molta meno anidride carbonica.

L’estate del 2012 è stata una stagione dal caldo epico, Luglio in particolare è stato il mese più cocente che ha registrato picchi di calore record, ed è sempre più probabile che assisteremo ad altre estati di questo tipo.

Secondo uno studio condotto da Noah Diffenbaugh – professore associato di Stanford di Scienze del sistema ambientale della Terra e dall’assistente Martin Scherer – che prende in considerazione l’esempio degli Stati Uniti, oggi come oggi episodi come questi sono quattro volte più probabili di qualche decennio fa e tutto ciò è dovuto agli elevati livelli di gas serra nell’atmosfera.

I ricercatori si sono concentrati principalmente sulla comprensione dei processi fisici che hanno creato questa condizione pericolosa dal punto di vista climatico, concludendo che caldi così eccessivi erano condizioni estremamente rare nel secolo precedente.
Facendo dunque riferimento ai modelli climatici, gli scienziati hanno compreso la correlazione tra i livelli di gas a effetto serra e le estati torride.

Risulta dunque chiaro che le emissioni di gas serra sono in gran parte correlate a questi cambiamenti climatici, e dunque che l’uomo è largamente responsabile di questi squilibri.

Dal momento che eventi meteorologici così estremi comportano non solo scompensi nel normale equilibrio naturale del pianeta, ma anche danni a livello economico che penalizzano l’uomo, Diffenbaugh invita a riflettere sulla questione e a ridurre significativamente le emissioni di gas serra riducendo in tal modo al minimo l’impatto della prossima ondata di calore.

Maria Grazia Tecchia
12 ottobre 2013

In studio un nuovo acceleratore di particelle su microchip

accelleratore-chipI ricercatori hanno usato un laser in un chip di vetro nanostrutturato, con dimensioni inferiori a quelle di un chicco di riso, per accelerare gli elettroni a una velocità 10 volte superiore alla tecnologia convenzionale.

La realizzazione è stata riportata sulla rivista Nature ed è stata eseguita da un team di scienziati dell’US Departement of SLAC National Accelerator Laboratory e della Stanford University, i quali hanno dichiarato che c’è ancora molta strada da fare prima che questa tecnologia possa raggiungere un livello di praticità tale da essere impiegata nella realtà, ma in questo modo si potrebbero ridurre notevolmente le dimensioni e i costi dei futuri acceleratori di particelle ad alta energia per esplorare il mondo delle particelle e delle forze fondamentali.

L’acceleratore su un chip potrebbe abbinare la potenza di accelerazione di un normale acceleratore lineare SLAC, con una lunghezza di 2 miglia (più di 3 chilometri), in soli 100 metri e fornire un milione di impulsi in più al secondo con un gradiente di accelerazione – ossia la quantità di energia acquisita per lunghezza – pari a 300 milioni di elettronvolt per metro, vale a dire circa 10 volte l’accelerazione fornita dalla corrente generata dall’acceleratore lineare SLAC.

L’esperimento.
L’accelerazione delle particelle avviene normalmente in due fasi:
prima gli elettroni vengono sparati alla velocità (quasi) della luce, poi per ogni accelerazione aggiuntiva aumenta la loro energia ma non più la loro velocità.
Con la tecnica dell’acceleratore su un chip, gli elettroni vengono accelerati prima alla velocità della luce, e successivamente vengono concentrati in un piccolo canale all’interno del chip di vetro di silice fusa, dalla lunghezza di solo mezzo millimetro, che contiene strutture interne appositamente create.
Una luce laser infrarossa puntata sul modello genera campi elettrici che interagiscono con gli elettroni all’interno del canale e ne aumenta l’energia.

L’obiettivo del professor Robert Stanford Byer, ricercatore principale in questo studio, è quello di arrivare a un miliardo di elettronvolt per metro, e con un solo esperimento  è stato già raggiunto un terzo del risultato finale.
Questa tecnologia potrebbe portare un importante contributo agli acceleratori compatti e ai dispositivi a raggi X usati per la scansione sicura nelle terapie mediche e nella ricerca nel campo della biologia e delle scienze dei materiali.

Maria Grazia Tecchia
4 ottobre 2013

Energia elettrica da quella solare: scoperto un metodo ancora più efficace

nanostruttureI ricercatori dell’Università della Pennsylvania hanno trovato un nuovo meccanismo per il recupero di energia dalla luce, una scoperta che potrebbe migliorare le tecnologie impiegate per generare energia elettrica partendo da energia solare e per portare miglioramenti nei dispositivi optoelettronici utilizzati nelle comunicazioni.

Alba Bonnell, Professore di Scienza dei Materiali e Ingegneria presso la Scuola di Ingegneria e Scienze Applicate, ha condotto lo studio insieme allo studente di dottorato David Conklin, riuscendo a trovare un processo molto più efficiente rispetto alla fotoconduzione convenzionale, che potrebbe migliorare la gestione attuale dell’energia solare.

La ricerca ha effettuato uno studio sulle nanostrutture plasmoniche al fine di creare dei materiali speciali capaci di essere più facilmente eccitabili quando colpiti dalla luce.
Il risultato è stato una composizione di particelle di oro e di molecole di porfirina sensibili alla luce, di dimensioni specifiche e disposte secondo un modello preciso.
I plasmoni, che sono un’oscillazione collettiva di elettroni, possono essere eccitati e indurre una corrente elettrica che genera movimento.

Dal momento che questi materiali sono in grado di diminuire la dispersione della luce, sono i migliori candidati per essere utilizzati nelle applicazioni tecnologiche di assorbimento delle celle solari.
Quando questi plasmoni vengono eccitati fortemente, si arriva ad un alto stato di energia, e a quel punto si dovrebbe riuscire a raccogliere gli elettroni dal resto del materiale. Questi ultimi in particolare si potrebbero poi usare per le applicazioni molecolari dei dispositivi elettronici, come componenti all’interno di un circuito elettronico, ad esempio.

In tutto questo hanno giocato un ruolo fondamentale le dimensioni delle particelle di oro, e dopo svariati tentativi gli scienziati sono riusciti a trovare il modello specifico per riuscire nell’impresa.

“Rispetto alla fotoeccitazione convenzionale, abbiamo registrato con questo metodo un aumento da 3 a 10 volte dell’efficienza del processo” ha affermato la Bonnell.
Perfezionando il sistema, si potrebbe arrivare un giorno a mettere a punto una vernice speciale che andrebbe a ricoprire il nostro computer portatile, che esposto ai raggi del sole raccoglierebbe l’energia solare e la trasformerebbe in energia elettrica capace di autoalimentare il computer, tanto per fare un esempio.

Maria Grazia Tecchia
16 settembre 2013

Nella comunicazione uomo-cane interviene un apparecchio radiocomandato

caninoNuovi limiti vengono superati, un recente studio dimostra come il normale processo comunicativo tra uomo e cane potrebbe, col tempo, subire un graduale cambiamento. Se vi dicessero, per esempio, che fosse possibile” modernizzarlo” comandandolo a distanza con un “telecomando”, o meglio, con il proprio smartphone?

Sembra che sia stato messo a punto un sistema che riesca a farci comunicare con il nostro amico a quattro zampe anche a distanza.
Jeff Miller e David Bevly del Dipartimento di Ingegneria Meccanica presso l’Università di Auburn pubblicheranno i dettagli del progetto nel prossimo numero della rivista International Journal of Modelling di identificazione e controllo.

Si tratta di un dispositivo basato su un microprocessore, con connessione radio senza fili e ricevitore GPS che complessivamente è in grado di comunicare alcuni comandi al cane tramite piccoli toni e vibrazioni emesse.
I test hanno rivelato un’obbedienza da parte del cane del 98% a questo sistema, ciò indica che nel caso in cui il nostro cucciolo sia troppo lontano per essere chiamato o guidato, potremo comunicare con lui attraverso un controllo remoto che riferirà i comandi direttamente al cane.

Stiamo parlando di un’invenzione davvero straordinaria, basti pensare all’importanza di un cane nella ricerca di persone disperse dopo catastrofi quali un terremoto, o nel fiutare della droga nascosta, il suo istinto ed addestramento lo porta ad avvicinarsi all’obiettivo intrufolandosi spesso in posti stretti e difficilmente raggiungibili dall’uomo, interrompendo quindi il contatto tra cane e proprietario.
Questo sistema potrebbe inoltre essere la soluzione quando, in situazioni particolarmente rumorose, il cane potrebbe disorientarsi perché non riesce a cogliere le indicazioni del padrone, mentre in questo modo quest’ultimo riuscirebbe comunque a tenere un contatto tramite le vibrazioni del sistema.

Questa ricerca ha dimostrato che i cani di soccorso possono essere tranquillamente addestrati a rispondere ai toni e alle vibrazioni come se si trattasse di comandi diretti di un uomo.

Maria Grazia Tecchia
7 settembre 2013

Una pellicola trasparente in grado di riprodurre musica

Jeong-Yun-Sun-Christoph-KeplingerNel laboratorio di Scienze dei Materiali ad Harvard è stata realizzata una pellicola trasparente che collegata ad un pc è in grado di riprodurre musica in tutta la stanza: prova pratica effettuata con il “Mattino”, celebre brano di Peer Gynt, trasmesso su un altoparlante ionico.

Nulla di già visto o conosciuto, si tratta di un sottile foglio di gomma situato tra due strati di gel di acqua salata, chiaro e trasparente, attraversato da un segnale ad alta tensione che costringe la gomma a contrarsi e vibrare rapidamente. Questa vibrazione produce un suono che copre l’intero spettro udibile, ovvero da 20 hertz ai 20 kiloherts.

Pubblicato nel numero del 30 Agosto della rivista Science, rappresenta la prima dimostrazione del fatto che le cariche elettriche trasportate dagli ioni possono essere utilizzate per rapidi movimenti ad alta tensione.
L’aspetto positivo è che i conduttori ionici possono essere allungati in maniera significativa senza un aumento della resistività; inoltre la proprietà della trasparenza li rende particolarmente adatti alle applicazioni ottiche. Infine, i gel usati come elettroliti sono biocompatibili, dunque possono essere integrati in sistemi biologici, ad esempio come muscoli artificiali o lembi di pelle.

Del resto, i segnali trasportati dagli ioni carichi sono l’elettricità del corpo umano, ossia quelle scariche che permettono ai neuroni di far battere il cuore, ad esempio.
Sicuramente un aspetto particolarmente interessante per i bioingegneri che potrebbero creare organi artificiali o arti con questo sistema.

L’esperimento dell’altoparlante è importante perché dimostra che un conduttore ionico può produrre suoni attraverso tutto lo spettro udibile ad alta tensione e ad alta velocità.
I contro sono che le tensioni elevate potrebbero scatenare reazioni elettrochimiche che producendo gas brucerebbero i materiali, nonché una lentezza complessiva in quanto gli ioni sono più grandi degli elettroni e creerebbero un circuito più lento.
Con il nuovo sistema escogitato questi problemi sono risolti, grazie allo strato di gomma che funge da isolante.

Maria Grazia Tecchia
2 settembre 2013