Le bolle di sapone possono prevedere gli uragani?

La potenza degli uragani e dei tifoni potrebbe essere prevista dalle bolle di sapone? Per quanto possa sembrare una domanda assurda, i fisici dell’Ondes Laboratoire et Matière d’Aquitaine hanno usato delle bolle di sapone per creare un fedele modello del flusso atmosferico.

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Uno studio dettagliato dei tassi di rotazione dei vortici della bolla di sapone ha permesso agli scienziati di ottenere una relazione che descriva con alta precisione l’evoluzione della loro intensità e di proporre un modello per predire i cicloni tropicali.

Il lavoro, svolto in collaborazione con l’Istituto di Matematica di Bordeaux e l’Istituto Politecnico, è stato pubblicato sulla rivista di natura Scientific Reports.

In meteorologia, predire l’intensità del vento o la forza dei cicloni tropicali è di fondamentale importanza perché la vita di centinaia di migliaia di persone potrebbe dipendere da accurate previsioni.
Tuttavia, nonostante il progresso scientifico, stabilire anticipatamente con certezza fenomeni naturali di questo tipo resta un obiettivo difficile da raggiungere poiché esistono diversi fattori legati alla complessità dei vortici giganti.

L’esperimento dei ricercatori consisteva nella simulazione del flusso delle bolle di sapone che riproduce perfettamente il più semplice modello di flusso atmosferico.
Sulla bolla si sono potuti ottenere vortici che assomigliano ai cicloni tropicali il cui tasso ed intensità di rotazione mostrano le dinamiche del ciclone con la sua potenza iniziale e il suo declino finale.

Così facendo, gli scienziati hanno potuto ottenere una relazione che descrive esattamente l’evoluzione e l’intensità di questi vortici, grazie alla quale si può determinare l’intensità massima del vortice e il tempo necessario al fenomeno per raggiungere il proprio culmine, con una previsione che può iniziare circa 50 ore dopo la formazione del vortice, ovvero a un quarto della sua durata totale.

Maria Grazia Tecchia
25 febbraio 2014

I funghi hanno un notevole impatto sulla concentrazione di carbonio nell’atmosfera

Microscopici funghi, che vivono nelle radici delle piante, svolgono un ruolo importante nella conservazione e il rilascio di carbonio nell’atmosfera: questo è quanto stabilito dai ricercatori dell’Università del Texas e di Boston e dello Smithsonian Tropical Research Institute.

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Alcuni funghi di tipo simbiotico possono portare fino al 70 percento di carbonio in più che verrà poi immagazzinato nel suolo.

“I flussi naturali di carbonio tra la terra e l’atmosfera sono enormi e svolgono un ruolo cruciale nella regolazione della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, e di conseguenza del clima della Terra” ha affermato Colin Averill, autore principale dello studio e dottorando alla Facoltà di Scienze Naturali di Austin.

Questo studio stabilisce chiaramente che i diversi tipi di funghi simbionti – ovvero che vivono in simbiosi con altri organismi traendo reciproco vantaggio – che colonizzano le radici delle piante, esercitano un controllo maggiore sul ciclo globale del carbonio, anche se fino ad oggi tutto ciò non è stato adeguatamente studiato e dimostrato.

Presupposto che nel suolo vi è una concentrazione di carbonio più alta di quella che si trova nell’atmosfera e che le previsioni sul clima futuro potrebbero dipendere da un adeguato studio dei cicli del carbonio tra terra ed aria, è risaputo che le piante rimuovono il carbonio dall’atmosfera in forma di anidride carbonica durante la fotosintesi; ma quando la pianta muore o perde foglie o rami, il carbonio viene assorbito dal suolo dove resta bloccato fino a quando i resti della pianta si decompongono, quando i microbi hanno il sopravvento creando delle emissioni di carbonio che entreranno in circolo nell’aria.

Ma dal momento che uno dei limiti di piante e microbi è la poca disponibilità di azoto, la maggior parte delle piante ha un rapporto simbiotico con i funghi micorrizici, che estraggono l’azoto e le sostanze nutritive necessarie dal suolo rendendo l’azoto disponibile per le piante stesse.
Dunque le piante e i loro funghi competono con i microbi per l’assunzione di azoto dal suolo e questa concorrenza riduce la decomposizione del suolo.

In conclusione, gli scienziati hanno scoperto che quando le piante collaborano con i funghi EEM il suolo contiene il 70 percento in più di carbonio per unità.

Maria Grazia Tecchia
14 febbraio 2014

Gli scienziati fanno rivivere le cellule cerebrali dei pazienti con Alzheimer

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Gli scienziati dell’Istituto di Ricerca New York Stem Cell Foundation (NYSCF) in collaborazione con gli scienziati della Columbia University Medical Center (CUMC) sono riusciti per la prima volta a creare cellule staminali pluripotenti indotte (iPS) da un tessuto cerebrale di pazienti affetti dal morbo di Alzheimer.

Queste nuove linee di cellule staminali consentiranno ai ricercatori di mandare tornare indietro nel tempo e osservare come il morbo di Alzheimer si sviluppa nel cervello, rivelando l’insorgenza della malattia a livello cellulare molto prima che si verifichino tutti i sintomi associati con questa malattia.

Fino ad ora il terreno di studi per l’approfondimento su questa patologia erano semplicemente i corpi deceduti di persone che ne erano affette, non potendo effettuare biopsie adeguate in pazienti vivi bisognava accontentarsi del prelievo delle cellule dopo il decesso, mentre in questo modo gli scienziati hanno la possibilità di confrontare dal vivo le cellule cerebrali dei pazienti con Alzheimer con quelle dei pazienti che non ne soffrono.

Solitamente le cellule iPS vengono generate da un lembo di pelle o da un campione di sangue di un paziente, oggi invece gli scienziati della NYSCF hanno prodotto con successo le cellule iPS da campioni di tessuto cerebrale congelati risalenti fino a undici anni fa e conservati nella banca dedicata della Columbia University.

Se fino ad oggi questa malattia, così come tante altre dello stesso tipo, poteva essere diagnosticata precisamente solo da esami post-mortem, siamo ora in grado per la prima volta di studiare le cellule di persone ancora in vita.

Si possono così creare delle banche di reti del cervello che, combinate con decine di migliaia di campioni, offrono una grande fonte di tessuti da analizzare.
I ricercatori della NYSCF e della CUMC hanno dimostrato che migliaia di campioni conservati mediante crioprotettori possono essere riutilizzati per far vivere le cellule umane e utilizzarle per studiare la malattia e sviluppare nuovi farmaci o trattamenti preventivi.

Maria Grazia Tecchia
29 gennaio 2014

Scoperto un recettore degli odori nei polmoni

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Il nostro naso non è l’unico organo in grado di rilevare il fumo di una sigaretta accesa che si propaga nell’aria, questo è quanto scoperto dagli scienziati della Washington University di St Louis e dell’Università di Iowa che hanno dimostrato come vi siano dei recettori di odori anche all’interno dei polmoni.

Questi recettori, però, a differenza di quelli presenti nel naso che si trovano nelle membrane delle cellule nervose, sono all’interno delle membrane delle cellule neuroendocrine, e quindi invece di inviare impulsi nervosi al cervello che gli permettono di codificare un certo tipo di odore, provocano una reazione che restringe al momento le vie aeree provocando una sorta di colpo di tosse.
Si tratta di una vera e propria risposta fisiologica immediata dell’organismo a qualcosa che ci può far male, a differenza dei recettori nel naso che inviano prima l’informazione al cervello che dovrà poi essere interpretata.

Questi particolari recettori chiamati PNEC sono delle guardie che proteggono il nostro corpo e tendono a bloccare i prodotti chimici tossici o irritanti inalati nel nostro organismo, così come afferma il capo del team che ha effettuato la scoperta, il professor Yehuda Ben-Sharar.
In effetti, anche se organi come polmoni o intestino si trovano all’interno del corpo umano, sono comunque soggetti alle esposizioni e ai cambiamenti dell’ambiente che ci circonda, di conseguenza questi recettori si rivelano essere indispensabili per la preservazione dell’organismo.

I recettori PNEC potrebbero poi essere i responsabili di alcune malattie respiratorie come la Broncopneumopatia ostruttiva cronica o l’asma, e come noto, ai pazienti affetti da queste patologie viene sconsigliato di vivere in ambienti con smog cittadino, odori forti o sostanze irritanti che potrebbero accentuare la costrizione delle vie aeree.
Bloccando, invece, i PNEC si potrebbero prevenire gli attacchi di asma e permettere ai pazienti di eliminare l’uso di steroidi o broncodilatatori.

Maria Grazia Tecchia
24 gennaio 2014

Batteri geneticamente uguali possono comportarsi in modi diversi

140102142018-largeAnche se una popolazione di batteri è identica dal punto di vista genetico, alcuni batteri della stessa colonia possono agire in modi radicalmente diversi.

È quanto scoperto dai ricercatori dell’Università di Washington che hanno dimostrato il modo in cui, quando una cellula batterica si divide in due cellule figlie, a seconda della distribuzione di organelli cellulari, non necessariamente uniforme, possano crearsi differenze in batteri geneticamente identici.
Di conseguenza, le cellule risultanti possono comportarsi in modo diverso l’una dall’altra.

Il dottor Samuel Miller, professore di Microbiologia, Scienze del Genoma e della Medicina, spiega che questo è solo uno dei modi per cui le cellule all’interno di una colonia possono diversificarsi tra loro. Nel caso specifico, infatti, si trattava di batteri ma è probabile che tutte le cellule seguano lo stesso meccanismo, anche le cellule umane.
Il gruppo del dottor Miller ha dimostrato che i batteri divisi possiedono una concentrazione di monofosfato ciclico Diguanosine – un’ importante molecola di regolamentazione – distribuita in modo diseguale tra le progenie, a seconda della molecola messaggera.

Questo fenomeno di diversità è fondamentale per la lotta alla sopravvivenza dei batteri: infatti, più è diversificata una popolazione di batteri, più è probabile che vi siano all’interno degli individui in grado di superare ciò che potrebbe rappresentare una minaccia per i batteri stessi, come ad esempio un antibiotico.

Questa ricerca si rivela essere molto importante per capire i meccanismi che rendono i batteri capaci di resistere ai trattamenti antibiotici, in particolare si è osservato come questi tipi di farmaci vadano a colpire le cellule in rapida crescita, mentre nelle colonie possono esservi dei batteri a crescita lenta che sfuggono al potere antibiotico sopravvivendovi.

Maria Grazia Tecchia
17 gennaio 2013

La lettura di un romanzo può cambiare l’attività cerebrale

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Quanti di voi pensano di aver letto almeno un romanzo che gli abbia cambiato la vita?

Non si tratta soltanto di un modo di dire, i ricercatori della Emory University hanno individuato possibili tracce biologiche relative alla sensazione di cambiamento che può lasciare una buona lettura.
Sembra infatti che vi siano dei cambiamenti reali all’interno del cervello che permangono per almeno un paio di giorni dopo la lettura di un romanzo.

La scoperta consiste nell’aver dimostrato che la lettura di un romanzo può causare cambiamenti nella connettività durante lo stato di riposo del cervello che persistono per qualche giorno.
Il neuroscienziato Gregory Berns, autore principale dello studio, ha dichiarato la volontà di capire come le storie possono entrare in profondità nel nostro cervello e il relativo modo di influenzare lo stesso.

I test sono stati eseguiti mediante l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale che ha iniziato a individuare le connessioni del cervello associate alle storie di lettura, per un totale di 19 giorni consecutivi.
Sono stati coinvolti nell’esperimento gli studenti della Emory, ai quali è stato sottoposto il romanzo “Pompei” di Robert Harris, che narra della storia della città di Pompei e della tragedia dell’eruzione del Vesuvio. Il romanzo è stato diviso in porzioni di 30 pagine da leggere di sera per nove giorni. Dopo aver verificato l’effettiva lettura con alcune domande sul testo, i ricercatori hanno provveduto a registrare le reazioni del cervello del lettore durante il mattino successivo.

I risultati hanno dimostrato un’attività accentuata nella corteccia temporale della parte sinistra, una zona del cervello associata con la ricettività del linguaggio.

Il dottor Berns ha affermato che “anche se è risaputo che le buone storie possono far immedesimare il lettore nei personaggi, oggi possiamo dimostrare che recano qualche cambiamento anche a livello biologico”.

Maria Grazia Tecchia
9 gennaio 2013

I cervelli più grandi dipendono dal corredo genetico

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Gli scienziati hanno mosso un passo in avanti nella comprensione dei cambiamenti genetici che hanno permesso agli esseri umani e agli altri mammiferi di sviluppare cervelli più grandi.

Durante l’evoluzione, diverse specie di mammiferi hanno sperimentato vari sviluppi nelle dimensioni del cervello, e un obiettivo importante della neurobiologia è quello di comprendere i cambiamenti genetici alla basi di questi straordinari adeguamenti.

Il processo attraverso il quale alcune specie si sono evolute con cervelli più grandi non è ben compreso dagli scienziati ed il quadro è reso ancora più complesso perché lo studio della continua evoluzione dei grandi cervelli ha un costo molto elevato.

Il dottor Humberto Gutierrez della Scuola di Scienze della Vita all’Università di Lincoln (UK) ha condotto una ricerca che ha esaminato i genomi di 39 specie di mammiferi al fine di avere una visione globale di come il cervello è diventato più grande e complesso.

A tale scopo, gli scienziati si sono concentrati sulla dimensione delle famiglie di geni: queste famiglie sono costituite da gruppi di geni correlati che condividono caratteristiche simili, spesso collegati con funzioni biologiche comuni o connesse.
Si pensa che i grandi cambiamenti nella dimensione delle famiglie geniche possono aiutare a spiegare il motivo per cui le specie affini si sono egualmente evolute ma effettuando percorsi diversi.

I ricercatori sono riusciti a trovare un chiaro legame tra l’aumento delle dimensioni del cervello e l’espansione delle famiglie di geni legate a determinate funzioni biologiche: diverse dimensioni del cervello sono strettamente legate al numero di geni all’interno delle famiglie geniche e, in generale, i mammiferi tendono ad avere un cervello più grande a causa di un forte adattamento evolutivo.

Maria Grazia Tecchia
20 dicembre 2013