Anche gli squali elefante, dopo le balenottere, minacciati dalla plastica in mare

Cetorhinus maximus

Un mare sporco di plastica galleggiante è decisamente brutto da vedere. Ma gli effetti sulla salute e sulla vita degli abitanti del mare vanno ben oltre l’aspetto estetico, e le ricerche più recenti mostrano che le conseguenze di questa invasione di plastica possono essere notevoli e impreviste. Ne sono minacciate specie di grandi dimensioni e di deciso impatto emotivo, come le grandi balenottere e lo squalo elefante, il secondo pesce più grande del mondo.

Queste sono le due specie su cui si sono concentrati i recenti studi (il primo finanziato dal Ministero dell’Ambiente, il secondo con la collaborazione del gruppo Operazione Squalo Elefante), effettuati in Mediterraneo, condotti da un gruppo di ricercatori dell’università di Siena, guidati dalla professoressa Maria Cristina Fossi, del Dipartimento di Scienze Ambientali. Ma è la prima volta che si cercano le conseguenze da inquinamento da microplastiche, nei grandi filtratori del mare, per cui, possibilmente, le sorprese non sono finite.

Per microplastiche si intendono piccoli frammenti di plastica, appunto, non più grandi di 5 mm. Questi non sono altro che il risultato della disgregazione di pezzi di plastica più grandi, e la loro completa decomposizione nell’ambiente richiede secoli. Il mare, anche il nostro Mediterraneo, ne è pieno. Un gruppo di ricercatori belgi e francesi, nel 2010, ha provato a misurarne la concentrazione nell’area dal Mar Ligure al Golfo di Lione, e ha trovato che non siamo messi meglio dell’oceano Pacifico e della sua famosa isola di plastica. In alcuni punti la concentrazione era pari a 892.000 particelle per chilometro quadrato.

Ed ecco perché entrano in gioco i grandi filtratori. Una balenottera comune (Balaenoptera physalus), che si nutre prendendo enormi boccate d’acqua (fino a 70.000 litri alla volta) trae il suo cibo filtrando appunto quest’acqua attraverso i fanoni, organi di filtraggio che sostituiscono i denti. Lo stesso fanno gli squali elefante (Cetorhinus maximus), ma usando le branchio-spine (filamenti cornei associati alle branchie); questi giganti viaggiano perennemente a bocca spalancata, e alla velocità di 2 nodi, filtrano fino a oltre 880.000 litri all’ora. E’ chiaro dunque che sia le micro-particelle di plastica galleggianti in acqua, sia la plastica ingerita e metabolizzata da plancton e piccoli organismi, entra in grande quantità nel corpo di questi filtratori, mettendo a rischio la loro salute.

MEHP – mono(2etilexil)ftalato | DEHP – Di-2-etilesilftalato.

Infatti, in un articolo pubblicato su Marine Pollution Bulletin, i ricercatori senesi dichiarano di avere trovato presenza di composti della plastica, come gli ftalati, nelle balenottere del Mediterraneo. In particolare, 4 dei 5 esemplari analizzati, trovati spiaggiati sulle nostre coste, contenevano alte concentrazioni di MEHP – mono(2etilexil)ftalato – un metabolita del di(2etilexil)ftalato, lo ftalato più abbondante nell’ambiente.

Inoltre con il convegno nazionale sugli squali, della European Elasmobranch Association, tenutosi a Milano nel 2012, arrivò seconda conferma. Cinque esemplari di squalo elefante, esaminati dalla stessa equipe di ricerca, mostravano anch’essi la presenza di metaboliti degli ftalati, nei campioni di muscolo.

“Gli effetti degli ftalati e dei loro metaboliti non sono da sottovalutare, dal momento che questi inquinanti chimici sono dei potenziali interferenti endocrini (endocrin disruptors), cioè interferiscono, spesso mimandola, l’azione degli ormoni naturali.” afferma la professoressa Fossi, che continua “In pratica queste sostanze possono mimare l’effetto oppure competere con gli ormoni riproduttivi naturali o addirittura inibirne la sintesi, In questo modo possono per esempio andare a interferire con i processi riproduttivi delle specie, mettendone ovviamente a rischio la sopravvivenza.” Ci tiene però a sottolineare che quanto scritto da molti giornali e siti web, che le balenottere starebbero diventando ermafrodite “è una sciocchezza. Si sa invece che gli ftalati e relativi metaboliti, possono, ad esempio indurre la produzione di ormoni femminili, nei maschi”.

Dunque, ora sappiamo, ed è la prima volta che questo viene dimostrato, che le balenottere e anche gli squali elefante sono esposti continuamente a questi inquinanti della plastica: gli effetti di un’esposizione cronica non sono conosciuti, ma sono potenzialmente preoccupanti.

Marco Affronte

Bibliografia:
Fossi M.C., Coppola, D., Baini M., Giannetti M., Guerranti C., Marsili L., … & Clò S. (2014). Large filter feeding marine organisms as indicators of microplastic in the pelagic environment: The case studies of the Mediterranean basking shark (Cetorhinus maximus) and fin whale (Balaenoptera physalus). Marine environmental research, 100, 17-24.

Fossi M.C., Panti C., Guerranti C., Coppola D., Giannetti M., Marsili L., & Minutoli R. (2012). Are baleen whales exposed to the threat of microplastics? A case study of the Mediterranean fin whale (Balaenoptera physalus). Marine Pollution Bulletin, 64(11), 2374-2379.

L’Adriatico protagonista

Un mollusco nudibranco nelle acque marchigiane (foto M. Giuliano).

Volendo riassumere l’iniziativa che si svolgerà a Porto San Giorgio venerdì 20, si potrebbe semplicemente dire che, finalmente, si parla di Adriatico, del nostro mare. Della sua ricchezza biologica, dei suoi ambienti, del suo valore come ecosistema unico, irripetibile, prezioso.

L’Adriatico sembra diventato il mare dei turisti, o dei pescatori, o delle merci. Tutti aspetti fondamentali, ma che spesso fanno dimenticare che è un mare vivo, affascinante, da conoscere e da riscoprire.
Le acque basse sono un rifugio e un sicuro riparo. E raccontano storie. Di delfini che si avvicinano a riva, di balene di passaggio, di leviatani spiaggiati, di pesci luna che sembrano alieni, di anguille che attraversano l’oceano per fare ritorno nelle acque adriatiche.
Questo è l’altro Adriatico, quello “sotto”, quello vivo e a volte dimenticato. Quello messo in pericolo ogni giorno dagli scarichi di mille città, da una pesca eccessiva, dalla maleducazione o l’incuria di chi non sa, per ignoranza o per pigrizia, apprezzarne le qualità oltre alle belle coste e ai porti accessibili. Quello fragile e delicato. La culla preziosa da difendere con tutte le nostre forze.

Al mattino, al Teatro comunale, alle 9,30, saranno i bambini delle classi 3, 4 e 5 delle scuole elementari della città, ad ascoltarne i racconti, accompagnati da immagini e filmati. E avranno anche la possibilità di fare domande e soddisfare le loro curiosità.
Il tema della mattinata sarà: “Viaggio Adriatico. Storie di squali, delfini, balene, capodogli, pesci luna… spiaggiamenti e avvistamenti fuori dal comune.”

La balenottera spiaggiata a Sirolo nel 2007 (foto L. Stanzani).

Al pomeriggio, alle 17 presso la Sala Castellani, l’incontro aperto a tutti, a ingresso gratuito. Con l’ausilio di tante immagini, i racconti del relatore partiranno ancora dall’Adriatico come mare molto particolare, per poi stringere l’attenzione sulle coste marchigiane e su quanto di bello e da proteggere si trovi nelle acque della regione.
Il linguaggio semplice e non tecnico, rendono l’iniziativa fruibili a tutti, grandi e bambini.
Il tema del pomeriggio: “Mare da proteggere: ambiente e biodiversita’ del mare marchigiano. Un viaggio nella vita e negli ambienti naturali dell’Adriatico marchigiano

Questa è un’iniziativa del CEA La Marina Ecoidee di Porto San Giorgio.

Il relatore di entrambe gli incontri sarà Marco Affronte, naturalista e divulgatore scientifico. Laureato in Scienze Naturali, dal 1997 al 2011 ha lavorato come Responsabile Scientifico della Fondazione Cetacea, e dal 2004 al 2006 è stato Direttore Scientifico del progetto internazionale Adria-Watch, “Osservatorio di Cetacei, Tartarughe e Squali dell’Adriatico”.
Autore di numerosi articoli e pubblicazioni scientifiche, scrive sulla carta e sul web, nel 2007 ha pubblicato “Il mare che non ti aspetti” per la casa editrice Magenes e nel 2011 il libro “Viaggio Adriatico”; dal 2006 è autore del blog “Storie di Mare”.

L’orso polare lotta per sopravvivere

polar bear - orso polare
Orso Polare

E’ diventato uno dei simboli della lotta contro i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale. Avete presente la foto di un orso polare sopra una piccola “zattera” di ghiaccio, dando l’idea che il ghiaccio si stia sciogliendo?
Poche persone sanno cos’è un orso polare, ma pochissime conoscono qualcosa in più del suo nome e della celebre pelliccia bianca.

L’orso polare (Ursus maritimus) è la specie più grande, fra gli orsi. I maschi sono dei giganti lunghi 2,5 – 3 metri e possono pesare anche oltre 6 quintali. Le femmine invece sono più piccole, più o meno la metà dei maschi.
Vive in un territorio molto ampio, e per lo più sconosciuto e inesplorato. Occupa tutto il circolo polare artico e le terre adiacenti, in genere senza spingersi, verso nord, oltre l’88° parallelo. Dal momento che spesso “viaggia” su lastroni di ghiaccio che vanno alla deriva, a volte può essere avvistato anche più a sud del suo habitat naturale, ma si tratta di eccezioni.

I maschi sono sessualmente maturi a 6 anni, le femmine a 4-5. In autunno le femmine gravide scavano delle profonde tane nel ghiaccio, dove entreranno in uno stato simile al letargo. Solo simile perchè in realtà, anche se il battito cardiaco rallenta, non dormono per tutto il tempo e la temperatura corporea non scende.
Fra novembre e febbraio nascono i cuccioli, ciechi e piccolissimi (meno di un chilogrammo), in genere due per volta. Questi restano nella tana, dove si nutrono del latte materno, fino a febbraio-aprile. A quel punto peseranno già sui 10-15 kg. La famiglia resterà comunque nelle vicinanze della tana per i primi 15 giorni, per poi cominciare a esplorare l’ambiente, con lunghe passeggiate sul ghiaccio. Impareranno dalla madre a cacciare le foche.

Infatti l’orso polare si nutre quasi esclusivamente di foche. Queste, in genere, vengono cacciate alla superficie dell’acqua, attraverso i buchi nel ghiaccio che usano per respirare. L’orso ha un olfatto molto sviluppato: quando la foca esce e respira, l’orso sento l’odore e si avvicina al foro. orso polareAl respiro successivo, la foca viene abbrancata e tirata fuori dall’acqua, infine uccisa, in genere con un morso deciso alla testa. E’ raro che le foche vengano inseguite in acqua o cacciate all’esterno, anche se può succedere che foche che riposano sul ghiaccio vengano avvicinate lentamente (la pelliccia bianca del’orso si mimetizza perfettamente), e poi attaccate con un assalto finale.
Oltre alle foche, preda principale come già detto, gli orsi mangiano tutto quello che trovano: uccelli, uova, molluschi, granchi, caribù e anche una buona varietà di vegetali (bacche, radici e kelp). La loro propensione a mangiare di tutto, oltre a un’innata curiosità, li mettono in pericolo, laddove si trovano in contatto con l’uomo. Possono infatti mangiare qualsiasi tipo di rifiuto trovato sul terreno. Addirittura, nel 2006 la discarica della città di Thompson, nell’estremo Canada settentrionale, è stata chiusa e trasferita, proprio per salvaguardare gli orsi polari.

Difficile sapere quanti orsi polari ci siano, ma le stime si aggirano attorno ai 20-25.000 esemplari, quasi sicuramente in declino. La specie è classificata come “vulnerable” nella Red list della IUCN, e pare che negli ultimi 45 anni abbia subito una riduzione di oltre il 30%. E’ minacciata dalla caccia diretta da parte delle popolazioni indigene, dall’inquinamento e soprattutto dai cambiamenti climatici. La riduzione dei ghiacci “consuma” il loro habitat naturale e ne riduce fortemente le risorse. L’Intergovernmental Panel on Climate Change prevede che da qui a 100 anni, i ghiacci del Polo scompariranno, durante l’estate. Se non si inverte la tendenza, sarà la fine per gli orsi polari.

Un aiuto per il “delfino” del Gange

Non tutti i delfini vivono in mare. Nella grande varietà dei Cetacei si contano anche specie di acqua dolce o di acque intermedie, salmastre. I cosiddetti “delfini di acqua dolce” – il termine non sarebbe corretto in quanto non appartengono alla famiglia dei Delfinidi – sono proprio animali adattati alla vita nei fiumi. Ne esistono specie diverse appartenenti a famiglie diverse (qui una sistematica aggiornata dei Cetacei), ma hanno caratteri abbastanza comuni.
Sono specie di taglia non enorme, presentano un rostro molto allungato e occhi piccolissimi. Quest’ultima caratteristica è dovuta probabilmente proprio al fatto che le acque dei fiumi sono in genere molto più torbide di quelle del mare, e dunque la vista perde la sua importanza. Diventa invece fondamentale, e dunque ben sviluppato, il tanto decantato “sesto senso”, cioè il biosonar o ecolocalizzazione. Per questo la “fronte” – in realtà un organo chiamato melone, che è una lente di grasso che concentra i suoni – in questi animali è molto prominente.

Purtroppo, un’altra caratteristica che i cetacei di fiume condividono è anche quella di essere, in genere, a rischio di estinzione, minacciati dall’impoverimento e dai cambiamenti del loro ambiente e anche dal traffico navale che percorre queste vie d’acqua. Non a caso, la prima specie di Cetaceo mai estinta a causa dell’uomo è, anzi era, un delfino di fiume: il Lipote.
Il Lipote, o Baiji (Lipotes vexillifer) viveva nel fiume Yangtze in Cina. Una spedizione di sei settimane, condotta dall’Istituto di Idrobiologia di Wuhan e dalla svizzera Baji Foundation nel 2006 si è conclusa con nessun avvistamento di questo animale. La specie è stata quindi dichiarata effettivamente estinta.
Nel 1980 erano circa 400 i Baji (questo il nome comune della specie) che si stimava vivessero nel fiume Giallo. Nel 1997, una estesa spedizione aveva invece contato solo 13 avvistamenti, mentre un pescatore affermava di averne avvistato uno nel 2004.
Il traffico navale e lo sfruttamento eccessivo delle risorse del fiume sono le cause imputate della scomparsa dei Lipotes, specie che era considerata un fossile vivente, avendo mantenuto le caratteristiche acquisite tre milioni di anni fa, quando aveva lasciato il mare per le acque del fiume Giallo di cui era diventata specie endemica.

Ed è per questo motivo che accogliamo con piacere la notizia che un’altra specie di acqua dolce, il Platanista, è stato recentemente protagonista, in positivo, di norme di protezione a sua tutela. Il Platanista del Gange (Platanista gangeticus) vive nel fiume Gange, appunto, nel Brahmaputra e nei loro affluenti, dunque in Bangladesh, India e Nepal.
La specie è catalogata come in pericolo (endangered) nella Red List della IUCN, e la minaccia principale a cui è sottoposta è l’abbassamento del livello del fiume, dovuto al prelievo per irrigazione e produzione di elettricità, con anche conseguente affioramento di banchi sabbia che spezzano il fiume stesso in segmenti separati.

Il Governo del Bangladesh, è questa la buona notizia di cui si parlava, ha recentemente stabilito la creazione di tre santuari, proprio a protezione del Platanista. Questi copriranno un’area di poco meno di 11 chilometri quadrati, per un’estensione di canali di oltre 30 chilometri. Nell’area dei santuari, altri rischi a cui sono sottoposti i Platanista sono le catture accidentali in piccole reti artigianali a maglia finissima, utilizzate per pescare gli avannotti (neonati di pesci), da usare come alimento negli allevamenti di gamberi e anche la crescita del livello del mare che porta acqua salata dentro ai fiumi, riducendo la corrente dei fiumi stessi.
Per le azioni di tutela, fondamentale sarà la collaborazione con le comunità locali. I santuari sono visti infatti come laboratori dove sperimentare pratiche gestionali che bilancino la conservazione della natura, con la crescente domanda di risorse di una popolazione in continua crescita. Un compito non facilissimo.

Marco Affronte

 

Uomo e cambiamenti climatici: una storia antica

Zaire, Congo

Difficile credere che ci sia ancora qualcuno che non ritiene l’uomo responsabile di importanti cambiamenti climatici. E comunque, l’oggetto della discussione sono i grandi e soprattutto veloci cambiamenti che derivano dall’aumento dell’effetto serra, causato a sua volta dall’immissione in atmosfera di (principalmente) anidride carbonica, prodotta dalla combustione degli idrocarburi. Insomma, dall’avvento dell’era industriale, in poi.
Ma sappiamo che le concentrazioni di CO2 in atmosfera possono essere variate anche in altri modi, ad esempio eliminando i “consumatori” di questo gas, prime fra tutte le piante. Ricordiamo che la deforestazione è la seconda grande fonte di gas serra, di cui è responsabile l’uomo. Ecco che allora è possibile pensare a profonde modificazioni dell’ambiente, e conseguenti cambiamenti climatici, anche in un contesto molto più antico dell’avvento delle industrie.

Ed è proprio quello che alcuni ricercatori, in un articolo sulla rivista Science, raccontano. In questo caso non si sta parlando di una rivoluzione industriale, ma invece di quella agricola, e non certo in tempi recenti, ma circa 3.500 anni fa. I ricercatori dell’Unità di Ricerca di geoscienze marine dell’IFREMER (istituto di ricerca francese per la valorizzazione del mare) hanno studiato i sedimenti del fiume Congo, il più profondo del mondo.

Il Congo attraversa la seconda più grande foresta pluviale del mondo, ma anche vaste aree di savana. Questa savana, si è sempre pensato, si è formata a causa di un cambiamento del clima, da caldo e umido, a uno più secco e relativamente freddo. Ma nei vecchissimi sedimenti del grande fiume, c’è scritta anche un’altra storia. Gli strati di circa 3.500 anni fa sono infatti stranamente ricchi di fango. Niente lascia pensare a un periodo di piogge particolarmente intense, dunque questo sedimento fangoso può essere il risultato di un maggiore dilavamento del terreno, come avviene in caso di aree spogliate degli alberi.

zaire-congo
Zaire, Repubblica Democratica del Congo

E l’ipotesi è proprio questa. In quel periodo si insediarono nell’area diversi gruppi di popolazioni Bantu. Questi erano essenzialmente agricoltori, e coltivavano principalmente palme da olio, miglio africano e patate dolci, tutte colture che necessitano di molto sole. Da qui il conseguente disboscamento. Gli alberi tagliati servivano poi per alimentare il fuoco o farne carbone.

E’ possibile che un cambiamento verso un clima più secco fosse comunque già avvenuto e che dunque la deforestazione si andò ad aggiungere al clima mutato, per trasformare un’area, prima boschiva, in savana. Ma a questo punto, la diminuzione delle foreste spinse ancora di più verso un clima più secco, in una sorta di circolo vizioso.
Gli studiosi dunque affermano che l’impatto sull’ambiente delle foreste pluviali del centro Africa, a causa delle popolazioni umane, era già significativo a quell’epoca.

Non deve “scandalizzare” che l’uomo abbia modificato profondamente l’ambiente già qualche millennio prima dell’era industriale. Tutte le specie animali portano, seppure a diversi livelli, modifiche dell’ambiente in cui vivono: consumo del territorio, utilizzo delle risorse, predazione, e si potrebbe andare avanti ancora. Ma le stesse capacità (intelligenza, inventiva, trasmissione delle conoscenze acquisite) che rendono l’uomo così abile a occupare e dunque incidere su nuovi ambienti, dovrebbero anche renderlo in grado di farlo in maniera sostenibile, soprattutto oggi, che alle conoscenze necessarie si affianca un notevole sviluppo tecnologico.

savana

Strana, bella e pericolosa: la caravella portoghese

Caravella Portoghese
Caravella portoghese.

Il nome Sifonofori potrebbe essere sconosciuto ai più. Si tratta di un ordine di organismi marini, che appartengono al phylum degli Cnidari. Questi contengono specie molto più conosciute come per esempio i coralli, le meduse e gli anemoni. I Sifonofori invece sono un ordine a parte, appunto, ed è costituito da organismi molto particolari, che qualcuno definisce come super-individui. In effetti nei Sifonofori si hanno colonie di individui che si sviluppano in maniera molto differente e specializzata, in modo da costituire, tutti insieme, proprio un super organismo. Insomma, sembra un unico animale, ma invece è una colonia di diversi animali, specializzati nelle varie funzioni. Ma lo capiremo meglio proprio parlando del protagonista di questo articolo: la caravella portoghese (Physalia physalis).

Molti la confondono con una medusa, ma non lo è. Questo animale-colonia è formato da individui di quattro tipi diversi. Alcuni, i dattilozoidi, si sviluppano in lunghezza e formano tentacoli che raggiungono anche i 50 metri di lunghezza (normalmente sono sui 10 metri). Altri, chiamati gastrozoidi, si modificano a formare l’apparato di cattura e digestione del cibo. Poi ci sono i gonozoidi, cioè gli organi riproduttori (che sono singoli individui anche questi) e infine lo pneumatoforo che forma una sacca che può essere riempita di gas e che quindi permette alla colonia di galleggiare. Questo “organo” è trasparente ma anche colorato di blu, rosa o violetto.

In genere la caravella portoghese naviga in superficie, con lo pneumatoforo che emerge dall’acqua e che funge da vela, sospinto dal vento. Sotto, i lunghissimi tentacoli, estremamente velenosi e contrattili, catturano, nel loro movimento, piccoli pesci, crostacei e animali planctonici.

La sacca galleggiante piena di gas deve restare sempre umida, quindi spesso viene sgonfiata, in modo da potere sprofondare nell’acqua, per poi rigonfiarsi e risalire. In questo modo la caravella vive tutta la sua vita, di un anno o poco più,caravella portoghese trasportata da venti e correnti. A volte finisce a riva, dove rappresenta un grosso problema. Infatti, anche dopo la morte i suoi tentacoli mantengono per lungo tempo le proprietà velenose. Toccare l’animale, magari per curiosità, diventa dunque un pericolo. Nei tentacoli ci sono tossine che possono causare nell’uomo fortissimi dolori e anche l’arresto cardiaco. Casi di morte dovuti a contatto con la caravella portoghese sono infatti rari, ma noti. Ogni anno, circa 10.000 persone, in Australia, vengono colpite dalla Physalia physalis, e dalla più piccola Physalia utriculus. In genere il dolore si attenua e scompare dopo circa un’ora, ma se le tossine raggiungono i linfonodi le conseguenze sono più severe.

I predatori della caravella, come per esempio la tartaruga comune (Caretta caretta), hanno la pelle troppo spessa per temerne le punture. Un tipo particolare di polpo, il Tremoctopus violaceus, è noto invece per essere immune al veleno; non solo, a volte strappa i tentacoli alla caravella e se serve come difesa.

Questa specie si trova nei mari tropicali e sub-tropicali di tutto il mondo, ma può capitare di avere ritrovamenti di molti individui anche su coste molto più fredde (Inghilterra, Irlanda…). E’ stata avvistata anche in Mediterraneo, al largo della Spagna, della Corsica e nel 2010 anche a Malta.

Marco Affronte

Macchie solari e spiaggiamenti di Cetacei: c’è un legame?

E’ noto, e anche ben dimostrato, come certi uccelli migratori utilizzano il campo magnetico terrestre, per orientarsi durante, appunto, le loro migrazioni. Nel sistema visivo di alcune specie sono state trovate cellule sensibili ai campi magnetici. E’ stato ipotizzato che altri animali possano utilizzare una certa sensibilità magnetica per “navigare” e orientarsi, ad esempio gli squali, e questo è verosimilmente vero anche per i Cetacei. Nella testa dei delfini comuni (Delphinus delphis) del Pacifico, in effetti, è stata travata una certa quantità di magnetite, la quale può dunque essere responsabile della “lettura” del campo magnetico, da parte di questi animali.
Sulla base di queste considerazioni, molto spesso si sono indicate le, magari ampie e improvvise, variazioni del campo magnetico terrestre, come causa di spiaggiamenti di Cetacei. Dal momento che il campo magnetico può essere disturbato in maniera molto profonda dalla diversa intensità delle macchie solari, ecco che due ricercatori dell’università di Kiel, in Germania, sono andati a cercare la correlazione fra i cicli delle macchie solari e gli spiaggiamenti di capodogli nel Mare del Nord.

Le macchie solari subiscono fluttuazioni periodiche nel loro numero e intensità, su cicli che in media durano circa 11 anni. In pratica, mettendo su un grafico, le variazioni di macchie solari, in un periodo di circa 300 anni, cioè dal 1712 da quando si è cominciato a registrarne i valori, si notano appunto picchi positivi (e di conseguenza anche negativi, alternati ai primi) ogni 11 anni, in media.
Ma, come detto, 11 anni sono appunto una media. Questi cicli possono in effetti durare da un minimo di 8 anni a un massimo di 17. Durante i periodi più brevi (8-10 anni) l’energia irradiata dal Sole è più intensa. E più energia arriva dal Sole, maggiori possono essere la variazioni del campo magnetico (sotto forma di tempeste geomagnetiche).
Ecco allora che i due ricercatori hanno messo a confronto, su tale periodo di 300 anni, la durata dei cicli di macchie solari, con il numero di spiaggiamenti di capodogli, nel Mare del Nord. E il confronto grafico fra la curva delle durate dei cicli solari, e quella degli spiaggiamenti, mostra correlazioni davvero interessanti, diremmo sorprendenti.
Ad esempio, nel periodo che va dal 1785 al 1913 si sono avuti cicli solari lunghi, di durata superiore agli 11 anni, ed ecco che nello stesso intervallo di tempo, abbiamo pochissimi spiaggiamenti di capodogli.
Invece, in corrispondenza di periodi di cicli solari brevi, il numero di spiaggiamenti è notevolmente alto. Addirittura, il 90% degli spiaggiamenti di capodogli nel Mare del Nord, avviene durante periodi di cicli solari brevi, e solo il restante 10%, in altri momenti.

Questi dati mostrano veramente una possibile correlazione fra periodi di cicli solari brevi e spiaggiamenti di capodogli, anche se statisticamente non vengono fugati tutti i dubbi, dal momento che, nei circa 300 anni considerati, i cicli solari sono stati in tutto 27, un numero ancora troppo basso per potere avere maggiori certezze statistiche.

Come al solito, maggiori studi sono necessari, ma è evidente come il lavoro dei due ricercatori apra la strada a importanti evidenze di quanto possano essere correlati fenomeni biologici e processi astronomici.

A questo proposito, una forte tempesta solare, la più forte dal 2005 ad oggi, ha “colpito” la Terra proprio in questi giorni, e praticamente in contemporanea ecco che si registra un gran numero di spiaggiamenti, basti pensare solo agli 86 delfini a Cape Cod.

Marco Affronte

I cicli di macchie solari negli ultimi 300 anni