Coccinelle italiane in trincea

Le coccinelle asiatiche pongono a rischio le specie autoctone.

Immaginate per un momento di avere un ritaglio di tempo libero e di avere voglia di osservare da vicino una bella foglia verde, magari nella pagina inferiore. Probabilmente potreste osservare piccoli esseri globulari, raggruppati lungo la nervatura, dotati di antenne e di un paio di sifoni sulla parte posteriore: sono afidi che suggono la linfa grazie ad appuntiti stiletti boccali. Ma se osserviamo meglio potremmo scoprire nei paraggi anche una sorta di enorme scuro alligatore a sei zampe che si avvicina rapidamente… di che si tratta?

Larva di coccinellide.
Larva di coccinellide.

Avete presente quegli adorabili piccoli insetti rossi puntinati, allegri e portafortuna… esatto le coccinelle… siete davanti ad una larva di coccinella. Le larve, dal corpo lungo e segmentato, sono feroci predatrici di parassiti dei vegetali come afidi e cocciniglie. Lo sviluppo parte da piccole uova gialle deposte dalle femmine in gruppi, nei pressi delle colonie di afidi, alle larve basta predarne almeno 50/60 al giorno; poi si arriva all’insetto adulto passando per la pupa (uno stadio di metamorfosi profonda). E’ stato scoperto che le coccinelle depongono sia uova fertili che non fertili e questo per fornire una fonte di cibo per le larve che nasceranno dalle uova feconde, la loro proporzione varia in base alle disponibilità alimentari dell’ambiente.

Coccinellide autoctono.
Coccinellide autoctono.

Gli adulti di coccinella (ne esistono oltre seimila specie) hanno le elitre (cioè il primo paio di ali sclerificate a protezione del secondo paio, osservatele bene al decollo…) vistosissime e di colori brillanti (rosso, giallo con varie gradazioni) e spesso puntinate (provate a rintracciare una Coccinella septempunctata…dovreste contarne sette). Questa loro vistosità è un metodo difensivo che avvisa eventuali predatori della loro tossicità, il veleno viene emesso dalle articolazioni delle zampe. Se premete leggermente e con delicatezza una coccinella posatasi sulla punta del vostro dito noterete un’emissione color arancione, non temete la quantità è tale da non preoccupare, ma dopo liberate subito la vostra indispettita coccinella.

Le coccinelle adulte possono adunarsi in gruppi numerosi negli anfratti o in luoghi protetti dalle correnti d’aria per condividere il calore corporeo, gli insetti infatti, si inattivano a temperature relativamente basse o per meglio dire sono eterotermi ovvero non hanno una temperatura corporea stabile (come per gli umani nei quali le reazioni chimiche metaboliche avvengono alla stessa velocità ma con un dispendio energetico notevole). Il vantaggio degli eterotermi è che il loro metabolismo si adatta alla riduzione della temperatura rallentando e quindi consumando davvero poco ma non è tutto, questo espediente permette di sopravvivere anche con ridotte dimensioni quali quelle degli insetti.

Altro aspetto sconosciuto ai più è che questi adorabili amici possono diventare, se l’ambiente diviene povero di risorse, freddi cannibali seriali non risparmiando uova, larve e pupe della loro stessa specie. La nostra simpatica amica allo stadio larvale è utilizzata nella lotta biologica agli afidi sulle piante ornamentali, da frutto e orticole, evitando i trattamenti antiparassitari, e fornendoci così un prodotto per una tavola davvero biologica.

Ma veniamo alla guerra in corso di cui citavo nel titolo, le coccinelle nostrane sono state invase dalle coccinelle asiatiche. Questi coleotteri “esotici” hanno dimensioni maggiori (sono stati rintracciati esemplari di un centimetro), e in genere hanno punteggiature diverse, evanescenti o assenti sulle elitre.

Teca entomologica di coccinellidi asiatici.
Teca entomologica di coccinellidi asiatici.

Le loro caratteristiche di alta adattabilità, resistenza e di notevole longevità le rendono temibili avversari. La loro estrema prolificità getta nell’ambiente un numero superiore di concorrenti alle risorse rispetto alle coccinelle di casa nostra; altro vantaggio è anche la mancanza dei parassiti specifici che modulano le popolazioni delle coccinelle nostrane. I coleotteri asiatici hanno anche una notevole capacità nel colonizzare gli ambienti domestici, dando luogo a vere e proprie infestazioni.

Colonia su infissi.
Colonia su infissi.

Con ogni probabilità queste coccinelle sono state introdotte nel nostro territorio nell’ambito della lotta biologica agli afidi, in quanto appunto, più voraci e mobili delle nostrane, ma sono divenute, sfuggendo da serre e frutteti, un serio problema ambientale.

Appunto la voracità e l’ampio spettro delle vittime (afidi, acari, cocciniglie, larve di svariati insetti, uova e bruchi nonché le stesse coccinelle autoctone) rende questi coleotteri “alieni” una vera minaccia anche per altre specie utili; minaccia estesa quindi che al momento non pare possibile debellare. Sono in corso studi per la verifica degli agenti patogeni e dei predatori che nei paesi d’origine controllano queste intruse, ma servirà tempo ed eventuali introduzioni potrebbero spostare piatti, nella delicata bilancia dell’ecosistema, che ancora non siamo in grado di valutare correttamente. I tempi saranno lunghi.

Esemplare adulto della specie invasiva.
Esemplare adulto della specie invasiva.

Non possiamo che augurarci che le nostre care coccinelle riescano in qualche modo a difendere la loro nicchia ecologica.

Marco Ferrari
28 gennaio 2014

Nuova ipotesi sulla fine dei dinosauri: l’estinzione potrebbe essere stata causata dagli insetti

Una nuova inedita ipotesi sulla fine dei dinosauri è stata riportata dal divulgatore americano Brian Switek nel suo libro “My beloved Brontosaurus”, una sorta di antologia delle ipotesi sull’estinzione.

Brian-Switek

Secondo S. Flanders, l’entomologo che l’ha proposta, la mancanza di uccelli predatori avrebbe permesso un boom demografico alle farfalle. Le larve, attive defogliatrici, avrebbero quindi vinto la lotta per le risorse vegetali mettendo in crisi la catena alimentare partendo dai dinosauri erbivori fino ai livelli trofici superiori (i carnivori). A rinforzo dell’ipotesi il fatto che in passato anche gli adulti dei lepidotteri erano dotati di un appartato boccale masticatore mentre con il diffondersi dei fiori si dotarono di una spiritromba per il nettare.

La nuova teoria però non sarebbe suffragata da corrette prove paleontologiche di una tale esplosione delle popolazioni di farfalle ed infatti ha lasciato scettica la comunità scientifica. Occorre dire che negli ultimi cento anni le ipotesi sulla scomparsa degli enormi rettili sono state numerose e con ogni probabilità in ognuna c’è un fondo di verità. Si va dalla teoria che indica la causa dell’estinzione nelle modificazioni dello spessore del guscio delle uova ma in questo caso le prove sono limitate ad areali circoscritti, si passa poi per la concorrenza di mammiferi di piccole dimensioni che predavano le uova ma le cui popolazioni non erano abbastanza numerose, sino alla teoria dell’intensificarsi delle eruzioni vulcaniche che avrebbero schermato il cielo coi fumi eruttivi sino a causare il collasso dell’ecosistema. Infine una variazione climatica avrebbe determinato la nascita di dinosauri di un solo sesso, le diverse temperature cambiano le proporzioni dei nati, il caldo favorisce i maschi.

In tutti queste ipotesi ciò che manca è la presentazione di prove adeguate a giustificare un’estinzione di tali proporzioni, fermo restando che ogni affermazione è ed ha evidenze plausibili. La più accreditata, quella dell’asteroide, è al momento la più sostanziata da prove (lo strato di iridio rintracciato e tipico delle meteoriti, le tectiti tipiche degli impatti meteorici e il cratere visibile dallo spazio, oltre all’estinzione massiva di molte altre forme di vita oltre ai dinosauri) ma con ogni probabilità ci troviamo di fronte ad un concorso di colpa.

Marco Ferrari
22 gennaio 2014

Ripensare gli zoo: cattività ed immunodepressione

(Foto: Maria Grazia Di Marco)
(Foto: Maria Grazia Di Marco)

Zoo è l’abbreviazione di Zoological Society, società inglese fondatrice del primo giardino zoologico britannico istituito a Londra nel 1828 con l’intento di mostrare al pubblico i più disparati animali. Questo modello prese piede in tutto il mondo con scopi didattici e di conservazione delle specie raggiungendo ad oggi il numero di circa diecimila zoo.

Per fornire i giardini zoologici, che oggi ospitano circa un milione di animali, si assistette quindi ad una serie di catture massive di elefanti, tigri, coccodrilli e gorilla, solo per citare alcune specie, in ogni parte del pianeta. E qui iniziarono i guai per gli animali che si videro catturare con le modalità più cruente da cacciatori senza scrupoli, si è stimato che oltre il 50 % degli animali perisca già nella cattura o durante il trasporto, per finire poi in gabbie spesso anguste ed in climi non propriamente adatti.

Molti studiosi hanno verificato come un ambiente inadatto possa generare sofferenze evidenti negli animali osservati. Qualunque essere quando viene inserito in un ambiente che non gli è congeniale per l’espressione dei suoi comportamenti tipici subisce un danno psicologico che poi diventa fisico. Lo stress della nuova sgradita condizione genera una cosiddetta “Sindrome generale di adattamento” che venne ampliamente documentata dal medico austriaco Hans Selye. Se gli sforzi di adattamento allo stress non sono sufficienti ad arginarlo si instaura uno stato di stress cronico.

Questa condizione comporta pesanti reazioni organiche che, attraverso l’attivazione delle ghiandole surrenali, scatenano la produzione di ormoni tipici delle condizioni stress e che sollecitano cambiamenti fisiologici generali preparanti il corpo per un’attività fisica di lotta o di fuga (fight-or-flight response). Alcuni effetti tipici sono l’aumento del battito cardiaco, della pressione arteriosa, dei livelli di glucosio nel sangue e una reazione generale del sistema nervoso che comporta il blocco delle funzioni digestive e intestinali.

Anche a occhio nudo è facile verificare gli animali stressati, che a volte appaiono innaturalmente fermi o dondolanti in atteggiamenti che ricordano i bambini autistici, a volte appaiono vistosamente nervosi con sguardi aggressivi oppure li vediamo percorrenti incessantemente avanti e indietro il perimetro o un lato della gabbia. Altre volte si osserva davvero la rassegnazione per la loro innaturale condizione addirittura nello sguardo.

Nell’insieme queste alterazioni mantenute nel tempo hanno ricadute negative sullo stato di salute, con insorgenza di malattie per la depressione delle difese immunitarie.

E’ venuto il tempo di ripensare gli zoo sia per la loro funzione didattica, che appare fuorviante dei reali comportamenti etologici naturali delle diverse forme di vita, sia del serbatoio genetico che gli zoo vorrebbero rappresentare in quanto gli animali detenuti in cattività sono in numero troppo esiguo per rappresentare la biodiversità. Va tenuto anche conto che nel caso di reintroduzione in natura gli animali degli zoo sarebbero incapaci di adattarsi al vero ambiente naturale in quanto privi delle opportune conoscenze per sopravvivere. Anche il lato economico è da valutare, infatti, da un’inchiesta sugli zoo delle associazioni WSPA e BFF, la spesa media per un Rinoceronte nero in zoo è di $ 16,800 per un anno mentre nel suo habitat è di circa $ 1,000; quindi si potrebbero tutelare in natura ben sedici rinoceronti neri.

Un’idea per lo zoo del futuro passa attraverso le nuove tecnologie che permettono di seguire, mappare, filmare e rintracciare gli animali nel loro habitat nel pieno rispetto delle abitudini, delle cure parentali, del comportamento riproduttivo, alimentare e sociale.

In pratica si tratta di trasformare gli attuali zoo in moderni centri multimediali dai quali osservare gli animali liberi in natura.

Marco Ferrari
27 dicembre 2013

Individui alfa: il gene del dominio individuato nell’uomo

scim

Se siete stati allo zoo avrete notato che nella gabbia degli scimpanzé ce n’è sempre uno che ha le femmine e le banane migliori… è il capo. E se qualcuno lo mette in discussione è subito lotta, il tutto spesso finisce con la resa del malcapitato; si è ristabilita la gerarchia di dominanza.

Nei gruppi sociali gli individui col rango più prestigioso sono detti “alfa” ovvero leader.

In natura, ad esempio nei branchi di lupi, il dominio si esplica in una gerarchia tra gli individui di uno stesso gruppo spesso regolata sia dalla forza fisica e dal carattere mai arrendevole, che da una certa propensione alla guida del branco nella caccia e nella ricerca di nuovi territori; i conspecifici del gruppo si limitano ad essere gregari o sottomessi o ad attendere l’occasione per sfidare il capobranco. La perdita di dominio può essere determinata da malattie o da sfidanti più forti e giovani, i leaders spodestati abbandonano il branco e spesso muoiono in solitudine.

Che per comandare servisse un carattere innato lo avevamo sempre immaginato ma ora abbiamo la conferma, è stato rintracciato un gene molto frequente nei capi. Una ricerca presso lo University College di Londra ha individuato nell’uomo una specifica sequenza di DNA associata a posizioni di prestigio. Il gene è stato chiamato rs4950, ed è stato rintracciato anche in linee genealogiche di famiglie con posizioni importanti indicandone quindi una certa ereditarietà.

Il gene rappresenterebbe quindi una predisposizione a ruoli di potere ma ovviamente, come sempre in questi ambiti, occorre anche tenere presente l’influenza dell’ambiente. Nell’uomo e quindi nelle società complesse serve una concorrenza di fattori naturali e ambientali e pertanto personalità aggressive e tenaci determinate dalla genetica dovranno essere esercitate in un ambiente favorevole, ecco la formula della “stoffa del capo”.

Marco Ferrari
22 dicembre 2013

“Breve storia di (quasi) tutto” Bill Bryson, Ed Tea

“Breve storia di (quasi) tutto” Bill Bryson, Ed Tea
“Breve storia di (quasi) tutto” Bill Bryson, Ed Tea

Questo è un libro scritto da un curioso per i curiosi. E le domande sul mondo che ci circonda di certo non mancano. Su che strano pianeta camminiamo? E chi lo abita? E che storia ci racconta? Un affascinante viaggio nel mondo della scienza che parte dal centro della terra sino allo spazio profondo passando dall’evoluzione alle, a volte bizzarre, vite degli studiosi che sul bisogno di scoprire hanno speso la loro esistenza.

Scrive Bryson: “Mentre ero in volo sul Pacifico e guardavo pigramente dal finestrino l’oceano illuminato dalla luna, mi si presentò alla mente, con una forza piuttosto inquietante, la consapevolezza di non sapere nulla dell’unico pianeta sul quale mi sarebbe mai capitato di vivere.” 

Con ironia e simpatia Bryson ci conduce verso quella meravigliosa coscienza di appartenere ad un universo unico che, se osservato ritagliandoci un momento dal nostro frenetico vivere, ha sempre la capacità di stupirci e di regalarci uno dei motivi per cui la vita va vissuta: il piacere della conoscenza.

Marco Ferrari
21 dicembre 2013

Bachi da seta e ustioni: ingegneria genetica per la ricostruzione tissutale

bachi

Nelle emergenze mediche causate da ustioni cutanee la mortalità progredisce con l’estensione del danno ai tessuti, cioè si rischia di perdere il paziente per via della forte disidratazione e delle frequenti infezioni che sopraggiungono a causa dell’esposizione dei tessuti danneggiati.

La moderna medicina prevede che i tessuti fortemente ustionati siano rimpiazzati con innesti cutanei prelevati dal paziente stesso, ma se le dimensioni delle ustioni sono notevoli diventa complesso reperire tessuti sani per effettuare gli interventi. In alternativa viene utilizzato il collagene di origine bovina che però può dare fenomeni di rigetto.

Un aiuto inaspettato arriva dai bachi da seta che, opportunamente ingegnerizzati con materiale genetico umano, sono in grado di produrre una sorta di “pelle artificiale” adatta al trapianto.

Ciò è stato reso possibile da studi dell’Università di Hiroshima, in Giappone, dove è stato inserito nel DNA del baco da seta il gene umano del collagene (una proteina costituente la cute umana e utilissima nel recupero delle ustioni), sostituendolo a quello della fibrosina (una delle proteine costituenti la seta).

Nelle foto esemplari adulti e bozzoli di Bombyx mori (baco da seta)  (fonte Wikimedia  commons)
Nelle foto esemplari adulti e bozzoli di Bombyx mori (baco da seta)
(Wikimedia commons).

I bachi da seta hanno una crescita veloce ed economica e tecniche di allevamento affinate nei secoli. Gli insetti ingegnerizzati hanno uno sviluppo analogo a quelli naturali, si attende l’imbozzolatura delle larve, poi si procede al riscaldamento e alla sfilatura, infine con processi chimici si estrae il collagene in ragione di circa il 10% del peso complessivo delle fibre dei bozzoli.

Il collagene viene poi purificato ed essendo il risultato di un innesto con materiale genetico umano la biocompatibilità è molto alta. Questa tecnica promette di portare a soluzione la necessità di autotrapianto di cute e di sicuro sostituirà il collagene di origine bovina oggi utilizzato nell’implantologia e nelle medicazioni. Ulteriori studi sono in corso riguardo ai fattori di coagulazione del sangue umano che potrebbero rappresentare una svolta nella lotta contro la trombosi.

Marco Ferrari
18 dicembre 2013

Qualcosa sul fondo: nuove scoperte in microbiologia

fondo

Paradossalmente abbiamo mappe migliori della luna che dei fondali oceanici del nostro pianeta. E questo perché le grandi profondità sono decisamente complicate da esplorare. La terra è in pratica composta da placche rigide di grande spessore che galleggiano su una massa di roccia fusa. Le placche si urtano generando le montagne e si allontanano formando le fosse tettoniche delle dorsali oceaniche, che sono una sorta di zona di contatto tra le zolle. Lo spessore della dorsali marine nei punti di distacco delle zolle tettoniche può essere anche di soli pochi chilometri e questo mette in contatto diretto l’acqua del mare con il magma del mantello magmatico sottostante in risalita in punti caldi chiamati “hot spot”. Le placche in questi punti non si saldano in quanto in costante moto di allontanamento, i movimenti delle placche sono relativamente lenti per nostra fortuna, mediamente tre centimetri l’anno e questo giustifica il tutto sommato esiguo numero di terremoti e maremoti del nostro pianeta. Altrove le zolle scivolano l’una sotto l’altra in zone dette di subduzione, la zolla sottesa scende lentamente nel magma e fonde, qui si creano le fosse più profonde del pianeta come quella delle Isole Marianne profonda 11.000 metri; in altri punti le zolle si impuntano l’una contro l’altra dando luogo al sollevamento dei lembi e regalandoci cime come l’Everest.

Insomma le dorsali oceaniche non appaiono le zone più favorevoli per la vita considerata l’enorme pressione, la temperatura dell’acqua prossima allo zero, la presenza di magma a 1200 gradi Celsius che fa ribollire le acque sino a oltre 350 gradi.

Intorno agli anni ’70 gli scienziati iniziarono a chiedersi cosa accadesse in queste grandi voragini sommerse e che caratteristiche avesse il basalto che fuoriusciva da queste enormi spaccature dei fondali.

”C’è qualcosa, qualcosa sul fondo…” queste saranno state forse le parole che descrissero lo stupore di due scienziati alla vista di alcune bizzarre creature sul fondale marino, creature mai viste prima. L’oblò del sommergibile scientifico Alvin permetteva di osservare la frattura del fondale marino nei pressi delle Isole Galapagos a oltre 2500 metri di profondità. I due audaci geologi Corliss e Edmond furono i primi a osservare un mondo avvolto dal buio perenne.

Ma non erano gli enormi cuscini di basalto rappresi sul fondo marino che impressionarono i due studiosi bensì quello che attorniava le scintillanti sorgenti d’acqua calda generate dal contatto delle acqua con magma sottostante, intere comunità di creature marine che non petevano esistere a profondità in cui la luce non arriva e in situazioni tanto proibitive.

Frattura oceanica con fumarola.
Frattura oceanica con fumarola.

La frattura delle Galápagos aveva tutte le caratteristiche adatte per una indagine geologica in quanto il sito faceva parte di una fossa tettonica vulcanicamente attiva, ma qui vi era un ecosistema completo alimentato da un’energia diversa da quella del sole. La geologia lasciava il passo alla biologia marina degli abissi.

Con ulteriori missioni fu possibile rintracciare emergenze particolari sulle sorgenti termali a forma di fumaioli con tanto di fumate chiare e scure formati dalla condensazione delle sostanze magmatiche disciolte nell’acqua, che si depositavano per via del salto termico di raffredamento, questi comignoli degli abissi arrivavano anche a 5/6 metri di altezza, poi crollavano sotto il loro peso. La pressione impedisce al vapore di comportarsi come quello della pentola di casa vostra. Anche qui vi erano ecosistemi inattesi.

Ora ogni ecosistema è costituito da un insieme di organismi viventi che interagiscono tra di loro in vari modi tra cui la simbiosi (scambio di benefici reciproci), il tutto in habitat in cui vi sono componenti abiotiche (ovvero minerali e sostanze nutritive che qui abbondano anche se molti metalli pesanti sono tossici) ma sempre e indispensabilmente il tutto funziona partendo da un flusso di energia eper far funzionare i batteri stessi che sono alla base dell’equilibrio dell’ecositema: I batteri riciclano le sostanze nutritive, rimuovono le sostanze inquinanati e altre utilissime attività.

Ma come se la cavano quindi questi piccoli eroi delle profondità sui quali è basato l’intero microecosistema? Se fossimo nel giardino sotto casa i batteri sfrutterebbero l’anidride carbonica atmosferica (CO2), l’acqua e la luce per ottenere zuccheri ma qui hanno escogitato un altro metodo partendo da CO2, H2O, calore e acido solfidrico (H2S) ricavando i tanto agognati zuccheri. I Pyrolobus fumarii questo il loro nome nella classificazione linneana, non sono quindi fotosintetici cioè attivi alla luce del sole ma chemiosintetici e ciò grazie alla forte termostabilità dei loro enzimi metabolici che lavorano egregiamente sino a a 113 gradi Celsius quando, a queste temperature in superficie, le proteine si sono denaturate da un pezzo come succede alle uova al tegamino a ben più basse temperature. Insomma in una ambiente buio pesto, con acqua bollente e acida i batteri sguazzano.

Ma che tipo di batteri sono? Ci spiegano gli scienziati che si tratta di archeobatteri che hanno origini antichissime e somigliano molto ai primi batteri apparsi sul pianeta, sono diversi dagli altri batteri sia per la capacità di vivere in ambienti come questi che per altre prodezze tra cui per la parete cellulare che permette di sopportare lunghe disidratazioni, sono capaci di sopravvivere in ambienti salini, sono insomma batteri pionieri amanti degli ambianti estremi.

Alobatteri resistenti ad alte concentrazioni di sale.
Alobatteri resistenti ad alte concentrazioni di sale.

E cosa dire del resto dell’ecosistema; a breve distanza dalle fumarole grandi vermi tubulari (Riftia pachyptila) coi quali i batteri hanno sviluppato rappoti simbiotici, poi lumache, gamberetti detrivori e bivalvi giganti, gasteropodi, pallidi gamberetti, che camminano sulle superfici ricoperte di batteri e di zolfo, poi specie di vermi tubicoli di dimensioni ridotte e altri tipi di vermi, tra cui i vermi il cui nome ricorda il sommergibile utilizzato per passare di qui e la città romana distrutta da un vulcano (Alvinellapompejana).

Ma le sorprese non erano finite, si scoprì infatti che i vermi tubicoli, erano dotati di un pennacchio di colore rosso che veniva ritratto in caso di pericolo, il rosso faceva pensare al ferro e all’emoglobina ed infatti così era… nei vermi circolava sangue ed erano inoltre farciti di batteri chemiosintetici con reciproci scambi di protezione ed elementi a base di zolfo da parte dei vermi e di zuccheri da parte dei batteri. Sui pennacchi del verme infatti si depositano composti solforati, ossigeno e carbonio, sfruttati dai batteri per sintetizzare.

L’adattabilità dei batteri non si esaurisce alle profondità, per esempio in fondali marini ricchi di metano (un gas derivato della decomposizione di composti organici) vivono batteri di grandi dimensioni, i più grandi che si conoscano.

E se percorriamo la dimensione al contrario troviamo i batteri più piccoli a noi noti. Prendono in nome di “nanobio” in quanto le loro dimensioni si misurano in nanometri (un milionesimo di millimetro), anch’essi rintracciati sui fondali marini.

Il deserto di Atacama, aridissimo, inospitale, con forti depositi di sale ma anche qui un cianobattere sfrutta la rarissima acqua di condensazione notturna e si divide sulle rocce incrostate di sale e nei periodi ancora più siccitosi crea spore ultraresistenti.

Ed ora un incredibile battere resistente alle radiazioni, per un uomo la dose letale è 1 Krad, il nostro Deinococcus radiodurans resiste a 1.500 Krad grazie ad un sistema di riparazione del DNA astutissimo, i processi di replicazione vedono sempre 4/6 copie di DNA in cui solo due si replicano mentre le altre fungono da copia di controllo facilitando il lavoro degli enzimi di riparazione. Perché sia tanto resistente ancora non si sa ma alcuni studiosi suppongono che tale resistenza possa essere maturata nello spazio e che il battere sia poi arrivato sulla terra con le comete, tutto da dimostrare ma niente male come ipotesi cosmica.

E straordinari sono anche i batteri detrivori che sfruttando la neve di sostanze organiche che scendono dalle acque di superficie generando metano che viene inglobato nel ghiaccio che si forma a quelle profondità per via delle basse temperature. Ne derivano degli idrati di metano, insomma neve contenente gas che portata in superficie brucia tranquillamente. Inoltre è stato da poco scoperto un battere magnetotattico ovvero dotato al suo interno di cristalli magnetici sintetizzati dal batterio stesso, molto resta da scoprire ma vi potrebbero essere utili ricadute in medicina.

Le nuove entusiasmanti scoperte della microbiologia pongono in nuova luce il particolare mondo dei batteri, rammentatelo quando penserete ai due chilogrammi di batteri che vivono dentro e fuori il vostro corpo.

Marco Ferrari
13 dicembre 2013