Le prime rocce terrestri hanno 4 miliardi di anni

Con la definizione di Territori del Nord-Ovest viene indicata la vastissima regione del Canada settentrionale che su una superficie di più di 1 milione di Km quadrati ospita una popolazione di poco più di 41.000 abitanti.

Dal punto di vista geografico e climatico è tra le aree più fredde e inospitali della Terra; ma dal punto di vista geologico è una regione molto interessante, perchè è considerata la porzione più antica della crosta terrestre, un brandello della primigenia pellicola che si andava formando nel corso del raffreddamento dell’oceano di lava che avvolgeva la Terra.

L’affioramento più antico delle rocce che costituiscono quest’area è stato stimato di un’età di 4,2 miliardi di anni. Si tratta di una roccia particolare, uno gneiss chiamato dai geologi ‘gneiss di Acasta’, dal nome del vicino fiume, che scorre a 300 chilometri a nord di Yellowknife, la città capoluogo della regione.

Roccia del complesso Acasta Gneiss Credit: University of Alberta
Roccia del complesso Acasta Gneiss Credit: University of Alberta

Gli gneiss sono rocce ricche di quarzo e feldspati, che si formano sotto forti pressioni, quindi a notevole profondità, soprattutto nella zona di convergenza di due placche.

Jesse Reimink, un ricercatore dell’Università di Alberta, che ha studiato per tre anni campioni di queste rocce, riferendosi alla loro formazione e al rapporto con la formazione della crosta, così scrive in uno studio su Nature Geoscience.:

“La tempistica e le modalità di formazione della crosta continentale nel corso della storia della Terra è un argomento controverso”, e prende come esempio l’Islanda quale valido paragone per il modo di formazione dei primi continenti.

I continenti attuali si sono formati durante gli spostamenti delle placche tettoniche, quando una placca si incunea sotto l’altra nel mantello, causando una risalita di magma in superficie, nel processo che va sotto il termine di subduzione.

“Non è chiaro se la tettonica a zolle si verificava anche tra i 2,5 e i 4 miliardi di anni fa oppure se era in gioco qualche altro processo”, afferma Reimink.

Secondo la teoria che va per la maggiore, il primo continente ebbe origine dall’oceano di lava che avvolgeva il pianeta, allorché il magma in risalita dal mantello cominciò a raffreddarsi e a solidificarsi nella crosta primigenia.

L’Islanda si formò quando il magma risalì dalle profondità a livelli superficiali, inglobando rocce vulcaniche già formatesi precedentemente. Per questo, Reimink considera l’Islanda un riferimento teorico sulla formazione della primitiva crosta continentale della Terra.

Esaminando le rocce del complesso di Acasta Gneiss, attribuite – come detto – a circa 4 miliardi di anni fa, è stato possibile osservare i numerosi eventi metamorfici cui sono state sottoposte, senza però riuscire a comprendere appieno la geochimica della formazione.

Fortunatamente, però, alcune rocce, definite dal team di ricerca ‘Idiwhaa’ ossia ‘antiche’ nel dialetto Tlicho locale, sono state meglio conservate e hanno quindi consentito di capire meglio le fasi attraversate e le caratteristiche geochimiche.

Reimink ha trovato che i processi di formazione di queste rocce sono molto simili a quelli dell’Islanda attuale.

“Questa è una prova che un ambiente simile all’Islanda così come la vediamo oggi è stato presente sulla Terra primordiale”, osserva. “Queste rocce sono tra i più antichi campioni di crosta protocontinentale che abbiamo e potrebbero aver contribuito a favorire la formazione della crosta continentale”.

Leonardo Debbia
3 giugno 2014

Dai suoli fossili aumento di carbonio nell’atmosfera

Nei suoli che si sono formati sulla superficie terrestre in migliaia d’anni e che sono rimasti sepolti in profondità nel sottosuolo, coperti da una successioni di terreni, è stata scoperta una abbondante quantità di carbonio, fatto che invita a riconsiderare il ciclo del carbonio e che si rivela anche un’ennesima minaccia per l’ambiente.

La scoperta, riportata sulla rivista Nature Geoscience, è significativa in quanto suggerisce che i terreni profondi, rimasti sepolti per lungo tempo, possono aver immagazzinato carbonio organico che potrebbe, a sua volta, incidere notevolmente sul cambiamento climatico globale, qualora tornasse a contatto con l’atmosfera attraverso processi d’erosione, l’agricoltura, la deforestazione, l’estrazione mineraria e altre attività umane.

BradySoil

“C’è molto carbonio in profondità, dove nessuno ha mai pensato di cercare”, dichiara Erika Marin-Spiotta, docente di Geografia alla University of Wisconsin-Madison (UW-Madison) e autrice principale dello studio relativo. “Finora era stato ipotizzato che nei suoli profondi il carbonio fosse presente in minima proporzione. Ma la maggior parte delle indagini erano state eseguite soltanto nei primi trenta centimetri di suolo. Il nostro studio dimostra ora che la quantità di carbonio nel suolo è stata ampiamente sottovalutata”.

Il suolo esaminato da Marin-Spiotta e dal suo team, noto come “suolo Brady”, si formò tra 15mila e 13500 anni fa, in quella grande regione oggi occupata da Nebraska, Kansas e altre aree delle grandi Pianure.

Questo suolo si trova ad una profondità di sei metri e mezzo sotto la superficie attuale del terreno ed è rimasto sepolto sotto un enorme deposito di polvere portata dal vento, conosciuto come loess, risalente a 10mila anni fa, al momento in cui i grandi ghiacciai che coprivano gran parte del Nord America cominciarono a ritirarsi.

La regione dove si è formato il suolo Brady non era occupata dai ghiacci ma subì un cambiamento radicale allorché il ritiro dei ghiacciai nell’emisfero Nord innescò un brusco cambiamento del clima tra cui la variazione della vegetazione e un insieme di incendi che ha sicuramente contribuito al sequestro di carbonio, quando il suolo rimase rapidamente sepolto sotto il loess.

“La maggior parte del carbonio nel suolo Brady è conseguente ad incendi”, osserva Marin-Spiotta, il cui team ha usato indagini spettroscopiche e analisi isotopiche per analizzare il terreno e la sua chimica. “Pare proprio che ci sia stata una gran quantità di incendi”.

Il team ha rinvenuto nell’antico suolo anche materiale organico proveniente da antiche piante che, grazie alla spessa coltre di loess, non sono state completamente decomposte. Il seppellimento rapido ha consentito di isolare il suolo dai processi biologici che normalmente abbassano i livelli di carbonio nel terreno.

Tali suoli sepolti, secondo Joseph Mason, professore di Geografia alla UW-Madison e co-autore dello studio, non sono però esclusivi delle Grandi Pianure negli Stati Uniti, ma si verificano in tutto il mondo.

Lo studio suggerisce che il carbon fossile organico nei suoli sepolti è molto diffuso e quando si scava o si lavorano i terreni, viene riportato alla luce e può essere reintrodotto nell’ambiente come potenziale contributo al cambiamento climatico per il carbonio che è stato intrappolato per migliaia d’anni in ambienti aridi o semiaridi.

Gli scienziati conoscevano la capacità del suolo di immagazzinare il carbonio e sapevano che il carbonio del suolo può essere immesso nell’atmosfera attraverso la decomposizione microbica.

Il suolo studiato da Marin-Spiotta, Mason e colleghi è molto al di sotto dell’attuale superficie terrestre e praticamente costituisce una sorta di capsula del tempo di un ambiente passato, secondo i ricercatori. Fornisce un’istantanea di una fase di significativo cambiamento climatico, con il ritiro dei ghiacciai ed un mondo che stava riscaldandosi. Probabilmente fu proprio questo a favorire gli incendi della vegetazione.

“Durante la formazione del suolo Brady il mondo si stava riscaldando e le erbe delle praterie si espandevano”, afferma Mason. “Sicuramente, questo fu un effetto del rialzo termico”.

Il ritiro dei ghiacciai poi, lasciandosi dietro terre aride e desolate, favorì la formazione di ampie aree spazzate da venti che portarono in sospensione terra e sabbia fino a depositarsi in immensi accumuli di 50 metri e più di spessore sulle praterie in espansione.

E’ al di sotto di questi depositi di loess, nel Midwest degli USA così come in Cina, che coprono centinaia di chilometri quadrati di sedimenti, che si rischia l’immissione di altro carbonio nell’atmosfera.

Leonardo Debbia
28 maggio 2014

Nelle foreste l’origine della formazione delle nuvole?

Le nuvole giocano un ruolo critico nel clima della Terra. Ma le nuvole sono anche la più grande fonte di incertezza negli attuali modelli climatici, almeno stando a quanto espresso dall’ultimo rapporto dell’IPCC, il Gruppo Intergovernativo sui cambiamenti climatici.

E questa incertezza è dovuta in gran parte alla complessità del processo di formazione delle nuvole.

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Una nuova ricerca di scienziati del programma CLOUD (Cosmic Leaving Outdoor Droplets) presso il CERN, tra cui Neil Donahue, della Carnegie Mellon University o CMU di Pittsburgh, Pennsylvania), getta luce sulle modalità di formazione di nuove particelle, il primo passo, cioè, verso la formazione di una nube, passo che si rivela una componente critica dei modelli climatici.

I risultati dello studio, pubblicati su Science, corrispondono alle osservazioni eseguite direttamente in atmosfera e riprodotte in laboratorio e contribuiscono a rendere più accurati i modelli di previsione del clima.

Ma descriviamo meglio il processo di formazione di una nuvola.

Le goccioline di cui è costituita una nuvola si formano quando il vapore acqueo dell’atmosfera si condensa su particelle minuscole. Queste particelle possono essere emesse direttamente da fonti naturali o da attività umane o perchè vengono originate da inquinanti gassosi.

La trasformazione di molecole di gas in gruppi e quindi in altre molecole è il processo chiamato ‘nucleazione’ e produce più della metà delle particelle che sono alla base della formazione delle nuvole in ogni parte del mondo.

La nucleazione avviene attorno ad un centro di nucleazione, che è dato da una particella presente in una soluzione satura o sovrassatura; nel caso delle nuvole, il vapore acqueo .

La particella assume quindi il ruolo di protagonista, dato che è da questa che prende l’avvio tutto il processo. Senza particella, niente aggregazione di vapore e quindi niente nube.

Ma se si è capito qual è il punto di partenza del processo, tuttavia i meccanismi alla base della nucleazione rimangono poco chiari.

Quali sono le condizioni per cui una particella diventa un centro di nucleazione?

Anche se gli scienziati hanno osservato che il processo di nucleazione comporta quasi sempre la presenza di acido solforico, le concentrazioni di questo non sono sempre sufficientemente elevate per poter spiegare il tasso di formazione delle particelle nell’atmosfera terrestre.

Questo nuovo studio rivela la necessità di un secondo fattore, essenziale per questo fenomeno, la presenza, nell’aria, di composti altamente ossidati.

“Le nostre misurazioni si collegano direttamente alle sostanze organiche ossidate, alla formazione delle particelle e alla loro crescita”, spiega Neil Donahue, docente di chimica, ingegnere chimico e direttore dell’Istituto Steinbrenner per l’Educazione Ambientale e la Ricerca presso la CMU. “Fino ad un anno fa non avevamo idea di questo processo chimico. Esiste un intero ramo dell’ossidazione che dobbiamo ancora comprendere appieno”.

L’aria che respiriamo è piena zeppa di composti organici, liquidi o particelle solide che provengono da centinaia di fonti, tra cui alberi, vulcani, auto, fuoco di legna, scarichi domestici e industriali.

Una volta entrati nell’atmosfera, questi cosiddetti ‘organici’, però, iniziano a cambiare.

Nella ricerca pubblicata negli Atti della National Academy of Sciences, Donahue e colleghi hanno dimostrato in modo esaustivo che le molecole organiche emesse da alberi di pino, chiamate alfa-pinene, poste in un ambiente fortemente ossidante, si trasformano chimicamente più volte.

Durante la ricerca in laboratorio è stato osservato che queste sostanze organiche ossidate prendono parte alla nucleazione, sia come particelle neo-formate che come prodotti in crescita.

Donahue ha voluto testare questo fenomeno insieme ad un team internazionale di ricercatori del CERN mediante l’esperimento CLOUD.

Il progetto CLOUD al CERN è una procedura unica che consente agli scienziati di riprodurre all’interno di una camera in acciaio inox, privo di contaminanti, un ambiente-tipo.

Eseguendo la sperimentazione in ambiente controllato, si può modificare la concentrazione delle sostanze chimiche coinvolte e quindi misurare accuratamente la velocità con cui vengono riprodotte le particelle.

Nella camera di ossidazione è stato introdotto biossido di zolfo e pinanediol (un prodotto derivato dall’ossidazione delle alfa-pinene) e poi radicali ossidrili, l’ossidante dominante nell’atmosfera terrestre.

Usando la spettrometria di massa ad altissima risoluzione è stato possibile seguire il processo di ossidazione, la genesi delle molecole gassose e l’aggregazione delle singole molecole fino a gruppi di 10.

“Si è scoperto che l’acido solforico e questi composti organici si attraggono. Se ne deduce che anche in atmosfera avvenga un simile processo di aggregazione”, ha dichiarato Donahue.

Verificato che gli organici ossidati sono alla base della crescita delle particelle, gli scienziati hanno raccolto i risultati in un modello di formazione delle particelle molto accurato che prevede sia i tassi di nucleazione, sia l’aumento e la diminuzione negli esperimenti eseguiti e poi verificati in natura, in particolare in aree vicine alle foreste.

E proprio in questo test è stato confermato il ruolo fondamentale che le foreste rivestono nella prima fase della formazione delle nuvole, come basi di partenza per l’immissione di particelle di organici nell’atmosfera.

Leonardo Debbia
23 maggio 2014

Scoperto scheletro umano completo dell’americano più antico: una ragazza

I resti scheletrici di un’adolescente femmina del tardo Pleistocene, vissuta probabilmente in un periodo coincidente con l’ultima glaciazione, sono stati scoperti in una caverna subacquea in Messico.

Questa scoperta ha importanti implicazioni per comprendere le origini dei primi abitanti dell’emisfero occidentale e il loro rapporto con i nativi americani contemporanei.

In un articolo pubblicato sulla rivista Science, un team internazionale di ricercatori e speleosub hanno presentato i risultati di una spedizione che ha rinvenuto lo scheletro umano completo della probabile prima americana con il cranio quasi intatto e il DNA conservato.

Le ossa sono stati trovate assieme ad una varietà di resti di animali, ora estinti, a più di 40 metri sotto il livello del mare, in una località chiamata Hoyo Negro, una fossa profonda all’interno del sistema di grotte Sac Actun nella penisola messicana dello Yucatan.

Due ricercatori del team trasportano il cranio rinvenuto nella profonda dolina di Hoyo Negro, nella penisola dello Yucatan, Messico (credit: Paul Nicklen / National Geographic)
Due ricercatori del team trasportano il cranio rinvenuto nella profonda dolina di Hoyo Negro, nella penisola dello Yucatan, Messico (credit: Paul Nicklen / National Geographic)

“Questa scoperta è estremamente significativa”, afferma Pilar Luna, direttrice del National Institute of Antrhropology and History (INAH) e archeologa subacquea. “Non solo getta luce sulle origini dei moderni americani, ma dimostra chiaramente il potenziale paleontologico esistente nella penisola dello Yucatan”.

Si possono, a ragione, trarre alcune conclusioni:

a) Questa è la prima volta che i ricercatori sono stati in grado di abbinare uno scheletro con un cranio americano primitivo (o Paleoamericano) e le caratteristiche del viso con il DNA dei cacciatori-raccoglitori che attraversarono il ponte di Bering – la famosa Beringia – dall’Asia nord-orientale tra i 26mila e i 18mila anni fa, diffondendosi in seguito nel continente americano, qualche secolo dopo i 17mila anni fa.

b) Sulla base di una combinazione della datazione diretta al radiocarbonio con una indiretta che ha usato il metodo uranio-torio, si può considerare uno degli scheletri più antichi rinvenuti nel Nuovo Mondo.

c) E’ indubbiamente lo scheletro più completo, vecchio di 12mila anni, dal momento che include tutte le principali ossa del corpo e presenta cranio e dentatura intatti.

Secondo l’autore principale dello studio, James Chatters di Paleoscienze applicate, “Questa spedizione ha prodotto alcune delle prove più convincenti circa la probabile data di un collegamento tra Paleoamericani, i primi effettivi abitatori del continente americano dopo

l’ultima era glaciale, e i moderni nativi americani. Questo significa che le differenze tra le due popolazioni sono il risultato di un’evoluzione ‘in situ’ piuttosto che migrazioni separate da vecchi luoghi di provenienza distinti”.

I primi abitatori del continente americano giunsero probabilmente dall’Asia Nord-orientale attraverso il ponte di terra emergente dal mare, che univa i due continenti durante l’ultima glaciazione (credit: Julie McMahon)
I primi abitatori del continente americano giunsero probabilmente dall’Asia Nord-orientale attraverso il ponte di terra emergente dal mare, che univa i due continenti durante l’ultima glaciazione (credit: Julie McMahon)

Il team di ricerca ha avuto estreme difficoltà di accesso alla posizione subacquea in cui giaceva lo scheletro, nella parte inferiore dell’Hoyo Negro, in profondità sotto la giungla che copre la parte orientale della penisola dello Yucatan. Le ossa sono comunque state documentate sul luogo dai ricercatori subacquei, archeologi e paleontologi.

Per valutare le condizioni dello scheletro è stato necessario un nuovo approccio, date le difficili condizioni ambientali. Il gruppo ha analizzato lo smalto dei denti mediante il metodo della datazione al radiocarbonio, mentre per i depositi di calcite sulle ossa si è ricorsi al metodo uranio-torio, con il risultato di un’età attribuibile a 12 o 13mila anni fa.

Usando le stesse metodologie sono state determinate le età di un mastodonte di 40mila anni fa e di 26 grandi mammiferi, inclusi tigri dai denti a sciabola e bradipi giganti, che 13mila anni fa in Nord America erano per la maggior parte già estinti.

L’età dello scheletro è stata anche avvalorata da prove legate al livello del mare che in quel periodo era di circa 120 metri inferiore all’attuale.

L’età della donna doveva essere di circa 15-16 anni all’età della morte, stimata in base allo sviluppo dello scheletro e dei denti.

Le analisi del DNA estratto dai denti della giovane sono state affidate a tre diversi laboratori, i cui risultati hanno comunque confermato l’appartenenza ad una linea derivata dall’asiatica e sviluppatasi solo in America.

Leonardo Debbia
18 maggio 2014

Inarrestabile fusione di ghiaccio in Antartide occidentale

Un nuovo studio condotto da ricercatori della NASA e della University of California, Irvine, ha scoperto che una sezione della calotta antartica occidentale è in rapido scioglimento; attualmente sembra essere in uno stato di perdita irreversibile e, al momento, pare non si possa fare niente per arrestare o rallentare la fusione del ghiaccio in mare.

Ghiacciaio Thwaites, Antartide occidentale (credit NASA)
Ghiacciaio Thwaites, Antartide occidentale
(credit NASA)

Lo studio si basa su molte prove, scaturite attraverso 40 anni di osservazione, che indicano che i ghiacciai nel settore del mare di Amundsen, nell’Antartide occidentale, “hanno superato il punto di non ritorno”, secondo il glaciologo Eric Rignot, che segue l’evoluzione del ghiaccio per conto della UC Irvine e del Jet Propulsion Laboratory della NASA di Pasadena.

I risultati dello studio relativo sono stati pubblicati sulla rivista Geophysical Research Letters.

Questi ghiacciai contribuiscono in misura significativa all’innalzamento di livello globale del mare, dato che ogni anno rilasciano nell’oceano una quantità di ghiaccio pari a quasi l’intera calotta della Groenlandia. Questa massa – è stato calcolato – potrebbe alzare il livello globale del mare di 1,2 metri e pare che si stia sciogliendo ad una velocità maggiore del previsto.

Rignot avverte che si dovrebbe valutare attentamente l’entità effettiva di questo innalzamento.

Stanno agendo, infatti, tre fattori concomitanti e determinanti: i cambiamenti nella velocità di deflusso del ghiaccio in mare, la quantità di ghiaccio che galleggia nell’oceano e la pendenza del substrato su cui i ghiacciai scorrono.

Il primo punto è stato esaminato lo scorso mese dal team di Rignot, prendendo a riferimento i dati degli ultimi 40 anni, come detto sopra. Gli altri due punti sono ora in esame e ne diamo di seguito una rapida scorsa.

I ghiacciai arrivano al mare mantenendo integro sia il fronte che i bordi d’attacco alla massa glaciale anche a galla su acque poco profonde, se il ghiaccio è leggero.

I ghiacciai antartici studiati da Rignot si sono però assottigliati talmente tanto che ora stanno galleggiando sull’acqua negli stessi luoghi dove fino a poco tempo prima toccavano il fondale e questo significa che le loro linee di terra si stanno ritirando verso l’interno del continente.

“La linea di terra è sotto centinaia di metri di ghiaccio ed è difficile per un osservatore di superficie che sta sopra la calotta, capire dove arriva la line di transizione”, afferma Rignot. “la giusta posizione può essere vista solo mediante osservazione satellitare”.

Il team ha utilizzato osservazioni radar effettuate tra il 1992 e il 2011 dall’European Earth Remote Sensing (ERS-1 e –2), satelliti in orbita per mappare il ritiro delle linee di terra, che utilizzano la tecnica dell’interferometria con il radar, che permette di misurare ogni spostamento del flusso di ghiaccio con estrema precisione, anche quelli inferiori ad un quarto di pollice.

Ora, i ghiacciai si muovono orizzontalmente mentre scorrono verso valle ma le loro porzioni galleggianti salgono e scendono verticalmente con le maree. Per individuare quindi le linee di terra, gli scienziati debbono tener conto anche della ripercussione di questi moti verticali sulla massa ghiacciata che rifluisce in mare.

Ovviamente, l’accelerazione della velocità di flusso e il ritiro delle linee di terra non solo vanno di pari passo ma si rafforzano a vicenda. Più i ghiaccia scorrono veloci, più si assottigliano e più si allontanano dal substrato roccioso; più la linea di terra arretra, meno resistenza trova il ghiaccio che avanza e più il suo flusso accelera.

La topografia del fondo su cui scorre il ghiacciaio è l’altro elemento chiave. L’inclinazione del fondo diventa sempre più forte man mano che il ghiacciaio si ritira e permette quindi all’acqua di mare, a temperatura più elevata, di venire a contatto con una maggiore quantità di ghiaccio, aumentandone la velocità di fusione.

“Questa fusione sembra inarrestabile”, afferma Rignot. “Il ritiro simultaneo in un settore così ampio suggerisce un innesco comune del fenomeno, come ad esempio un aumento di calore dell’oceano al di sotto delle sezioni galleggianti dei ghiacciai. A questo punto, non si vede come poter arrestare questo evento”.

Leonardo Debbia
13 maggio 2014

I Neanderthal non erano inferiori agli esseri umani moderni

Chi pensa che i Neanderthal fossero soltanto dei bruti stupidi e rozzi commette un grosso errore di valutazione.

L’idea diffusa che i Neanderthal avessero una intelligenza molto limitata e che questa sia stata la causa della loro estinzione non è confortata da alcuna prova scientifica, secondo i ricercatori dell’Università del Colorado Boulder (CU).

I Neanderthal occuparono una vasta porzione dell’Europa tra i 350mila e i 40mila anni fa, prima di cedere il passo agli esseri umani moderni, i Sapiens, ma comunque dopo essersi incontrati e incrociati con questi.

Non esistono testimonianze archeologiche di scontri cruenti, lotte per il territorio o di qualsiasi altra competizione tra queste due specie, mentre se ne sono rinvenute molte relative a incontri pacifici, alla convivenza e alla ibridazione.

Sulla scomparsa dei Neanderthal sono state fatte le ipotesi più disparate e ognuna ha avuto il suo momento di gloria, ma nessuna ha prevalso.

Cranio di Neanderthal (a sinistra) e essere umano moderno (a destra)
Cranio di Neanderthal (a sinistra) e essere umano moderno (a destra)

Si è parlato di una superiorità intellettiva e organizzativa degli esseri umani moderni che, secondo alcuni, avrebbero saputo cacciare meglio, comunicare con primitive forme di linguaggio e mostrare una maggiore adattabilità all’ambiente rispetto ai Neanderthal.

Ma in una vasta rassegna di ricerche, l’archeologa Paola Villa, della CU Boulder e il collega Wil Roebroeks, dell’Univerità di Leiden, Olanda, in uno studio congiunto, affermano che non ci sono prove che i Neanderthal fossero culturalmente meno avanzati degli esseri umani moderni.

I risultati delle loro ricerche sono stati pubblicati sulla rivista Plos ONE.

I due ricercatori confutano una per una tutte le ipotesi avanzate sulla loro mancanza di comunicazione simbolica, sulla minor efficienza nella caccia, sulla modesta efficacia delle loro armi, sulla dieta carnea monotematica e squilibrata che li avrebbe posti in una situazione di svantaggio.

Prove archeologiche di molti siti in Europa dimostrano che i Neanderthal cacciavano in gruppo, sfruttando anche l’aiuto dell’ambiente. Lo provano i siti del Sud-ovest della Francia, dove sono stati trovati centinaia di bisonti uccisi; e i siti delle Isole Canarie, dove resti di mammut e rinoceronti lanosi sono stati rinvenuti in un burrone, sospinti da un gruppo di cacciatori Neanderthal.

Anche riguardo alla dieta, i microfossili, i resti di pesci d’acqua dolce, le radici e le tracce vegetali trovate tra i loro denti mostrano una grande variabilità nutritiva.

Sono stati rinvenuti, inoltre, resti di ocra rossa usati per la pittura dei corpi, a testimonianza di una spiccata simbologia, della pratica di riti culturali e della capacità di provare sentimenti e bisogni spirituali.

Il travisamento delle capacità dei Neanderthal è probabilmente dovuto – afferma Villa – ad un fondamentale ma grossolano errore da parte dei ricercatori: la tendenza a paragonare i Neanderthal del Paleolitico medio, più antichi, con gli esseri umani del Paleolitico superiore.

“ I Neanderthal sono stati paragonati non ai loro coetanei di altri continenti, ma ai loro successori”, sostiene Villa.

Ma se i Neanderthal non erano tecnologicamente e cognitivamente svantaggiati, perché si sono estinti?

La risposta non è semplice, ma probabilmente va ricercata nella genetica.

Un gruppo internazionale di antropologi e genetisti di recente ha sequenziato un tratto di genoma di donna neandertaliana e lo ha confrontato con genoma di Homo sapiens e con genoma Denisoviano, il ‘cugino siberiano’.

Lo studio è stato pubblicato su Nature nel gennaio scorso e mostra che Neanderthal e Denisoviani sono strettamente imparentati, dato che il loro antenato comune si separò dai Sapiens circa 400mila anni fa, mentre Neanderthal e Denisoviani si separarono 300mila anni fa, cioè 100mila anni più tardi.

I risultati più rilevanti riguardano gli incroci tra i diversi gruppi nel tardo Pleistocene.

Pare infatti che una percentuale tra l’1,5 e il 2,1 del genoma umano attuale dei ‘non africani’ possa essere attribuibile ad incroci con i Neanderthal, mentre i Denisoviani avrebbero lasciato traccia del loro DNA (6 per cento) nelle popolazioni degli aborigeni australiani, della Nuova Guinea e di alcune popolazioni dell’Oceania (Homo floresiensis).

Gli attuali studi sui genomi dicono che si sono verificati incroci tra Neanderthal e Sapiens e che i figli maschi potrebbero aver avuto una ridotta fertilità. Gli stessi studi ammettono anche che i Neanderthal vivevano esclusivamente in piccoli gruppi.
Tutti questi fattori potrebbero aver contribuito al declino dei Neanderthal che, alla fine, furono sommersi dal crescente numero di immigrati moderni.

Leonardo Debbia
8 maggio 2014

Tracce lasciate dall’acqua su Marte 200mila anni fa

Una nuova ricerca ha mostrato che, almeno da 200mila anni, su Marte manca l’acqua.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Icarus.

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Riprese di evidenti detriti di flusso messi a confronto: su Marte e, sulla Terra, nelle Isole Svalbard (credit: NASA / JPL / UofA).

“Abbiamo scoperto un cratere molto recente alle medie latitudini meridionali di Marte che mostra prove evidenti che su Marte in un recente passato scorreva dell’acqua”, dice Andreas Johnsson, del Dipartimento di Scienze della Terra presso l’Università di Goteborg.

L’emisfero meridionale di Marte è sede di un cratere che presenta canaloni molto ben delineati e depositi di detriti di flusso. La particolare morfologia di queste formazioni rocciose mostra, senza ombra di dubbio, che sono frutto dell’azione di acqua allo stato liquido, scorsa lungo i pendii in tempi abbastanza recenti; almeno, da un punto di vista geologico.

Quando, infatti, sedimenti rocciosi, deposti su un pendio, si imbevono d’acqua fino alla saturazione, si forma una miscela che diventa troppo pesante per rimanere in equilibrio sul posto e si traduce quindi in un flusso di detriti misti ad acqua che, per gravità, scivola sul fianco del declino come una valanga verso il fondovalle.

Colate detritiche sulla Terra sono spesso motivo di distruzioni materiali e di danni a cose e persone, anche in riferimento all’entità del fenomeno. In Italia – ne sappiamo qualcosa – non passa anno che non si assista a eventi riguardanti smottamenti e frane dovute, troppo spesso, all’incuria o a indagini eseguite con troppa superficialità in zone ad alta densità abitativa.

Ma torniamo su Marte.

Come si diceva, durante una colata detritica, un misto di pietre, ghiaia, argilla e acqua si muove rapidamente lungo un pendio. Quando il sedimento si ferma, il paesaggio mostra le peculiari caratteristiche di una superficie interessata all’evento, come i depositi lobati e gli argini ben delineati e rilevati lungo i canali di deflusso.

Ebbene, queste strutture sono state osservate su Marte da Andreas Johnsson, che si era fatto una buona cultura sull’argomento, avendone osservate di simili alle Isole Svalbard, con l’aiuto di fotografie aeree e campi di studio.

Se oggi queste colate possono essere osservate e studiate, se ne deduce che nel passato l’acqua doveva essere presente nella regione.

“Il nostro lavoro sul campo alle Svalbard ha confermato la nostra interpretazione dei depositi marziani. Ma quello che più ci ha sorpresi è la formazione recente del cratere in cui si sono verificate queste colate”, spiega Johnsson.

Il team di cui faceva parte Johnsson ha determinato l’età del cratere in 200mila anni, un tempo molto posteriore all’ultima era glaciale su Marte, che si ritiene risalga a 400mila anni.

Ma – ci si chiederà – come si fa ad essere certi che il cratere sia così recente?

“I calanchi sono molto comuni su Marte, ma quelli studiati finora erano associati alla recente glaciazione”, spiega Johnnsson. “Il cratere da noi studiato è recente e suggerisce che i processi di colate detritiche siano quindi successive, formatesi in tempi molto recenti”.

Il cratere è situato a medie latitudini dell’emisfero meridionale di Marte, sovrapposto a materiale espulso da un cratere più grande situato nelle vicinanze, materiale che appare disposto come una originale formazione ‘simile a fiori’, una struttura interpretata dagli scienziati come risultato di un impatto su un fondo bagnato o ricco di ghiaccio.

“Il mio primo pensiero è stato che l’acqua che ha formato queste colate detritiche fosse derivata dal ghiaccio conservato all’interno del materiale espulso. Ma, osservando meglio, non si è trovata alcuna struttura, quali faglie o fratture che avrebbero potuto servire da condotti per l’acqua che si sarebbe disciolta. E’ invece probabile che l’acqua sia provenuta da neve, in accordo con condizioni più favorevoli alla formazione di neve in un passato in cui l’asse orbitale di Marte era più inclinato di quanto non sia oggi”, dichiara Johnsson.

Leonardo Debbia
5 aprile 2014