Artico e Antartico, analisi sul 2014

Secondo l’Arctic Report Card, curato dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), nella regione artica, durante il 2014, si è registrato un aumento delle temperature medie quasi doppio rispetto al resto del mondo.

In Alaska, nel corso dell’anno, le temperature invernali hanno raggiunto picchi anche di dieci gradi più elevati della norma.
E’opportuno sottolineare che sulle temperature ha influito molto la situazione meteorologica, caratterizzata dallo spostamento di un vortice di aria polare che, andando a posizionarsi sugli Stati Uniti, ha consentito all’aria calda di rifluire nella regione artica.

Regione polare artica vista dal satellite
Regione polare artica vista dal satellite

Nel mese di settembre è stata osservata la minore estensione di ghiaccio marino dal 1979 a questa parte, cioè da quando si è ricorsi ai satelliti per monitorare la calotta artica.
La minor copertura di ghiaccio ha esposto una porzione maggiore di superficie alla luce del sole. Il suolo, assorbendo più radiazione, si è quindi riscaldato, consentendo una maggiore produzione di anidride carbonica di origine organica.

La mancanza di ghiaccio ha avuto ripercussioni sulla fauna, con la notevole diminuzione degli orsi polari nella Baia di Hudson e nel Mare di Beaufort. Data la stretta associazione tra gli orsi polari, le loro prede e il ghiaccio marino, per la sopravvivenza di questi animali il riscaldamento climatico resta la minaccia più significativa.

Nel continente antartico, al contrario, il ghiaccio ha raggiunto uno spessore maggiore di quanto previsto. E’quanto comunicato da un robot subacqueo, l’Autonomous Underwater Vehicle (AUV), che ha ispezionato i fondali marini antartici in un’area di 500mila metri quadrati, nelle zone costiere dei mari di Weddell, Bellinghausen e Wilkes Land e trasmesso immagini e dati al team internazionale di scienziati inglesi, americani e australiani che hanno condotto la ricerca.

Lo spessore medio, stimato finora ad un metro, sembra sia salito a valori compresi tra 1,4 e 5 metri, con una superficie che per tre quarti appare alquanto deformata, come se le masse di ghiaccio fossero entrate in collisione, originando una calotta più spessa.
Le analisi sono state effettuate in due tempi, nel 2010 e nel 2012, da due spedizioni internazionali formate da studiosi del British Antarctic Survey, dell’Institute of Marine and Antarctic Studies (Australia) e della Woods Hole Oceanographic Institution (USA).

L’Antartide occidentale, nel triennio 2009-2012, ha invece subito una diminuzione media di volume della copertura ghiacciata di circa 125 chilometri cubi all’anno. Lo rivela il satellite della missione GOCE (Gravity field and steady-state Ocean Circulation Explorer), impegnato nella misura delle variazioni della gravità terrestre. Il tasso di fusione della banchisa occidentale è stato confermato anche dal satellite Cryosat dell’ESA, mediante misurazioni altimetriche dallo spazio. E così gli ultimi dati forniti dai vari studi confermano che il ghiaccio antartico si sta sciogliendo con velocità crescente.

L’ESA, l’Ente Spaziale Europeo, ha pubblicato di recente una ricerca su Geophysical Research Letters in cui, basandosi su quasi mezzo milione di misurazioni in Antartide, eseguite da fonti diverse tra il 2010 e il 2013, viene stimata una perdita di circa 160 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno, il doppio di quanto è andato perso tra il 2005 e il 2010. In altri termini, la velocità di fusione è aumentata. Continuando di questo passo, il futuro appare incerto. Qualcuno, ipotizzando che questi trend possano continuare, parla di un possibile innalzamento del livello del mare di 5 metri entro la fine del secolo, con le conseguenze per le coste del mondo intero che si possono facilmente intuire.

L’Antartide vista dal satellite (fonte: Meteoweb, 2015)
L’Antartide vista dal satellite (fonte: Meteoweb, 2015)

Sulle cause di questo riscaldamento, i pareri degli scienziati sono ancora discordi. Fattori astronomici, macchie solari, incremento dei gas serra in atmosfera, circolazione oceanica e alterazioni della circolazione dei venti, eccessiva antropizzazione vengono chiamati in causa, singolarmente o tutti insieme.

Nella comunità scientifica, anche se in minoranza sempre più esigua, c’è addirittura una sparuta rappresentanza di negazionisti, per i quali la questione del ‘global warming’ non esiste.
Sia come sia, che qualcosa nel clima non vada per il verso giusto, sembra assodato. A questo punto ci si aspetterebbe che le grandi potenze ponessero in atto qualche contromisura per contenere gli effetti, se non altro, anche se finora le conferenze sul clima si sono risolte con qualche trattato tra Stati più piccoli, con scadenze molto lontane. I ‘grandi inquinatori’ hanno brillato per la loro assenza.
Ci si augura che i dati forniti dal mondo scientifico inducano i governanti a meditare. Ma soprattutto ad agire, per non dover giungere ad un punto di ‘non ritorno’.

Leonardo Debbia
25 gennaio 2015

Homo floresiensis: non una specie a sé, ma un sapiens affetto dalla sindrome di Down

E’ alquanto recente una notizia destinata a rinfocolare una discussione – peraltro mai chiusa – tra gli antropologi.

L’Homo floresiensis, specie di recente istituzione, non sarebbe da considerare in realtà una specie distinta, ma soltanto un individuo di Homo sapiens che fu affetto dalla sindrome di Down.

A riproporre la disputa è un nuovo studio che il professor Robert Eckhardt ha pubblicato, assieme ad altri colleghi, su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).

Homo floresiensis
Homo floresiensis

Riassumendo brevemente la storia del fossile, nel 2003 uno scavo di resti frammentari nell’isola di Flores, in Indonesia, produsse quello che allora venne definito come ‘il più importante ritrovamento nell’evoluzione umana degli ultimi 100 anni’.

In una grotta a Liang Bua erano venuti alla luce dei resti fossili di ominidi cui venne attribuita un’età tra i 13 e i 18mila anni.

Si trattava di un unico cranio e di altri resti frammentati che furono valutati appartenere ad otto individui. Il cranio – ripetiamo, l’unico rinvenuto allora – era piccolo (380 cc) e l’altezza degli scheletri fu calcolata in poco più di un metro. Quest’ultimo carattere fece assegnare loro il nomignolo informale di hobbit.

Nel 2004 si iniziò a parlare di una nuova posizione tassonomica, a livello specifico, e nacque così Homo floresiensis, suggerendo una specie precedentemente sconosciuta che alcuni ritennero collocare tra H. rudolfensis e H. habilis, altri come successore di H. habilis, sviluppatosi nelle isole indonesiane.

Secondo alcuni studiosi, l’altezza veniva interpretata come il risultato della vita in ambienti ristretti, con risorse alimentari limitate. Vivendo in tali condizioni era giustificata la possibilità che l’evoluzione avesse teso ad una riduzione delle dimensioni (nanismo insulare).

Scavi successivi nello stesso sito di individui di statura ridotta, ma dotati di un cranio normale, indussero Teuku Jacob, paleoantropologo indonesiano dell’Università di Giacarta, a confutare l’appartenenza di questi resti al genere Homo come specie distinta, ma piuttosto a considerare il cranio LB1 (questa la classificazione del reperto) come appartenente ad un individuo affetto da microcefalia.

Oggi, dettagliate analisi, condotte da un team internazionale, tra cui Robert B. Eckhardt, docente di Genetica dello Sviluppo e dell’Evoluzione presso la Penn State, Maciej Henneberg, docente di Anatomia e Patologia presso l’Università di Adelaide e Kenneth J. Hsu, geologo e paleoclimatologo cinese, sono giunti alla conclusione che il singolo esemplare rinvenuto a Flores da cui è discesa tutta la questione, noto anche come LB 1, non rappresenterebbe affatto una nuova specie, ma apparterrebbe ad un individuo evolutivamente anormale, i cui caratteri farebbero pensare piuttosto ad una sindrome di Down.

Innanzitutto, la statura dell’essere è frutto di qualche errore di estrapolazione delle misure del femore.

“Quando abbiamo visto queste ossa, abbiamo immediatamente notato un disturbo dello sviluppo”, afferma Eckhardt. “Se la diagnosi non è stata fatta subito è perché lo scheletro appariva molto frammentato, ma nel corso degli anni varie prove ci hanno fatto confluire sulla diagnosi di sindrome di Down”.

Il primo indicatore è stata una asimmetria craniofacciale, una mancata corrispondenza sinistra-destra del cranio, che è una caratteristica di questo disturbo, caratteristica che il team di scavo mancò al tempo di segnalare, secondo lo studioso.

Una misura inedita della circonferenza occipito-frontale e il femore corto sono poi compatibili con una sindrome di Down in una persona dalla corporatura esile e minuta come gli esseri umani che ancor oggi vivono nella regione.

C’è poi da sottolineare che queste caratteristiche sono presenti in LB1 e non in altri resti rinvenuti nel sito, altra prova dell’anormalità di LB1.

“Gli scheletri rinvenuti a Liang Bua  sono così insoliti da richiedere l’invenzione di una nuova specie?” si chiede polemicamente Eckhardt. E si risponde: “La nostra nuova analisi dimostra che non lo sono. La spiegazione più semplice è che si tratta di un disturbo dello sviluppo e tutti i segnali convergono, secondo noi, verso la sindrome di Down, una sindrome che si verifica in percentuale di un neonato su mille nel mondo”.

Leonardo Debbia

Bibliografia:

Gordon A.D., Nevell L., & Wood B. (2008). The Homo floresiensis cranium (LB1): Size, scaling, and early Homo affinities. Proceedings of the National Academy of Sciences, 105(12), 4650-4655.

Henneberg M., Eckhardt R.B., Chavanaves S., & Hsü K.J. (2014). Evolved developmental homeostasis disturbed in LB1 from Flores, Indonesia, denotes Down syndrome and not diagnostic traits of the invalid species Homo floresiensis. Proceedings of the National Academy of Sciences, 111(33), 11967-11972.

Differenze nei cicli giornalieri dei microrganismi marini

Possiamo immaginare il mare aperto come una megalopoli microbica, brulicante di forme di vita troppo piccole per essere distinte ad occhio nudo. E possiamo anche pensare che in ogni goccia d’acqua potremmo osservare centinaia di tipi diversi di batteri.

Ora gli scienziati hanno ‘aguzzato la vista’ e con i loro potenti microscopi hanno avuto modo di osservare che le comunità di questi microrganismi dell’oceano hanno dei loro propri cicli giornalieri, non dissimili da quelli degli abitanti di una grande città, con ritmi di vita alternantisi tra sonno e veglia, capacità di movimento, lavorare e mangiare pressappoco alla stessa ora.

Scansione al microscopio elettronico di microbi planctonici marini, colorati per contrasto (credit: Università delle Hawaii di Manoa)
Scansione al microscopio elettronico di microbi planctonici marini, colorati per contrasto (credit: Università delle Hawaii di Manoa)

Gli organismi fotoautotrofi, quelli amanti della luce, come i batteri che hanno bisogno di energia solare per essere aiutati nella fotosintesi del cibo elaborato da sostanze inorganiche, mostrano modelli giornalieri di ‘comportamento coordinato’.

Scendono nelle profondità marine durante le ore della notte e risalgono alla superficie durante il giorno, quando necessitano della luce solare per fissare il carbonio.

Nel corso di una ricerca mirata sugli ecosistemi, i ricercatori statunitensi Edward F. DeLong e Elizabeth A.Ottesen hanno scoperto che i comportamenti della maggior parte delle popolazioni marine non è solo governato dall’alternanza luce-buio. Specie differenti presentavano infatti comportamenti coordinati tra i componenti all’interno di una popolazione, ma sfalsati rispetto ad altre popolazioni.

Questi risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science del mese in corso e riferiscono dello studio dei due ricercatori nella stazione di ALOHA, un sito di studio delle profondità dell’oceano e dell’atmosfera, della larghezza di dodici miglia, posto 100 Km a nord dell’isola hawaiana di Oahu.

Lo studio è stato condotto sul campo, preferito al laboratorio, e gli sfasamento sono stati rilevati dalle variazioni dei profili genetici che regolano le attività metaboliche dei microrganismi proprio nel loro ambiente.

Pare una sorta di ‘onda metabolica’ che attraversa l’oceano; o meglio, le popolazioni microbiche dell’oceano.

“Mi piace dire che cantano in armonia”, afferma Edward F. DeLong, che è professore di oceanografia presso l’Università delle Hawaii e a capo del team del Massachusetts Institute of Technology che ha fatto questa scoperta.

“Per ogni specie indicata, le trascrizioni, cioè le informazioni che un gene trasmette per specifiche vie metaboliche, iniziano alla stessa ora ogni giorno, il che suggerisce una sorta di organizzazione temporale a comparti”, dice DeLong, che è stato il primo scienziato ad essere assunto dall’Università sotto gli auspici del progetto ‘Innovazione delle Hawaii’. “E’un nuovo risultato biologicamente e biogeochimicamente rilevante”, assicura.

Le osservazioni sono state rese possibili dalle avanzate tecniche di sequenziamento del RNA nelle comunità microbiche, che consentono di avere profili dell’intero genoma di più specie in una sola volta e frutto di una collaborazione tra il Monterey Bay Aquarium Research Institute e il team di DeLong.

Gli scienziati hanno potuto esaminare diverse specie di batteri mentre esprimevano tipi di geni in diversi, ma coerenti cicli – sveglia, per esempio, tipi di geni necessari per ricostituire poteri di raccolta della luce solare durante la notte, tipi di geni per costruire nuove proteine durante il giorno.

“La regolarità e la tempistica delle singole attività microbiche somiglia alla regolazione delle attività umane: orari di punzonatura negli uffici e spostamenti dei lavoratori, giorno per giorno”, dice DeLong.

La tempistica coordinata dei geni tra le diverse specie di microbi dell’oceano potrebbe avere importanti implicazioni per la trasformazione dell’energia nel mare. I microbi marini sono legati alla salute degli oceani. Ma restano da determinare i meccanismi che regolano questa periodicità.

“Ci sono alcune leggi fondamentali ancora da imparare su come gli organismo interagiscono”, conclude DeLong.

Leonardo Debbia

Origini umane: ambiente e adattabilità evolutiva del genere Homo

Si è pensato a lungo che molti tratti tipici degli esseri umani abbiano avuto origine con la comparsa del genere Homo tra 2,4 e 1,8 milioni di anni fa, in Africa. Sebbene gli scienziati per decenni si siano trovati sostanzialmente d’accordo sui tempi e sui luoghi d’origine di questi caratteri, ora stanno riconsiderando quali siano i veri fattori evolutivi che li hanno guidati.

Finora si era ritenuto che cervello grande, gambe lunghe, abilità nel costruire strumenti e prolungati periodi di crescita intellettiva fossero caratteri che avevano iniziato ad evolversi tutti insieme contemporaneamente, all’inizio della linea evolutiva Homo, quando le praterie africane si erano accresciute e il clima della Terra aveva cominciato a divenire più fresco e più asciutto.

Il nuovo clima e le prove fossili analizzate da un team di ricercatori, tra cui Richard Potts, paleoantropologo della Smithsonian Institution, Susan Antòn, antropologa della New York University e Leslie Aiello, presidente della Fondazione Wenner-Gren per la ricerca antropologica, suggerivano però che in realtà le cose erano andate diversamente.

Crani pre-Homo erectus e Homo erectus presentano caratteristiche diverse, indicando che la precoce diversificazione del genere umano consisteva in pratica in un periodo di sperimentazione morfologica (Credit: Smithsonian Human Origins Program)
Crani pre-Homo erectus e Homo erectus presentano caratteristiche diverse, indicando che la precoce diversificazione del genere umano consisteva in pratica in un periodo di sperimentazione morfologica (Credit: Smithsonian Human Origins Program)

Questi tratti comuni non avevano cominciato a svilupparsi ‘in blocco’ da un dato momento in poi.

Piuttosto, alcuni ingredienti chiave, ritenuti una prerogativa del genere Homo, probabilmente si erano evoluti già nei primi antenati degli Australopitechi, tra i 3 e i 4 milioni di anni fa, mentre altri erano emersi in modo significativo soltanto in seguito.

Il team di ricerca ha usato un approccio innovativo per integrare i dati paleoclimatici, i nuovi rinvenimenti fossili, i resti archeologici e gli studi biologici di una vasta gamma di mammiferi (compreso l’uomo).

La sintesi di tutti questi dati ha indotto i ricercatori a concludere che la capacità dei primi esseri umani di adattarsi a condizioni ambientali mutevoli ha consentito alle prime specie di cambiare, di sopravvivere e di espandersi dall’Africa all’Eurasia all’incirca 1,8 milioni di anni fa.

Potts ha ridipinto un nuovo scenario del clima in cui maturò l’evoluzione umana in Africa orientale per la maggior parte dell’arco temporale che va da 2,5 a 1,5 milioni di anni fa, ritenendolo un periodo di forte instabilità climatica, con alternanze annuali di intense stagioni umide e intense stagioni secche.

Questo quadro, fondato sui cicli astronomici della Terra, fornisce la base per alcuni dei principali risultati dello studio e fa ipotizzare che più specie coesistenti del genere Homo, viventi nelle stesse aree geografiche, abbiano avuto modo di svilupparsi, mutando a seconda del cambiamento del clima.

“Le condizioni climatiche instabili favorirono le radici dell’adattabilità umana dei nostri antenati”, dice Plotts, che è curatore di Antropologia e Direttore dell’ Human Origins Program presso il Museo di Storia Naturale della Smithsonian. “Il racconto dell’evoluzione umana che scaturisce dalle nostre analisi sottolinea l’importanza della capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali nelle prime fasi del successo evolutivo del genere Homo”.

Il team ha esaminato l’insieme delle prove fossili, di indubbio rilievo per capire meglio come si è evoluta tutta l’umanità partendo dal genere Homo.

Ad esempio, cinque crani di circa 1,8 milioni di anni fa trovati nel sito di Dmanisi, nella Repubblica della Georgia, ad est del Mar Nero, mostrano variazione dei tratti tipici osservati in H. erectus, ma differenti per poter essere definiti appartenenti ad altre specie di Homo, conosciute solo in Africa.

E ancora, scheletri scoperti di recente di Australopithecus sediba (1,98 milioni di anni fa) nel sito di Malapa, in Sud Africa, hanno mostrato alcune caratteristiche simili a quelle di Homo, sia nei denti che nelle mani, per cui sono stati proposti come specie di transizione tra l’A. africanus e l’Homo habilis.

Il confronto di questi fossili, tra i tanti, con l’abbondanza di fossili in Africa orientale indica che la prima diversificazione del genere Homo fu un periodo di sperimentazione morfologica.

Non ci pare azzardato, a questo punto, asserire che diverse specie di Homo abbiano vissuto contemporaneamente.

“In generale, possiamo definire una specie a parte basandoci sulle differenze di forma del cranio, in particolare la faccia e la mascella, ma non sulla base delle dimensioni”, dice la dottoressa Antòn. “Le differenze del cranio da noi riscontrate suggeriscono che gli esemplari primitivi di Homo furono selezionati dall’ambiente, forse perché ciascuno utilizzò una diversa strategia di sopravvivenza”.

Tutte le specie del genere Homo presero il sopravvento non solo per le dimensioni del corpo, del cervello e dei denti, ma perché avevano anche cervelli più grandi rispetto ai loro probabili antenati, gli Australopitheci.

Oltre allo studio del clima e dei dati fossili, il team ha anche esaminato le prove fornite dagli antichi strumenti di pietra, analizzato gli isotopi del materiale trovato tra i denti e studiato i graffi sulle ossa degli animali rinvenute in Africa orientale.

“L’insieme di questi dati suggerisce che le specie del genere Homo erano più flessibili nelle loro scelte alimentari rispetto alle altre specie”, dice la professoressa Aiello. “La variabilità della loro dieta, probabilmente comprendente la carne, è stata favorita dall’uso di strumenti in pietra, che permisero ai nostri antenati di attingere ad un’ampia gamma di risorse”.

Il team ha concluso che questa flessibilità ha probabilmente migliorato la capacità dei nostri antenati umani di adattarsi con successo ad ambienti instabili e ad uscire dall’Africa.

Questa flessibilità continua oggi ad essere una caratteristica della biologia umana e favorisce la capacità di occupare habitat diversi ovunque, nel mondo.

Leonardo Debbia
13 luglio 2014

Fusione del ghiaccio in Groenlandia e innalzamento del mare 400mila anni fa

La calotta glaciale che copre la Groenlandia si estende per 1,7 milioni di chilometri quadrati e, avendo uno spessore di due miglia, si può legittimamente supporre che il suo destino sia saldamente collegato al sistema climatico globale.

Negli ultimi 40 anni, la perdita di ghiaccio da questa calotta è aumentata di ben quattro volte e il suo flusso d’acqua contribuisce per un quarto all’innalzamento del livello globale dei mari.

Parte dell’aumento della fusione sulla superficie dello strato di ghiaccio è dovuta ad un riscaldamento dell’ambiente, ma il ruolo degli oceani nella perdita di ghiaccio rimane ancora poco chiaro e difficilmente quantificabile.

Campionatura dei sedimenti portati dal ghiaccio che riempie un fiordo della Groenlandia centro-occidentale (credit: Oregon State University)
Campionatura dei sedimenti portati dal ghiaccio che riempie un fiordo della Groenlandia centro-occidentale (credit: Oregon State University).

Un nuovo studio statunitense sostiene che un periodo di riscaldamento avvenuto oltre 400mila anni fa, alla fine del Pleistocene medio, spinse la calotta glaciale della Groenlandia oltre la sua soglia di stabilità, con una conseguente fusione quasi completa della parte Sud della Groenlandia e l’innalzamento di livello globale dei mari di 4-6 metri.

Lo studio è uno dei primi sulle modalità di risposta della grande calotta glaciale della Groenlandia alle temperature più calde del periodo esaminato, causate – si ritiene – dai cambiamenti dell’orbita terrestre intorno al Sole.

I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

“Il clima, 400mila anni fa, non era molto diverso da quello attuale, o almeno da quello che ci si attende per la fine del secolo” afferma Anders Carlson, docente alla Oregon State University e co-autore dello studio.

Esistono pochi modelli affidabili e pochi dati disponibili per documentare l’entità della perdita della calotta glaciale della Groenlandia durante il periodo noto come ‘stadio isotopico marino 11’. Così è stato infatti definito questo periodo caldo, eccezionalmente lungo, tra le ere glaciali, evidenziato dal rapporto tra gli isotopi O18/O16 dell’ossigeno, che provocò un aumento globale del livello marino di circa 6-13 metri rispetto all’attuale.

Tuttavia gli scienziati non sono certi che la causa di questo innalzamento del livello marino sia attribuibile esclusivamente alla fusione del ghiaccio groenlandese oppure vi abbia contribuito la fusione dei ghiacci antartici o altre cause ancora.

Per trovare una risposta a questi dubbi e stabilire almeno un punto fermo, i ricercatori hanno esaminato campioni di sedimenti raccolti al largo delle coste groenlandesi. Durante anni di ricerche è stato campionato il flusso di sedimenti glaciali dell’isola, scoprendo che diverse parti della Groenlandia hanno caratteristiche chimiche uniche per quei terreni.

Durante la presenza della calotta sulla superficie dell’isola e negli spostamenti del ghiaccio verso il mare, infatti, i sedimenti vengono raschiati via e inglobati nella massa ghiacciata per essere alla fine depositati nell’oceano.

“Ogni roccia ha la sua impronta e la sua storia tettonica, diversa l’una dall’altra” osserva Carlson. “I cambiamenti tra i terreni e le rocce ci permettono di datarli e conoscerne l’origine. I sedimenti si depositano solo se lo strato di ghiaccio è stato abbastanza consistente da poter erodere la roccia o il terreno sottostante. L’assenza di sedimenti nel ghiaccio suggerisce che il terreno è rimasto allo scoperto, senza ghiaccio. Quindi, non solo possiamo dire quanto ghiaccio copriva un determinato luogo, ma l’impronta isotopica, cioè il rapporto tra O18 e O16, può dirci dove il ghiaccio era presente e dove invece mancava, lasciando la roccia esposta”.

L’analisi dei ricercatori dimostra che 400mila anni fa il disgelo della Groenlandia meridionale avrebbe provocato un innalzamento di livello dei mari da 4 a 6 metri.

Altri studiosi propendono addirittura per un dislivello di ben 13 metri!

Nell’articolo su Nature i ricercatori paragonano gli eventi prodotti durante lo stadio isotopico marino 11 con un successivo periodo di riscaldamento, avvenuto 125mila anni fa, che comportò un innalzamento di livello del mare di 5-10 metri.

La loro analisi dei sedimenti in Groenlandia li porta ad affermare che la calotta groenlandese contribuì per non più di 2,5 metri. Secondo Carlson, l’Antartide fece la sua parte, contribuendo con una sostanziale differenza.

Questo studio mette comunque in risalto quanto sia importante in queste stime l’analisi dei sedimenti; e i ricercatori auspicano che analisi simili vengano ripetute in altri siti coevi.

Leonardo Debbia
30 giugno 2014

Il profilo delle coste rivela la nascita dell’Atlantico meridionale

Quando il continente sudamericano si separò dall’Africa, tra i 150 e i 200 milioni di anni fa, prese a formarsi il bacino che con il tempo avrebbe ospitato l’Atlantico Meridionale e che separa oggi le coste del Brasile da quelle dell’Angola.

I margini continentali originatisi da questa separazione sono sorprendentemente simili e altrettanto sorprendentemente diversi.

La somiglianza si riferisce all’andamento di queste coste che nella prima metà dell’Ottocento ispirò a Wegener la teoria della deriva dei continenti, ma questa corrispondenza era già stata notata addirittura già nel 1620 da Bacone, che la descrisse nel suo Novum Organum.

L’idea sviluppata da Wegener era che una frattura formatasi nel blocco continentale originario, la Pangea, si fosse progressivamente allargata, allontanando le zolle continentali in direzioni opposte.

A questa prima similitudine morfologica si accompagnano però diversità geologiche non facilmente interpretabili.

Da qui la sorprendente differenza, sulla cui genesi si iniziarono le discussioni e le deduzioni scientifiche.

Al largo dell’Angola, per 200 chilometri lungo il litorale africano, sono state infatti rilevate porzioni sottili di crosta continentale, mentre il margine omologo brasiliano mostra una brusca transizione tra crosta continentale e crosta oceanica.

Nascita di un oceano. Solo pochi chilometri separano il Sinai e il continente africano, sul lato opposto del canale di Suez. 150 milioni di anni fa l’Atlantico meridionale poteva presentarsi in modo simile (credit: Christian Heine, Università di Sidney).
Nascita di un oceano. Solo pochi chilometri separano il Sinai e il continente africano, sul lato opposto del canale di Suez. 150 milioni di anni fa l’Atlantico meridionale poteva presentarsi in modo simile (credit: Christian Heine, Università di Sidney).

Per decenni i geologi hanno faticato a spiegare non solo perché la distanza e le geometrie dei margini continentali tra l’America del Sud e l’Africa non sono proprio simmetriche, ma anche perché esistano spesso questi ampi margini alla base della crosta continentale, che appare molto assottigliata.

Ora i geologi del Centro di Ricerca Tedesco per le Geoscienze (GFZ), in collaborazione con studiosi delle Università di Sidney e di Londra, hanno trovato una spiegazione che è stata pubblicata qualche giorno fa sulla rivista scientifica Nature Communications.

Utilizzando modelli computerizzati ad alta risoluzione e dati geologici rilevati dalle coste atlantiche meridionali, gli studiosi hanno scoperto che l’asse della spaccatura (o rift), dove la crosta continentale è assottigliata per la presenza di faglie, non rimane fisso e costante lungo la frattura, ma si sposta di continuo lateralmente.

“Potremmo dimostrare che le fratture sono in grado di muoversi lateralmente per centinaia di chilometri”, spiega Sascha Brune del GFZ. “Durante lo spostamento della spaccatura la crosta di una parte è più cedevole, indebolita per la risalita di materiale caldo dal mantello, mentre l’altro lato, probabilmente meno plastico, rimane praticamente inattivo”.

Questo fenomeno porta ad un movimento laterale del sistema di fratture che equivale a convogliare dalla piastra sudamericana alla piastra africana il materiale crustale in risalita.

Il fondo marino si dilata e arriva ad estendersi molto lontano dalla frattura, provvedendo alla formazione delle enigmatiche porzioni di crosta sottile sul margine continentale africano.

La traslazione di una spaccatura di queste proporzioni necessita ovviamente di tempo: durante la formazione degli attuali margini angolano e brasiliano, l’asse della frattura è migrato di 200 chilometri verso ovest.

Si ritiene che l’intero processo di fratturazione continentale e di generazione di crosta oceanica abbia richiesto almeno 20 milioni di anni.

I nuovi modelli elaborati al computer rivelano che la velocità di estensione gioca un ruolo cruciale nella comprensione delle larghezze dei margini del Sud Atlantico.

Una estensione crustale più veloce porta ad una migrazione maggiore e quindi ad una asimmetria più marcata dei margini continentali corrispondenti.

Leonardo Debbia
26 giugno 2014

La Luna formata dalla collisione tra la Terra e un pianeta

L’ipotesi non è nuova. Anzi, tra tutte quelle formulate è la più accettata dagli scienziati, oggi.

Finora però era solo una ipotesi, per l’appunto, non suffragata da prove oggettive.

Ora invece, una nuova misurazione degli isotopi dell’ossigeno offre la prova che la Luna si è formata dalla collisione tra la Terra ed un altro grande corpo celeste, un corpo di dimensioni planetarie, avvenuta all’incirca verso i 4,5 miliardi di anni fa.

Questo studio, che è stato pubblicato su Science, verrà presentato alla conferenza geochimica Goldschmidt in California nei prossimi giorni.

La Luna sarebbe stata generata da una collisione tra la Terra ed un corpo celeste di dimensioni quasi simili, 4,5 miliardi di anni fa (credit: NASA / JPL)
La Luna sarebbe stata generata da una collisione tra la Terra ed un corpo celeste di dimensioni quasi simili, 4,5 miliardi di anni fa (credit: NASA / JPL)

La maggior parte degli scienziati planetari ritiene che la Luna si sia formata a seguito dell’impatto tra la Terra ed un corpo delle dimensioni di un pianeta, cui è stato dato anche un nome, Theia.

Gli sforzi per cercare una conferma a questa ipotesi sono stati concentrati sui rapporti tra gli isotopi dell’ossigeno, del titanio, del silicio e di altri elementi.

E’ noto che questi rapporti variano in tutto il sistema solare, ma la stretta somiglianza tra quelli della Terra e quelli della Luna sembrava essere in disaccordo con i modelli teorici della collisione, che avrebbe dovuto avere come conseguenza una evidente diversità di composizione geochimica.

Ora, un gruppo di ricercatori tedeschi, guidati da Daniel Herwartz, ha utilizzato le tecniche più raffinate per confrontare i rapporti tra gli isotopi dell’ossigeno, O16 e O17, dei campioni lunari con i rapporti degli stessi isotopi sulla Terra.

Inizialmente il team ha analizzato campioni lunari giunti sulla Terra attraverso le meteoriti ma dal momento che queste erano entrate in contatto con acqua terrestre, esisteva la possibilità che avessero una composizione isotopica alterata o quanto meno poco probante.

Erano necessari campioni non contaminati da agenti terrestri e questi sono stati forniti dalle missioni Apollo 11, 12 e 16 della NASA. La loro analisi ha offerto dati più credibili sui rapporti isotopici che si andavano cercando.

Herwartz ha commentato: “Le differenze, in realtà, sono piccole e difficili da individuare, ma ci sono. Questo significa due cose. Innanzitutto, ora possiamo ragionevolmente essere sicuri che la collisione gigantesca c’è stata. In secondo luogo, abbiamo così l’opportunità di verificare la geochimica di Theia. Questo corpo celeste sembra avere avuto una composizione simile a quelle che noi chiamiamo condriti di tipo E”.

Le condriti sono meteoriti rocciose composte di ferro-nichel e risalgono alla formazione del sistema solare. Sono divise in gruppi in relazione alla percentuale di ferro contenuto. Il gruppo E fa parte delle ‘enstatiti’………………

“Se questo corrisponde al vero”, continua Herwartz, “possiamo prevedere la composizione geochimica ed isotopica della Luna, perché il nostro satellite naturale è un insieme di Theia e Terra primordiale. L’obiettivo è ora sapere quanta materia di Theia c’è nella Luna”.

La maggior parte dei modelli stimano che la Luna è composta da circa il 70-90 per cento di materia di Theia, con solo un 10-30 per cento di materia proveniente dalla Terra primordiale.

Alcuni modelli invertono i dati, sostenendo che appena l’8 per cento di materia di Theia sarebbe presente nella Luna.

Herwartz, salomonicamente, ipotizza una sostanziale parità: 50 per cento Terra, 50 per cento Theia. Ma questa ipotesi deve essere confermata da analisi accurate.

Di sicuro, al momento si sa soltanto che la tecnica molto avanzata con cui sono stati misurati i campioni utilizzando gli isotopi stabili mediante la spettrometria di massa, ha mostrato una differenza dei rapporti isotopici O17 / O16 tra Terra e Luna pari a 12 parti per milione, una percentuale che può sembrare piccola ma che fa ammettere che la diversità geochimica tra la Terra e la Luna esiste e che di fatto la collisione gigantesca non può più essere trattata come una semplice ipotesi.

Leonardo Debbia
10 giugno 2014