Il clima e i felini decimarono gli antichi cani del Nord America

Un nuovo studio internazionale pubblicato sulla rivista PNAS afferma che nell’evoluzione della famiglia dei Canidi – comprendente lupi, volpi, coyote – la concorrenza dei felini avrebbe rivestito un ruolo più importante di quello rivestito dal cambiamento climatico.

Il team, composto di scienziati delle Università di Goteborg, Svezia, S. Paolo, Brasile e Losanna, Svizzera, guidato da Daniele Silvestro, biologo evoluzionista del Dipartimento di Scienze Biologiche ed Ambientali presso l’Università di Goteborg, ha analizzato più di 20mila fossili ed ha appurato che i felini provenienti dall’Asia sul continente nordamericano ebbero un impatto micidiale sulla diversità dell’antica famiglia del cane, contribuendo alla estinzione di ben 40 specie di Canidi.

Cranio di un antico canide – credit: Michele Silvestro
Cranio di un antico canide – credit: Michele Silvestro

Non tutti gli scienziati, però, la pensano così. Un gruppo di ricercatori delle Università di Malaga e Bristol e dell’American Museum of Natural History di New York, guidati dal biologo evoluzionista e zoologo Borja Figuierido, sono di parere diverso e in un articolo su Nature Communications affermano che a favorire i felini sarebbe stato il passaggio del clima da secco ad umido con il conseguente ampliarsi degli spazi privi di foreste.

“Solitamente siamo propensi a ritenere che i cambiamenti climatici abbiano svolto un ruolo enorme nella evoluzione della biodiversità”, afferma Silvestro. “Al contrario, per i canidi, la concorrenza tra le diverse specie carnivore – felini in primis – ha mostrato di essere ancora più importante del cambiamento climatico”.

In Nord America, la famiglia del cane ha origine tra i 37 e i 40 milioni di anni fa e raggiunge il massimo della diversità verso i 22mila anni fa, quando più di 30 specie abitavano il continente.

Di questa ampia diversità, oggi solo 9 specie di canidi sopravvivono nel Nord America.

All’inizio, si trattava di animali di piccole dimensioni, poco superiori a quelle di un gatto, ma che aumentarono progressivamente, mentre cresceva la specializzazione di grandi predatori. Alcune razze hanno raggiunto i 30 chilogrammi e sono da considerarsi tra i più grandi carnivori del continente nordamericano.
Il successo evolutivo dei carnivori è legato alla loro capacità di procurarsi il cibo e canidi e  felini avevano metodi di caccia molto simili, all’inizio basati esclusivamente sull’agguato.

Da questo punto in avanti le tesi dei due gruppi di studiosi si dividono.

Per il team di Silvestro la quantità limitata di risorse, ossia di prede, produsse una forte concorrenza tra tutti i carnivori che condividevano la stessa area geografica, e questo giocò a favore delle caratteristiche dei felini.

Figuierido ritiene altresì che la causa prima sia invece da imputarsi alla stretta correlazione che si instaurò tra cambiamenti climatici e mutamenti anatomici nelle specie delle due famiglie.

Con i colleghi, lo studioso ha esaminato fossili di 32 specie di canidi vissuti in Nord America tra 32 e 2 milioni di anni fa, analizzandone le strutture della giuntura scapolo-omerale, del gomito e dei denti e confrontandole con le caratteristiche anatomiche delle specie viventi.

“Dall’anatomia è stato possibile dedurre il movimento degli arti e quindi la loro locomozione”, afferma Janis Tseng, co-autore dello studio.

37 milioni di anni fa, finchè i canidi erano di piccola taglia e il clima permaneva caldo in tutto il Nord America, le foreste coprivano quasi per intero il territorio, ma.quando il clima iniziò a deteriorarsi e conseguentemente diminuirono i boschi, le due famiglie affrontarono il cambiamento con reazioni differenti.

Le grandi praterie prendevano il sopravvento e le strutture articolari dei cani cominciarono a modificarsi, sostiene il team di Figuierido. I predatori dovettero velocizzarsi e i felini lo fecero meglio dei canidi.

7 milioni di anni fa, i ghepardi, tra i felini, e il coyote e le volpi, tra i canidi, si contendevano le prede, cambiando la propria struttura ossea da predatori specializzati in corse brevi a predatori veloci e resistenti sui lunghi percorsi.

E qui, secondo noi, le due tesi tornano a convergere.

I canidi erano più lenti. Solo verso i 2 milioni di anni fa comparve il lupo, con una struttura ossea adatta alle grandi distanze.

Allora, chiederci se la causa della diminuzione dei canidi sia stato il cambiamento climatico o la competitività dei felidi è solo una questione accademica.

Il cambiamento del clima comportò degli adattamenti nei metodi di caccia. Dall’agguato, tipico dei felidi, si dovette passare alla caccia ad inseguimento e l’adattamento delle strutture scheletriche consentì l’insorgenza della competitività.

Hesperocyon e Sunkahetanka, due canidi nordamericani estinti. Credit:(Mauricio Antò)
Hesperocyon e Sunkahetanka, due canidi nordamericani estinti. Credit:(Mauricio Antò)

Se in questa fase i felidi siano stati più idonei, lo dimostra il fatto che le loro specie dilagarono mentre i canidi persero terreno, probabilmente perché meno adatti ai nuovi sistemi di caccia.

In Africa, cani selvatici, iene, leoni e altri felini sono costantemente in competizione tra di loro per il cibo.

Anche i carnivori del Nord America in passato potrebbero aver seguito le stesse dinamiche e gran parte della concorrenza si dovette instaurare tra membri della famiglia dei canidi e tra questi e antichi felidi.

E’ interessante notare che, mentre i felini sembra avessero un impatto fortemente negativo sulla sopravvivenza dei cani antichi, non è vero, invece il contrario. In altre parole, i felini furono probabilmente predatori più efficienti rispetto alla maggior parte delle specie estinte della famiglia del cane.

Leonardo Debbia

Antropocene: inizia con l’Era nucleare?

La storia della Terra è stata suddivisa dai geologi in quattro Ere, a loro volta distinte in periodi.

La durata di queste epoche comprende, ovviamente. milioni di anni e la suddivisione si basa su eventi geologici e paleontologici che hanno interessato tutto il pianeta Terra.

Tralasciando le divergenze del mondo scientifico sulle opportunità di revisione della nomenclatura, ricordiamo solo la decisione della Commissione Internazionale di Stratigrafia del 2009 che ha riconfermato l’Era Quaternaria (o Neozoica) come ultima Era, e Olocene (del tutto recente) come il periodo che stiamo vivendo e che inizia circa 11700 anni fa, con la fine dell’ultima glaciazione.

Tuttavia, è da tempo che si sta cercando di definire e dare dei limiti temporali ad un altro periodo, caratterizzato dalla presenza dell’Uomo, l’Antropocene.

Un gruppo di scienziati ha individuato il 16 luglio 1945 come limite temporale di inizio di questa nuova Era nella storia della Terra.

Secondo questi studiosi, quel giorno sarebbe iniziato l’Antropocene, l’ultimo periodo, che vede come protagonista l’Uomo che interviene sulla Terra.

Gli esseri umani, con il loro impatto sul pianeta, stanno di fatto cambiando l’intero ambiente e quindi anche la geologia, creando nuovi e indicativi strati che sono destinati a persistere in futuro.

La proposta di questo limite per la nuova epoca si deve al chimico dell’atmosfera e premio Nobel Paul Crutzen, che la formulò nel 2000 e che da allora viene accettata sia in campo scientifico che dalla cultura umanistica.

L’esplosione di Trinity 0,016 secondi dopo la detonazione. La palla di fuoco aveva una larghezza di 200 metri (fonte: Wikipedia)
L’esplosione di Trinity 0,016 secondi dopo la detonazione. La palla di fuoco aveva una larghezza di 200 metri (fonte: Wikipedia)

Ma perché proprio questa data?

L’uomo aveva già avuto, nel passato, impatti incisivi sull’ambiente: migliaia di anni fa, con l’agricoltura; quindi, dalla metà del XIX secolo, con la Rivoluzione industriale.

Per gli scienziati, andava però ripreso un punto di svolta decisivo, che indicasse l’Uomo come protagonista e artefice di ‘segni tangibili di cambiamenti epocali’.

Ora, un gruppo internazionale di lavoro, analizzando formalmente l’Antropocene, suggerisce che il punto di svolta fondamentale è avvenuto senza dubbio a metà del XX secolo, con il primo esperimento nucleare, il Trinity Test, la prima esplosione atomica nel New Mexico.

Con l’inizio dell’Era nucleare, in effetti, cambiavano molte cose sul nostro pianeta.

Da quel giorno, non si sono lasciate soltanto tracce della nostra presenza, ma si è cominciato a modificare l’ambiente, il sistema Terra.

Da allora, hanno preso il via, accelerando progressivamente, eventi quali il forte aumento della popolazione, le emissioni di carbonio, le invasioni di nuove specie e le estinzioni di vecchie, movimenti di terre, divisioni e comunicazioni artificiali di mari, la produzione di cemento, plastica e metalli.

A tutto questo si aggiungano gli effetti nucleari nel terreno, con radionuclidi artificiali che sono stati sparsi in tutta la Terra, dai Poli all’equatore, perché rimanesse un segnale rilevabile nei moderni strati, praticamente ovunque.

La proposta, sottoscritta dai 26 membri del gruppo di lavoro, tra cui il dr. Jan Zalasiewicz e il professor Mark Williams, entrambi docenti del Dipartimento di Geologia dell’Università di Leicester, dichiara che l’inizio dell’Antropocene potrebbe essere considerato il giorno in cui avvenne il primo test nucleare nel mondo, il 16 luglio 1945.

L’inizio dell’Era nucleare segna il punto di svolta storico in cui per la prima volta gli esseri umani accedono ad una nuova fonte energetica enorme ed  è anche un livello temporale che può essere efficacemente monitorato all’interno degli strati geologici, consentendo di rilevare una quantità di indizi.

Il dr Zalasiewicz dichiara: “Come ogni limite geologico, anche questo non è un indicatore perfetto, dato che i primi livelli di radiazione globale sono aumentati in realtà nei primi anni  Cinquanta, allorchè sono stati fatti dei test nucleari con le bombe atomiche, ma potrebbe essere il modo ottimale per risolvere le molteplici linee di prove sul cambiamento planetario guidato dall’Uomo”.

Il gruppo si è riproposto di esaminare e dibattere ulteriormente la questione, con l’obiettivo di ridiscutere nel 2016 la formalizzazione di questa nuova unità di tempo, la definizione esatta da assegnarle e l’adeguata caratterizzazione.

 Leonardo Debbia

Fossile virtuale svela l’aspetto dell’antenato comune tra umani e Neanderthal

Le nuove tecniche digitali hanno consentito ai ricercatori di prevedere l’evoluzione strutturale del cranio nel lignaggio di Homo sapiens e Homo neanderthalensis, cercando di colmare gli spazi vuoti della documentazione fossile e di ricostruire il modello dell’ultimo antenato comune.

Lo studio ipotizza che le popolazioni in cui avvenne questa scissione fossero più antiche di quanto fin qui ritenuto.

Non è una novità che sia esistito un antenato comune tra noi e gli uomini di Neanderthal, la specie estinta dei nostri parenti preistorici più stretti. Ma l’aspetto fisico di questo essere sembrava dovesse rimanere avvolto nel mistero, dal momento che i fossili del Pleistocene medio, il periodo durante il quale avvenne la separazione delle linee evolutive, sono estremamente scarsi e frammentari.

Ma, laddove non si possa disporre fisicamente dell’originale, ecco come oggi si possa supplire con una ricostruzione virtuale.

Il fossile virtuale dell’ultimo antenato comune di Homo sapiens e Neanderthal (credit: Aurélien Mounier)
Il fossile virtuale dell’ultimo antenato comune di Homo sapiens e Neanderthal (credit: Aurélien Mounier)

I ricercatori del Leverhulme Centre for Human Evolutionary Studies (LCHES) presso l’Università di Cambridge, sotto la guida del Dr Aurèlien Mounier, hanno applicato morfometria digitale e algoritmi statistici ai crani fossili appartenuti alla storia evolutiva di entrambe le specie.

Lo studio è consistito nelle misurazioni reali di tutte le variazioni del cranio intervenute nel tempo, che sono poi state riportate in un contesto digitale.

Il ‘fossile virtuale’ è stato realizzato riportando un totale di 797 ‘punti di riferimento’ dai crani fossili e coprendo quasi due milioni di anni della storia del genere Homo, inclusi 1,6 milioni di anni di Homo erectus, crani Neanderthal rinvenuti in Europa e addirittura teschi del 19° secolo provenienti dalla collezione Duckworth di Cambridge.

I punti di riferimento dei campioni hanno fornito un quadro evolutivo da cui i ricercatori hanno potuto tracciare una linea temporale per la struttura del cranio e la ‘morfologia’ dei nostri antichi antenati comuni.

Nella linea temporale gli studiosi hanno quindi inserito un cranio moderno digitalizzato, deformandolo digitalmente per adattare i punti di riferimento e spostandosi lungo la storia evolutiva.

Questo procedimento ha permesso di comprendere come la morfologia di entrambe le specie potrebbe essere confluita nella morfologia del cranio dell’antenato comune nel corso del Pleistocene medio, un arco temporale la cui datazione va da circa 800mila a 100mila anni fa.

Il team ha riprodotto tre possibili forme del cranio ancestrale, corrispondenti a tre diversi tempi intermedi previsti per le due linee. Crani completi sono stati riprodotti digitalmente e poi comparati con i pochi crani fossili originali e i frammenti di ossa del Pleistocene.

Questo ha permesso ai ricercatori di scegliere quale cranio virtuale si adattasse meglio all’antenato condiviso con i Neanderthal e fino a quando ne sia stata più probabile l’esistenza.

Stime precedenti, basate su DNA antico, avevano fissato per l’ultimo antenato comune una datazione intorno ai 400mila anni fa.

Tuttavia, la morfologia del cranio ‘fossile virtuale’ ancestrale più vicina ai frammenti fossili del Pleistocene medio suggerisce che la scissione possa essere avvenuta intorno ai 700mila anni fa e fa ipotizzare che, mentre la popolazione di questi individui era presente in tutta l’Eurasia, l’ultimo più probabile antenato comune abbia avuto origine in Africa.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Human Evolution.

Il cranio virtuale in 3D porta i primi segni distintivi di entrambe le specie. Per esempio, mostra

il germoglio di quello che nel Neanderthal sarebbe diventato il ‘panino occipitale’, la protuberanza accentuata della parte posteriore del cranio che ha contribuito alla forma allungata della testa dei Neanderthal.

Il volto dell’antenato virtuale mostra invece un forte accenno di appiattimento, tratto tipico degli esseri umani moderni, evidente sotto gli zigomi, che contribuisce ad addolcire i lineamenti del nostro viso, che appaiono più delicati.

La fronte massiccia, dai tratti più pronunciati, dell’antenato virtuale è caratteristica della stirpe degli ominidi, molto simile ai primi Homo come pure ai Neanderthal, ma diversa negli uomini moderni.

Mounier afferma che il fossile virtuale ricorda soprattutto i Neanderthal, ma è sorprendente come sia stato Homo sapiens a prevalere nella linea temporale, pur discostandosi dalla traiettoria ancestrale della struttura del cranio.

“La possibilità di un più elevato tasso di cambiamento morfologico nella stirpe moderna suggerito dai nostri risultati sarebbe coerente con i periodi di grande cambiamento demografico e con la deriva genetica che è parte della storia di una specie, passata dall’essere una piccola popolazione in Africa a più di sette miliardi di persone oggi”, dice il co-autore, dott.ssa Marta Mirazòn Lahr, del LCHES di Cambridge.

“La popolazione degli ultimi antenati comuni era probabilmente parte della specie Homo heidelbergensis, nel suo senso più ampio”, puntualizza Mounier.

Questa è stata una specie di Homo che viveva in Africa, Europa e Asia occidentale tra 700mila e 300mila anni fa.

Per il loro prossimo progetto, Mounier e colleghi hanno iniziato a lavorare sul modello dell’ultimo antenato comune di Homo e scimpanzé.

“I nostri modelli non corrispondono esattamente alla realtà, ma in assenza di fossili questi nuovi metodi possono essere utilizzati per verificare ipotesi per qualsiasi quesito paleontologico, si tratti di cavalli o di dinosauri”, conclude Mounier.

Leonardo Debbia

Ceti e città dei Maya identificati da uno studio di ossa animali

La maggior parte di ciò che conosciamo sulla civiltà Maya si riferisce ai suoi sovrani e ai suoi templi riccamente decorati. Per sapere qualcosa di più sul resto della popolazione, gli archeologi hanno pensato di studiare le ossa dei loro animali, gran parte delle quali sono conservate presso il Museo di Storia Naturale della Florida (UF).

I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Archaeology del mese di Novembre scorso.

Secondo Ashley Sharpe, ricercatrice della UF, il quadro della civiltà Maya finora conosciuto, è ancora molto incompleto e soggetto ad aggiunte indispensabili.

“Sappiamo tutto sui Greci e sui Romani, sulle loro classi sociali, dagli imperatori agli schiavi. Eppure, anche se le classi intermedie e quelle più povere dei Maya erano formate da decine di migliaia di persone, della loro vita quotidiana sappiamo poco o nulla”, afferma la studiosa.

Per la prima volta, nello studio dei Maya, si sono allora cercati indizi sui loro ceti più bassi, esaminando 22mila resti di animali conservati nel Museo della Florida, una delle più grandi collezioni del Centro America.

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Ci si chiederà, perché proprio ossa di animali?

“Per conoscere meglio l’economia e le interazioni tra le classi sociali, abbiamo cercato di capire come i Maya avessero acquisito e distribuito le risorse animali”, afferma Sharpe. “Abbiamo così appurato che le classi Maya non erano omogenee, ma mantenevano relazioni commerciali complesse. La distribuzione del cibo e la disponibilità delle risorse animali variavano molto, sia da città a città che tra una classe e l’altra”.

Sharpe, assieme alla collega Kitty Emery, curatrice associata di Archeologia ambientale al Museo della Florida, hanno esaminato i resti animali provenienti dalle rovine di tre città-stato Maya in Guatemala, tra cui il famoso sito di Aguateca, che fu incendiato dopo un attacco a sorpresa da parte di nemici.

L’incendio, tuttavia, non era stato così distruttivo come si potrebbe immaginare e il sito ha un livello di conservazione che ricorda le rovine romane di Pompei.

Sharpe ha anche recuperato i movimenti delle risorse animali importate tramite il commercio ad Aguateca e alle capitali Piedras Negras e Yaxchitan, e ha seguito il flusso delle risorse tra la corte reale, i ceti ricchi e quelli poveri, le capitali e i villaggi del territorio circostante.

“Per i Maya, gli animali erano fonti preziose da cui ricavare pelli, costruire attrezzi, gioielli e strumenti musicali, ma erano anche di vitale importanza come emblemi di stato, di regalità e del mondo simbolico degli dei e quindi spesso costituivano le risorse principali, gelosamente custodite dai ricchi e dai potenti”, afferma Emery.

I ricercatori hanno scoperto, con sorpresa, che i ceti medi si servivano di una vasta gamma di animali, mentre la corte reale e i nobili di più alto livello, al contrario, si limitavano ad un gruppo scelto di animali simbolici e prestigiosi, come giaguari e coccodrilli.

“Ritenevamo che le classi dominanti disponessero di una varietà maggiore”, dice Sharpe.

“I nobili si cibavano di animali considerati prelibatezze, simili a quelle che le persone delle classi sociali medio-alte mangiano attualmente, come il caviale, tanto per fare un esempio”.

Gli abitanti poveri dei villaggi si cibavano soprattutto di pesce e frutti di mare, attingendo ai fiumi locali. Tuttavia, sia le classi povere che quelle medie vicine alle capitali, trattenevano per loro consumo una gran varietà di animali piuttosto che condividerle con i villaggi circostanti, specialmente la maggior parte di animali delle foreste e dell’oceano, che, detto per inciso, distava dalle 50 alle 100 miglia.

Ad Aguateca, oltre 100 miglia dalla costa più vicina, sono state trovate migliaia di conchiglie marine che ricoprivano i pavimenti degli antichi edifici e delle botteghe artigiane.

“Queste genti non avevano animali da soma, come nel Vecchio Mondo, dove per il trasporto delle merci si poteva disporre di asini e di cavalli”, precisa Sharpe. “I Maya trasportavano le loro merci dal mare alle abitazioni sulle proprie spalle, alla lettera. Avrebbero certamente anche potuto servirsi dei fiumi per il trasporto, ma questi erano pochi e per di più la giungla ostacolava gli spostamenti”.

A Yaxchilan, più della metà delle ossa rinvenute erano di cervi, suggerendo che i residenti facevano affidamento soprattutto sulle foreste del territorio, dove il cervo era di casa perchè abituato a nutrirsi nei loro campi di mais.

Esistono comunque prove che i Maya, come nella Gran Bretagna medioevale, avessero regolamentato caccia e pesca, ponendo divieti tra le classi nell’accesso alle risorse animali.

In ciascuna delle tre città, i nobili, il ceto medio e le classi più basse sceglievano tra tipi di specie differenti, suddivise tra risorse marine importate e animali che potevano essere catturati in foreste e fiumi vicini.

Le differenze nelle specie predominanti, come animali marini e cervi, mostrano che le città-stato probabilmente avevano partners commerciali diversi e questo avrebbe certo un senso, secondo Sharpe, dato che sappiamo che le ostilità tra le città erano frequenti.

Ma queste differenze si potrebbero attribuire anche a identità culturali specifiche, precisa la studiosa. Ad esempio, Aguateca era nota per i gioielli ricavati dalle conchiglie.

Come visto, le risorse animali giocavano ruoli importanti nella definizione delle classi e nelle relazioni commerciali tra le città, per cui le due ricercatrici ritengono di poter ampliare le loro conoscenze con ulteriori ritrovamenti.

Leonardo Debbia

Non furono i nuovi strumenti di caccia a causare la scomparsa dei Neanderthal

Secondo un nuovo studio pubblicato sul Journal of Human Evolution, la scomparsa dei Neanderthal può non aver nulla a che fare con l’introduzione delle nuove armi da caccia realizzate dagli esseri umani provenienti dall’Ovest asiatico.

I ricercatori della Nagoya University e dell’Università di Tokio, in Giappone, riferiscono che i risultati del loro recente studio indicano che forse dovremmo rivedere le ragioni per cui gli esseri umani moderni sopravvissero ai Neanderthal.

La colonizzazione dell’Europa da parte di Homo sapiens non è necessariamente attribuibile all’innovazione tecnologica, secondo un nuovo studio (credit: Kovalenko Inna)
La colonizzazione dell’Europa da parte di Homo sapiens non è necessariamente attribuibile all’innovazione tecnologica, secondo un nuovo studio (credit: Kovalenko Inna)

Gli studiosi giapponesi hanno esaminato armi in pietra utilizzate dagli esseri umani moderni, i Sapiens, nel periodo compreso all’incirca tra i 42mila e i 34mila anni fa.

Tradizionalmente, gli antropologi hanno sempre creduto che l’innovazione degli strumenti per la caccia abbia favorito la diffusione dei nuovi esseri umani al di fuori dell’Africa e la loro espansione in Europa.

Tuttavia, il nuovo studio suggerisce ora che questa innovazione non è stata necessariamente la forza trainante per le migrazioni umane verso l’Europa, come si è pensato finora.

In realtà, i nuovi arrivati non erano poi equipaggiati tanto meglio dei Neanderthal.

“Non siamo così speciali; non credo che siamo sopravvissuti ai Neanderthal semplicemente per la competenza tecnologica”, afferma la dottoressa Seiji Kadowaki, autore principale dello studio della Nagoya University. “La nostra ricerca si ricollega ai processi che accompagnarono la diffusione globale degli esseri umani moderni e più specificatamente l’impatto culturale dei Sapiens che migrarono verso l’Europa”.

Questi esseri umani anatomicamente moderni ampliarono l’area geografica in cui abitavano, uscendo dall’Africa durante un periodo di tempo compreso tra i 55mila e i 40mila anni fa e questo evento ebbe sicuramente un impatto significativo sull’evoluzione biologica degli esseri umani attuali.

Esistono altre teorie sulla diffusione geografica degli esseri umani moderni, ma questo evento rimane comunque fondamentale nella storia dell’uomo.

Modelli pensati in precedenza presumevano che i nostri diretti antenati, i Sapiens, fossero esseri speciali, più intelligenti, più dotati, sia nel comportamento che nel modo di pensare.

Questi modelli consideravano l’innovazione tecnologica e culturale come il motivo per cui gli esseri umani avrebbero potuto sopravvivere in Europa e i Neanderthal no.

In realtà, non è un mistero di poco conto ed è ancora lungi dall’essere chiarito, nonostante la quantità di ipotesi avanzate.

Ci si è sempre posti la domanda-chiave sulla scomparsa dei Neanderthal: “Perché loro sono scomparsi e i Sapiens sono sopravvissuti?”.

Tutto sommato, abbiamo una anatomia simile, non siamo poi così tanto diversi, per cui i ricercatori hanno tradizionalmente ritenuto che dovevano esserci state differenze radicali nei modi di vita e nel comportamento tra i Neanderthal e i Sapiens, qualcosa che non si riferiva alla biologia, ma piuttosto all’etologia e alla sociologia.

Il nuovo studio suggerisce che gli esseri umani moderni si trasferirono dall’Asia occidentale in Europa senza subire grandi cambiamenti comportamentali.

Per questo, sono stati studiati gli strumenti in pietra utilizzati dalle popolazioni della cultura Ahmarian precoce e della cultura Protoaurignaziana, che vissero nel Sud e nell’Ovest Europa e in Asia occidentale circa 40mila anni fa.

E’ stato osservato che erano state usate piccole punte di pietra per aiutarsi nel gettare le lance.

In anni precedenti, gli studiosi avevano ritenuto che questa fosse stata una significativa innovazione, un fattore che avesse favorito la migrazione di questi popoli verso l’Europa, dove vivevano i Neanderthal.

La nuova ricerca disegna una linea temporale che inficia questa teoria.

Se questa innovazione fosse stata la ragione alla base della migrazione, l’evidenza delle prove avrebbe mostrato che le punte di pietra avrebbero dovuto avere una diffusione spaziale e temporale che sarebbe coincisa con l’espansione degli esseri umani.

Ma un esame più accurato mostra che le punte di pietra avevano fatto la loro comparsa in Europa 3000 anni prima che nel Levante, una zona storica e un punto di passaggio obbligato per gruppi umani in movimento dall’Asia occidentale verso l’Europa.

L’innovazione nelle armi da caccia può essere stata sì necessaria, ma non è sempre da associarsi alla migrazione o addirittura condizionarla.

In ultima analisi, le popolazioni avrebbero avuto modo di espandersi sul territorio anche senza innovazioni tecnologiche.

“Le punte di pietra simili ci hanno consentito di tracciare una ‘timeline’ o linea temporale completamente diversa da quella che era stata proposta. In Europa, queste punte venivano usate già ‘prima’ che comparissero nel Levante, come invece sarebbe stato logico aspettarsi, se questa novità avesse accompagnato la migrazione degli umani verso l’Europa”, afferma decisamente Kadowaki. “La nostra ricerca mostra che gli studiosi dell’argomento debbono riconsiderare l’ipotesi che i nostri antenati si siano trasferiti in Europa, riuscendo là dove i Neanderthal avevano fallito, grazie esclusivamente alle innovazioni culturali e tecnologiche introdotte dall’Africa o dall’Asia occidentale”.

Riesaminando le prove, i ricercatori hanno constatato che armi in pietra simili fra loro erano comparse in Europa attorno ai 42mila anni fa, e nel Levante solo 39mila anni fa, con un ritardo di 3000 anni, quindi.

A questo punto, è stato ipotizzato che possano essere dischiusi nuovi scenari sulla migrazione umana, compatibili con queste differenze temporali. Ad esempio, una prima ondata migratoria avrebbe potuto stabilirsi in Europa molto prima e lì aver sviluppato, in materia di armi, nuove tecnologie, che quindi avrebbero viaggiato in senso inverso, dall’Europa verso il Levante.

“Riteniamo che le cause dell’evoluzione umana fondate sulla tecnologia siano più complicate di quanto finora ritenuto. Ora che abbiamo riesaminato il modello tradizionale sul percorso verso l’Europa, stiamo progettando di rivedere il modello sulla rotta migratoria meridionale, dall’Africa orientale all’Asia meridionale”, ha concluso la dott.ssa Kadowaki.

Leonardo Debbia

La vita sulla Terra era possibile già 3,2 miliardi di anni fa

Una scintilla provocata da un fulmine, polvere interstellare o un vulcano sottomarino.
Sono solo alcuni dei possibili fenomeni alla base dell’origine della vita sulla Terra.
Ma cosa è successo dopo?
Molti batteri (batteri anaerobici), vivono anche in assenza di ossigeno, ma senza azoto in abbondanza perché si possa verificarsi la costruzione di geni – essenziali, a loro volta, per virus, batteri e altri microrganismi – la vita sulla Terra primordiale sarebbe stata scarsa, se non impossibile.
Finora si riteneva che l’azoto atmosferico per consentire la diffusione delle prime forme di vita abbia fatto la sua comparsa circa 2 miliardi di anni fa.

 Formazioni di rocce sedimentarie di 3,2 miliardi di anni fa nel nord-ovest dell’Australia, da cui sono state rilevate prove chimiche di fissazione dell’azoto (credit: R. Buick / UW)

Formazioni di rocce sedimentarie di 3,2 miliardi di anni fa nel nord-ovest dell’Australia, da cui sono state rilevate prove chimiche di fissazione dell’azoto (credit: R. Buick / UW)

Ora, una ricerca condotta presso l’Università di Washington (UW) su alcune delle rocce più antiche del pianeta, ha scoperto le prove che già 3,2 miliardi di anni fa era in atto un processo di assorbimento dell’azoto dall’atmosfera primordiale.
“Si crede che l’antica biosfera sia stata debolmente sostenuta in questo pianeta inospitale fino alla fissazione dell’azoto, allorchè improvvisamente la biosfera prese ad ampliarsi e a consolidarsi, diversificandosi in molte forme”, dice Roger Buick, docente di Scienze della Terra e dello Spazio presso la UW e co-autore dello studio. “Il nostro lavoro mostra che l’azoto non era affatto carente sulla Terra primordiale, giustificando la presenza di una biosfera sufficientemente ampia e diversificata, che trovò abbastanza precocemente l’ambiente adatto al proprio sviluppo”.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature del 16 febbraio scorso.
Gli autori hanno analizzato 52 campioni di rocce di età compresa tra 2,75 e 3,2 miliardi di anni, raccolti in Sud Africa e nell’Australia nord-occidentale. Qui si trovano infatti le rocce più antiche e meglio conservate del pianeta, formate da sedimenti depositati sui margini continentali, quindi indenni da imperfezioni nella composizione chimica che avrebbero potuto invece verificarsi in prossimità di vulcani sottomarini.
Queste rocce si formarono prima della presenza di ossigeno nell’atmosfera terrestre, che risale a circa 2,3-2,4 miliardi di anni fa, e hanno così potuto conservare indizi chimici non più rintracciabili nelle rocce più recenti.
Anche i campioni più antichi, dell’età di 3,2 miliardi di anni, hanno mostrato prove chimiche che la vita stava traendo l’azoto dall’atmosfera.
Il rapporto tra atomi leggeri e atomi pesanti di azoto è congruente con un modello che prevede la presenza di enzimi fissatori di azoto in organismi unicellulari e non corrisponde affatto a reazioni chimiche che si verificano in un ambiente abiotico, privo di vita.
“Immaginare che questo processo realmente complicato sia così antico e che si sia svolto allo stesso modo per 3,2 miliardi di anni, è realmente affascinante”, ha detto Eva Stueken, ricercatrice della UW e autore principale dello studio. “Si ritiene che questi enzimi complessi si siano formati molto precocemente e la loro evoluzione non sia stata difficile”.
L’analisi genetica di enzimi che fissano l’azoto hanno posto la loro origine tra 1,5 e 2,2 miliardi di anni fa.
La fissazione dell’azoto è un processo di riduzione che avviene allorchè si rompe il forte legame dell’azoto molecolare atmosferico (N2), e si ottiene azoto ammonico (NH3), facile da essere usato dagli organismi viventi, essendo il principale responsabile della formazione di amminoacidi, proteine, vitamine.
La ‘firma’ chimica delle rocce esaminate suggerisce che la scissione della molecola di azoto sia stata agevolata da un enzima contenente molibdeno, il più comune dei tre tipi di azoto-fissatori esistenti oggi.
Il molibdeno in tracce è un oligominerale necessario per molte forme di vita. La sua mancanza rende sterili i terreni e non consente la crescita delle piante, mostrando così il suo ruolo essenziale di azotofissatore nella produzione di nitrati.
La presenza di questo elemento nel sistema enzimatico della nitrogenasi è necessaria per generare molecole di ammoniaca dall’azoto atmosferico.
Gli autori ipotizzano che questa potrebbe essere un’ulteriore prova che in un primo tempo la vita avrebbe potuto essere presente in strati unicellulari del terreno, che avrebbero immesso in atmosfera piccole quantità di ossigeno. Questo ossigeno, a sua volta, avrebbe reagito con le rocce per rilasciare molibdeno in acqua.
“Non troveremo mai una prova diretta di uno strato dello spessore di una cellula, ma questa potrebbe costituire una prova indiretta della vita sulla Terra”, ha affermato Buick. “I microbi avrebbero potuto poi colonizzare gli oceani, vivendo in una sorta di melma sulle rocce prima ancora di 3,2 miliardi di anni fa”.

Leonardo Debbia
1 marzo 2015

Dalla crosta al mantello e ritorno, per conoscere l’età della Terra

Fino dalle origini della Terra, l’uranio ha fatto parte della sua storia e, grazie alla lunga durata della sua radioattività, si è dimostrato ideale per datare i processi geologici e poter così ricostruire l’evoluzione del pianeta.

L’uranio naturale è composto da una miscela di tre isotopi, caratterizzati da un lungo tempo di dimezzamento o ‘emivita’: l’uranio –238 (che costituisce il 99,3 per cento del totale del minerale), l’uranio –235 e l’uranio –234, quest’ultimo in percentuale estremamente trascurabile.

Ricostruzione grafica di come la crosta terrestre (colore blu) viene subdotta nel mantello (colore arancione) (Credit: ETH Zurich / Geophysical Fluid Dinamics)
Ricostruzione grafica di come la crosta terrestre (colore blu) viene subdotta nel mantello (colore arancione)
(Credit: ETH Zurich / Geophysical Fluid Dinamics)

Un recente studio del ciclo globale di questi tre isotopi dell’uranio, pubblicato sulla rivista Nature, apre nuove prospettive alla discussione sulle modalità con cui la Terra è cambiata nel corso di miliardi di anni.

Nella storia della Terra, la crosta continentale, lo strato solido più esterno su cui viviamo, è cresciuta di massa e di volume attingendo materiale dal mantello caldo e fluido sottostante.
La maggior parte della crosta di recente formazione, tuttavia, va nuovamente perduta.
Infatti, nelle dorsali medio-oceaniche dei fondali, mentre le placche si allontanano, nuova crosta oceanica viene prodotta in continuazione dai magmi in risalita, dando luogo a pavimenti sottomarini formati dalle rocce basaltiche solidificatesi gradualmente, man mano che il flusso lavico si allontana dalla zona di fuoriuscita.
La crosta oceanica si espande, allontanandosi dalle dorsali ma, ad una certa distanza e dopo un certo tempo, torna a sprofondare nel mantello attraverso il processo che va sotto il nome di subduzione.
L’uranio nelle rocce della crosta continentale è ‘arricchito’, ha cioè una maggiore concentrazione dell’isotopo U –235; tuttavia, sulla superficie terrestre i diversi ambienti nel corso del tempo ne influenzano la mobilità.

In un ambiente privo di ossigeno, com’era in prevalenza la Terra primordiale, l’uranio era stabile nelle rocce come uranio tetravalente. Solo in seguito, reagendo con l’ossigeno atmosferico è stato ossidato ad uranio esavalente.
In formazione acquosa, l’uranio esavalente, più mobile, viene così ripartito nelle rocce e quindi trasportato negli oceani attraverso fiumi e corsi d’acqua.
Va osservato ora che durante il raffreddamento delle lave nel graduale allontanamento dalle dorsali oceaniche, l’acqua di mare filtra attraverso le fessure della roccia e, in tal modo, l’uranio torna a far parte della crosta oceanica.

In questo nuovo studio, condotto presso l’Università di Bristol, nel Regno Unito, da un team internazionale composto da Morten Andersen, attualmente docente di Scienze della Terra presso il Politecnico federale di Zurigo (ETH), insieme a ricercatori britannici di Durham e a quelli americani del Wyoming e del Rhode Island, si è utilizzata l’impronta digitale, la firma cioè, lasciata dal rapporto nelle rocce dei due isotopi dell’uranio.
Questa ‘impronta digitale’ specifica si riferisce ai processi di ossidazione dell’uranio avvenuti sulla superficie terrestre.
In particolare, i ricercatori hanno scoperto che nella crosta oceanica attuale è ‘impresso’ un rapporto più elevato tra uranio –238 e uranio –235 (quindi una presenza minore di –235) rispetto al rapporto riscontrato nelle meteoriti.

Queste ultime sono un pò i ‘mattoni della Terra’, rappresentando la composizione della materia primordiale e, verosimilmente, hanno una composizione isotopica dell’uranio costituente la Terra nel suo insieme, precedente la formazione dei gusci in cui è attualmente suddivisa (crosta, mantello, nucleo).
L’isotopo dell’uranio che rappresenta l’impronta digitale della crosta oceanica alterata ci offre un modo per rintracciare l’uranio che dalla crosta è stato nuovamente risucchiato nel mantello attraverso la subduzione prima accennata.
Al fine di esaminare il ciclo dell’uranio (e quindi il ciclo delle rocce), i ricercatori hanno analizzato i basalti cosiddetti MORB della Dorsale oceanica (Middle Oceanic Ridge Basalt), la lava vulcanica prodotta nel mantello e poi fuoriuscita.

Il rapporto tra gli isotopi dell’uranio in questi basalti può venir confrontato con quello dei basalti marini o insulari di luoghi come le Hawaii e le isole Canarie, che coincidono con degli ‘hot-spot’, cioè i punti in cui la lava, in forma di pennacchi, giunge in superficie direttamente dal mantello caldo, ben al di sotto della crosta, e quindi composti di materiale più miscelato dei MORB.
I rapporti tra uranio -238 e –235 sono significativamente maggiori nei MORB che nei basalti insulari e nei basalti delle meteoriti. Questo, secondo Andersen, significa che i MORB hanno un’impronta digitale dell’uranio della crosta oceanica prelevato dalla superficie e tornato nella parte superiore del mantello terrestre durante la subduzione.
Nel mantello, a causa dei moti convettivi propri, il materiale viene rimescolato e trasportato nelle zone delle dorsali medio-oceaniche e quindi in superficie per mezzo delle lave costituenti i MORB.
Al contrario, nei basalti insulari i rapporti tra i due isotopi dell’uranio corrispondono ai rapporti trovati nelle meteoriti, dimostrando che la fonte era diversa di quella dei MORB.
Gli scienziati spiegano che le lave insulari provengono da una fonte posta a maggiore profondità nel mantello rispetto ai MORB; da una zona dove non c’è stato rimescolamento con materiale (e quindi uranio) proveniente dalla superficie.
L’uranio proveniente da quella zona segnala quindi un tempo molto antico della storia della Terra.

“Anche se l’uranio è stato intrappolato nella crosta oceanica fino dalla nascita dell’ossigeno nell’atmosfera primordiale, circa 2,4 miliardi di anni fa, la crosta oceanica non ha potuto riprendersi una maggior quantità di uranio –238, dato che gli oceani erano ancora troppo poveri di ossigeno”, sottolinea Heye Freymuth, dell’Università di Bristol e co-autore dello studio.

Leonardo Debbia
13 febbraio 2015