Nel passato della Terra i vulcani condizionarono le variazioni del clima

Secondo un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science, l’attività vulcanica associata al movimento delle placche tettoniche continentali potrebbe essere responsabile dell’alternanza di cambiamenti climatici molto caldi e molto freddi, sia estesi su piccoli archi temporali (decine di migliaia d’anni) che su periodi più lunghi (centinaia di milioni di anni) di gran parte della storia della Terra.

Lo studio, condotto dai ricercatori della Jackson School of Geosciences presso l’Università del Texas, Austin, affronta la causa prima per cui il clima della Terra ha subito oscillazioni drastiche, con periodi in cui il pianeta era coperto di ghiaccio e periodi in cui perfino le regioni polari erano libere dai ghiacci.

Il vulcano Licancabur, un vulcano attivo dell’arco continentale delle Ande, sul confine tra Cile e Bolivia, si erge sullo sfondo di un lago e di una colonia di fenicotteri (credit: Brian Horton)
Il vulcano Licancabur, un vulcano attivo dell’arco continentale delle Ande, sul confine tra Cile e Bolivia, si erge sullo sfondo di un lago e di una colonia di fenicotteri (credit: Brian Horton)

Lo studio ha esaminato molti cambiamenti del clima terrestre sul lungo termine, tralasciando i cambiamenti sul breve periodo o quelli indotti dall’uomo.

Ryan McKenzie, Ph D. in Scienze geologiche, riferisce che il team ha scoperto che, negli ultimi 720 milioni di anni, i periodi in cui i vulcani situati lungo gli archi continentali erano più attivi hanno coinciso con condizioni climatiche più calde, da ‘effetto-serra’.

Al contrario, i periodi di scarsa attività vulcanica degli archi continentali hanno coinciso con condizioni climatiche più fredde, temperature sotto lo zero e prevalenza di ghiacci.

I sistemi continentali vulcanici ad arco, come le Ande, si trovano su margini continentali attivi, in zone dove due placche tettoniche entrano in collisione e la placca oceanica si immerge sotto la placca continentale, dando luogo ad una classica zona di subduzione.

Quando questo accade, il magma si arricchisce del carbonio intrappolato nella crosta terrestre e, allorchè i vulcani entrano in eruzione, rilascia nell’atmosfera anidride carbonica in quantità.

“I sistemi continentali ad arco sono disposti sulla verticale della zona di collisione crustale e interagiscono con il carbonio contenuto nelle rocce sotto la superficie”, spiega McKenzie. “Gli scienziati sanno che la quantità di anidride carbonica atmosferica influenza il clima della Terra”.

“Ma qual è la causa delle fluttuazioni di anidride carbonica nella storia geologica della Terra?”, è la domanda che tuttavia si stanno continuando a porre.

Nel 2014, uno studio congiunto della University of Southern California, Los Angeles, e della Università di Nanjing, in Cina, ha suggerito che un primo fattore da considerare siano le forze geologiche che stanno alla base della genesi di una montagna, che hanno portato in superficie, in tempi diversi della storia del pianeta, una gran quantità di materiale magmatico. Questa roccia ‘fresca’ – afferma questo studio – sotto l’azione degli agenti atmosferici si sarebbe comportata come una spugna, assorbendo grandi quantità di anidride carbonica dall’atmosfera.

Le eruzioni vulcaniche, dal canto loro, avrebbero compensato questo assorbimento con l’immissione di altrettanti grandi quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, mantenendo di fatto un equilibrio ma influenzando notevolmente il clima.

Con questa alternanza di fenomeni potrebbe essere spiegata l’alternanza di periodi troppo caldi e troppo freddi, a seconda della prevalenza o della diminuzione di CO2 atmosferica.

Il nuovo studio indica come fattore-guida primario la quantità di anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera, piuttosto che la quantità sottratta.

Utilizzando quasi 200 studi ufficiali, con i dati relativi al lavoro sul campo, i ricercatori hanno realizzato un database globale per ricostruire la storia vulcanica dei margini continentali nel corso degli ultimi 720 milioni di anni.

“Abbiamo studiato i bacini sedimentari nelle vicinanze degli archi vulcanici, che sono stati erosi nel corso di centinaia di milioni di anni”, dichiara il co-autore dello studio, Brian Horton, docente di Scienze geologiche della Jackson School. “La caratteristica principale del nostro studio è la lunga storia geologica presa in considerazione, 720 milioni di anni, attraverso una gran quantità di eventi alterni di caldo eccessivo e freddo intenso”.

In particolare, i ricercatori hanno esaminato col metodo uranio-piombo le età della cristallizzazione del minerale zircone, che si forma in gran parte durante l’attività vulcanica dell’arco continentale.

Lo zircone è meno comune in una certa tipologia di ‘ambienti vulcanici’, come ad esempio gli hot spots delle Hawaii o i vulcani ad arco delle Marianne, cosicché il minerale può essere usato per monitorare il vulcanismo dell’arco continentale.

Per lo studio, sono stati esaminati circa 120mila grani di zircone provenienti da campioni di tutto il mondo.

“Abbiamo cercato cambiamenti nella produzione di zirconio su diversi continenti nel corso della storia della Terra per cercando una relazione tra questi cambiamenti e i vari passaggi da freddo-ghiacciaia a effetto serra e viceversa”, sottolinea McKenzie.

  “I periodi più freddi trovano una corrispondenza con l’assemblaggio dei supercontinenti terrestri e una diminuzione del vulcanismo continentale”, riassume Horton. “I periodi più caldi, ‘ad effetto serra’, sono trovano una correlazione con la frammentazione dei continenti e un più vulcanismo più intenso”.

Leonardo Debbia

La separazione tra linee evolutive umane e scimmiesche risale a 8 milioni di anni fa

Un recente articolo sulla rivista Nature ipotizza che un antenato comune delle scimmie e degli esseri umani, il Chorapithecus abyssinicus abyssinicus, si sia evoluto in Africa due milioni di anni prima di quanto finora ritenuto.

  Le nuove conclusioni si basano sulle analisi di denti fossili rinvenuti nella Formazione Chorora, i più antichi sedimenti conosciuti provenienti dal rift di Afar, in Etiopia.

  “Il nostro recente studio suggerisce che 10 milioni di anni fa sia avvenuta una prima separazione delle linee evolutive degli esseri umani dai gorilla e quindi, verso gli 8 milioni, sia intervenuta una seconda divergenza tra uomini e scimpanzé”, ha dichiarato Giday WoldeGabriel, geologo del Los Alamos National Laboratory e membro anziano del team di ricercatori, che comprendeva 14 scienziati provenienti da Stati Uniti, Giappone ed Etiopia, guidati dal paleoantropologo Gen Suwa, dell’Università di Tokio, dai paleoantropologi etiopi Yonas Beyene e Berhane Asfaw e dai geologi WoldeGabriel, etiope, e Shigeiro Katoh, giapponese.

Denti fossili di Chorapithecus abyssinicus dal cui attento esame gli studiosi hanno tratto le informazioni sulla separazione delle linee evolutive dell’ uomo e del gorilla (Credit: Gen Suva)
Denti fossili di Chorapithecus abyssinicus dal cui attento esame gli studiosi hanno tratto le informazioni sulla separazione delle linee evolutive dell’ uomo e del gorilla (Credit: Gen Suva)

  “Questa divergenza è di almeno due milioni di anni anteriore alle precedenti stime che, in mancanza di prove fossili, si basavano esclusivamente sulla Genetica”, afferma WoldeGabriel.

  “La nostra analisi dei fossili di C. abyssinicus rivela che questa scimmia ha solo 8 milioni di anni. Da quel momento, si separarono definitivamente le linee evolutive di esseri umani e scimmie africane, ma finora nessun fossile di quel periodo era stato ancora ritrovato”.

  Scimpanzé, gorilla, oranghi ed esseri umani compongono la famiglia biologica Hominidae.

La nostra conoscenza sull’evoluzione degli ominidi – vale a dire quando e come gli esseri umani siano comparsi sul grande albero della famiglia delle scimmie è notevolmente aumentata negli ultimi anni, grazie ai fossili venuti in luce in Etiopia, tra cui il C. abyssinicus, una specie di grande scimmia estinta.

  Il team internazionale ha scoperto che il C. abyssinicus riporta a nuove osservazioni sul campo e a tecniche geologiche che, secondo gli autori, impongono di rivedere il momento della scissione umana dalle linee scimmiesche.

  WoldeGabriel è co-autore del relativo articolo, pubblicato nel mese scorso su Nature.

  Il ruolo del geologo etiope era l’analisi chimica delle ceneri vulcaniche contenenti i fossili della Formazione Chorora, per una correlazione locale e regionale con altre ceneri dell’Etiopia, una regione in cui i fossili sono venuti alla luce grazie alle eruzioni vulcaniche, ai frequenti terremoti che hanno frantumato le rocce e ai processi erosivi.

  Dall’esame di nove denti fossili di più individui di C. abyssinicus, si è potuto osservare che questi denti erano simili a quelli del gorilla, adattati per una dieta a base di fibre.

  Di conseguenza, il team evince che l’antenato comune di scimpanzé ed esseri umani visse prima di quanto era stato proposto dagli studi genetici e molecolari, che avevano fissata la divergenza a circa 5 milioni di anni fa.

  Alcuni obiettano che sono necessarie ulteriori prove fossili prima di accettare queste conclusioni, mentre molti altri ritengono estremamente importante la scoperta di una scimmia fossile di questo periodo.

  WoldeGabriel e il team hanno utilizzato metodi diversi per determinare l’età dei denti rinvenuti negli strati della Formazione Chorora. Per le rocce vulcaniche e i sedimenti si sono avvalsi dei metodi di datazione con argon e rilievi paleomagnetici. Le osservazioni sul campo, l’analisi chimica delle ceneri vulcaniche e i metodi geocronologici, hanno indotto WoldeGabriel a ritenere che l’età più probabile dei fossili fosse di 8 milioni di anni.

  Con queste nuove documentazioni fossili unitamente alle analisi dei sedimenti, il team conclude che il ramo umano dell’albero dei primati (in comune con gli scimpanzé) si sia separato dal gorilla circa 10 milioni di anni fa, almeno 2 milioni prima di quanto finora ritenuto.

Leonardo Debbia

Una traccia magnetica nella roccia testimonia l’antica rotazione della Penisola Iberica

Secondo un recente studio sui componenti di una roccia vulcanica, trovata nel sud della provincia di Leòn, in Spagna, 300 milioni di anni fa furono sottoposti ad una rotazione di circa 60 gradi.

La variazione dell’orientamento magnetico in una roccia è un esempio, su scala ridotta, dello spostamento che potrebbe aver interessato tutta la Penisola Iberica al momento della sua formazione.

penisola iberica

L’evento è testimoniato dai segnali magnetici dei minerali di cui è formata la roccia, che è stata analizzata dai ricercatori delle Università di Salamanca, in Spagna, e di Utrecht, nei Paesi Bassi.

Questa scoperta migliora la nostra comprensione di una catena montuosa che si trovava nella posizione su cui si ritrovano oggi il nord-ovest della Spagna, la Francia e il sud del Regno Unito.

Circa 350 milioni di anni fa, durante la formazione del supercontinente Pangea, un antico oceano si chiuse e il deposito dei sedimenti residui divenne una grande catena montuosa

che successivamente, 50 milioni di anni dopo, acquistò una forma arcuata, andando a delimitare l’area costituita oggi dalla Penisola Iberica.

Gli scienziati dell’Università di Salamanca hanno raccolto presso alcune città del Leòn tra Truchas  e Ponferrada, 320 campioni di roccia vulcanica e pietra calcarea, alla ricerca dell’impronta magnetica, ossia della ‘registrazione’ dei segnali magnetici di quel turbolento periodo della storia del nostro pianeta.

Dopo aver analizzato i campioni presso l’Università di Utrecht, in uno dei più avanzati laboratori di paleomagnetismo esistenti al mondo, i ricercatori sono stati in grado di ricostruire la storia di queste antichissime rocce proprio in base alla traccia magnetica del loro contenuto minerale.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Tectonophysics.

“Queste rocce erano state depositate sul fondo dell’oceano 440 milioni di anni fa nei pressi del Polo Sud di quel tempo e i suoi componenti minerali erano orientati nella direzione del campo magnetico terrestre dell’epoca”, spiega Javier Fernandéz Lozano, geologo presso l’Università di Salamanca e co-autore della ricerca.

Circa 120 milioni di anni dopo, tra il Carbonifero e il Permiano, vale a dire tra i 350 e i 260 milioni di anni fa, si verificò una graduale ma intensa collisione tra due continenti, l’Euramerica (o Laurussia) e il Gondwana, ossia tra ciò che ora corrisponde al Nord e al Sud dell’Europa, con il risultato della formazione del supercontinente Pangea, prima menzionato.

Questo processo, conosciuto anche come orogenesi Varisica o Ercinica, ha contribuito alla formazione delle montagne europee; dell’innalzamento, cioè, di una catena montuosa lungo l’asse nord-sud, che ha lasciato nelle rocce un segnale magnetico secondario, adattato al nuovo campo magnetico terrestre.

Localizzazione della Catena Ercinica durante il Carbonifero. In grigio sono mostrate le attuali linee costiere. Sulla destra della figura, al di sotto delle Isole britanniche, sono delineate in rosso le pieghe che evidenziano la curvatura dell’oroclino in formazione, a nord della Penisola Iberica (da Wikipedia)
Localizzazione della Catena Ercinica durante il Carbonifero. In grigio sono mostrate le attuali linee costiere. Sulla destra della figura, al di sotto delle Isole britanniche, sono delineate in rosso le pieghe che evidenziano la curvatura dell’oroclino in formazione, a nord della Penisola Iberica (da Wikipedia)

“I cambiamenti della direzione del campo magnetico sono stati registrati e conservati nei minerali costituenti le rocce formatesi in quel tempo e indicano che, poco dopo quel processo, le rocce di queste montagne furono sottoposte ad una rotazione di quasi 60 gradi, fino a che raggiunsero il loro orientamento attuale”, osserva Fernandéz Lozano.

Questa traccia magnetica può essere associata a processi su larga scala nella formazione delle montagne, in particolare alle modalità con cui queste sono state curvate fino ad assumere una struttura nota come oroclino, cioè una catena montuosa, in origine lineare che, a causa di forze agenti in senso opposto, assume un andamento curvo.

“Con un campione di roccia possiamo analizzare un processo verificatosi a livello della placca tettonica e in particolare avere nuovi dati per conoscere come sia avvenuta l’orogenesi e la sua curvatura. Queste informazioni hanno lasciato la loro traccia nelle rocce delle Isole Britanniche, in Francia e nel Nord-ovest della Spagna, per una lunghezza di 3000 chilometri.

Il problema geologico a lungo dibattuto riguardava l’oroclino Cantabrico, la curvatura avvenuta 300 milioni di anni fa e oggi riconoscibile nella geografia della Penisola Iberica.

In concreto, si distingue l’arco formato dalla Catena Cantabrica finchè questo va a scomparire sotto la piattaforma continentale e prosegue poi nella regione iberica.

Il geologo sottolinea che la nuova ricerca “va al di là dei precedenti sforzi e, per comprendere questo oroclino, si è concentrata principalmente sulle Asturie, mettendoci in grado di trovare le sue tracce più a sud, al confine tra il Leòn e Zamora”.

“Grazie a studi come questi, siamo in grado di continuare a fornire informazioni sulle cause e sui processi che hanno generato catene montuose curve dopo la collisione tra due continenti”, conclude il geologo.

Leonardo Debbia

Storia genetica degli aborigeni australiani

Non conosciamo con esattezza l’origine dei primi popoli che vissero in Australia. Alcuni studiosi ritengono che i primi esseri umani sbarcati sulle sue spiagge siano provenuti dall’Indocina, verso i 50mila anni fa, ma questa ipotesi non trova pareri concordi nella comunità scientifica.

Ora, uno studio genetico, pubblicato a fine febbraio scorso sulla rivista Current Biology, riferisce che le prime sequenze complete di cromosomi Y degli aborigeni australiani di sesso maschile hanno rivelato una intensa storia genetica della popolazione, a partire dai primi insediamenti sul continente, avvenuti, per l’appunto, intorno ai 50mila anni fa.

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Lo studio, condotto dai ricercatori del Wellcome Trust Sanger Institute, Regno Unito, mette in discussione la teoria precedente che ipotizzava un consistente afflusso di gruppi umani provenienti dall’India all’incirca verso i  4-5mila anni fa.

Questa nuova indagine, basata sul sequenziamento del DNA, si è focalizzata sul cromosoma Y, che si trasmette solo di padre in figlio e che, di fatto, non ha fornito alcuna prova a supporto della migrazione preistorica dall’India.

Al contrario, i risultati mostrano che gli aborigeni avrebbero attraversato una lunga e indipendente storia genetica svoltasi tutta sul continente australiano.

I primi esseri umani moderni giunti in Australia circa 50mila anni fa furono gli antenati degli attuali aborigeni e furono anche i primi coloni ad essere considerati tali fuori dal continente africano.

18mila anni fa l’antico continente australe su cui erano approdati – chiamato, in contesti tecnici Sahul, Australinea o Meganesia – era costituito dalle attuali grandi isole dell’Australia, della Tasmania e della Nuova Guinea, allora non separate dal mare, e questi gruppi ancestrali vi misero piede probabilmente ancor prima che altri esseri umani occupassero l’Europa.

E’ necessario sottolineare che quando si parla di continente australiano e di Australia non si parla infatti della stessa cosa.

E’ opportuna, pertanto, una parentesi per fare chiarezza.

Per continente australiano, o Sahul, si intende una vasta piattaforma continentale che – come detto sopra – collegava Australia, Tasmania e Nuova Guinea per una superficie complessiva di 8,56 chilometri quadrati che, durante il Pleistocene (18mila anni fa), era per intero al di sopra del livello del mare.

Detto altrimenti – se in grado di farlo – si poteva andare a piedi dalla Tasmania all’Australia.

Nel corso degli ultimi 10mila anni, alla fine dell’ultima glaciazione, lo scioglimento dei ghiacci provocò l’innalzamento del livello del mare e le varie isole vennero separate da tratti di mare via via più ampi, assumendo gradualmente l’aspetto attuale.

Con il termine Sahul veniva definito il blocco unico di terre emerse, non separato da tratti di mare, che 18mila anni fa comprendeva, oltre all’Australia, la Nuova Guinea a nord, l’Isola di Timor a nord-ovest e la Tasmania a sud, evidenziate dal tratto rosso nella raffigurazione. (fonte: Wikipedia)
Con il termine Sahul veniva definito il blocco unico di terre emerse, non separato da tratti di mare, che 18mila anni fa comprendeva, oltre all’Australia, la Nuova Guinea a nord, l’Isola di Timor a nord-ovest e la Tasmania a sud, evidenziate dal tratto rosso nella raffigurazione. (fonte: Wikipedia)

A dirla tutta, a sostegno della provenienza indiana delle popolazioni australiane concorsero tuttavia vari fattori, tutti riconducibili ad un ben determinato periodo.

Tra i 5000 e i 3500 anni fa, i dingos, i cani rappresentativi della fauna australiana – già presenti, però, nel Sud dell’Asia – giunsero in qualche modo in Australia. Non solo, ma nello stesso periodo i gruppi umani intensificarono le attività di caccia e raccolta e iniziò la diffusione della pittura rupestre.

I cambiamenti poi dell’uso degli utensili in pietra e, al tempo stesso, della lingua, hanno sollevato dei dubbi circa una possibile associazione con i cambiamenti intervenuti nella popolazione aborigena australiana.

Almeno due precedenti studi genetici, uno dei quali basato sul cromosoma Y, avevano ipotizzato che questi cambiamenti avrebbero potuto benissimo coincidere con la mescolanza tra  popolazioni aborigene ed indiane, evento che sarebbe per l’appunto riconducibile a 5000 anni fa.

“Abbiamo lavorato a stretto contatto con le comunità aborigene australiane per sequenziare il cromosoma Y sul DNA di 13 individui volontari maschi, allo scopo di investigare sulla loro ascendenza”, afferma  Anders Bergstrom, autore principale della ricerca presso il Wellcome Trust Sanger Institute. “I dati mostrano che i cromosomi Y del DNA degli aborigeni australiani sono molto distinti dai cromosomi indiani. Questi risultati consentono di confutare il precedente studio sul cromosoma Y, escludendo quindi che una parte del puzzle potesse essere risolto con questa presunta migrazione preistorica dall’India. Al contrario, i risultati ottenuti concordano con la documentazione archeologica del periodo in cui queste popolazioni giunsero in questa parte di mondo”.

“C’è grande interesse nella comunità aborigena nell’esplorare la loro ascendenza genetica e senza questa loro sentita partecipazione questo studio non sarebbe stato possibile”, dice John Mitchell, professore associato presso La Trobe University di Melbourne.

Ulteriori studi sono tuttavia necessari per rispondere ad altri interrogativi, quali ad esempio, i modi in cui il dingo giunse in Australia e – fatto ancor più intrigante e misterioso – perché mai altri esseri umani come i polinesiani, nonostante la fama di esperti marinai, non siano mai giunti  sul continente o non vi abbiano costruito insediamenti.

Estendendo le analisi genetiche oltre il cromosoma Y, e interessando quindi l’intero genoma, sarà necessario inoltre escludere completamente tutte le influenze genetiche esterne sulla popolazione aborigena australiana sopravvenute dopo la scoperta di queste terre, a ridosso dei tempi moderni.

Leonardo Debbia

Due nuovi ominidi scoperti nelle grotte di Sterkfontein

Due nuovi fossili di ominidi sono stati rinvenuti in una sala, finora inesplorata, all’interno delle grotte di Sterkfontein, a nord-ovest di Johannesburg, in Sud Africa.

  I due nuovi resti, un osso del dito e un molare, fanno parte di una serie di quattro fossili che paiono essere attribuibili a ominidi primordiali, associati tuttavia a strumenti in pietra, che si stabilirono nella grotta più di due milioni di anni fa.

Molare di ominide ritrovato nelle grotte di Sterkfontein, ripreso da più angolazioni (credit: Jason Heaton)
Molare di ominide ritrovato nelle grotte di Sterkfontein, ripreso da più angolazioni (credit: Jason Heaton)

“I campioni sono interessanti, non solo perché rinvenuti assieme ad utensili in pietra, ma anche perché sembrano possedere un insieme di caratteristiche realmente interessanti, che di fatto sollecitano domande più che fornire risposte”, spiega Dominic Stratford, docente della Scuola di Geografia, Archeologia e Studi ambientali presso l’Università di Witwatersrand, Johannesburg, nonché coordinatore della ricerca presso le Grotte di Sterkfontein.

Il primo fossile, un grande osso del dito prossimale, è significativamente più grande e più robusto di qualsiasi altro osso di ominide rinvenuto finora nei siti plio-pleistocenici sudafricani.

“E’ quasi completo e mostra un insieme di caratteristiche sia moderne che arcaiche, dato che è marcatamente ricurvo; più curvo che in Homo naledi – l’ominide posto tra Australopithecus afarensis e Homo – ma altrettanto curvo quanto le ossa molto più antiche dello stesso Australopihecus afarensi, la specie a cui appartiene lo scheletro parziale di ‘Lucy’, datato 3,2 milioni di anni”, commenta Stratford.

Da sottolineare che il livello di curvatura sovente è collegato all’esistenza arboricola, pur mancando qui di inserzioni muscolari pronunciate che avrebbero dovuto invece essere presenti.

“Il dito è simile, nella forma, al modello parziale proveniente dalla Gola di Olduvai, in Tanzania, che è stato riferito a Homo habilis, ma è molto più grande. Nel complesso, questo esemplare è unico tra gli ominidi fossili del plio-pleistocene del Sud Africa e merita di essere esaminato ulteriormente.

L’ osso del dito rinvenuto nelle grotte di Sterkfontein (credit: Jason Heaton)
L’ osso del dito rinvenuto nelle grotte di Sterkfontein (credit: Jason Heaton)

L’altro fossile è una porzione relativamente piccola di un dente adulto quasi completo, il primo molare, che presenta anche impressionanti similitudini con la specie Homo habilis.

“Per dimensioni e forma questo dente ha una certa somiglianza con due dei dieci molari degli esemplari di Homo naledi, anche se sono necessari ulteriori e più dettagliati confronti per confermarlo”.

La forma del dente, e in particolare la morfologia e le dimensioni della superficie masticatoria, suggeriscono che questo esemplare appartenesse ad uno dei primi individui del genere Homo.

L’altro indizio di cui tenere debito conto è l’associazione con gli utensili in pietra rinvenuti e datati sui 2,18 milioni di anni fa.

“Gli altri due fossili di ominidi trovati sono ancora in fase di studio e si spera di portare alla luce altri resti  per poter ampliare la nostra comprensione degli esseri che vissero e morirono in queste grotte, sulla collina di Sterkfontein, più di due milioni di anni fa”, dichiara Stratford.

Le grotte di Sterkfontein sono uno dei siti paleoantropologici più prolifici del mondo, a partire da quando, 80 anni fa, proprio qui venne scoperto il primo fossile di un Australopithecus, il primo Australopithecus africanus, ribattezzato anche ‘Mrs Ples’, ‘signora Ples’ (ma che poi – per inciso-  si rivelò essere un maschio), per proseguire con ‘Little Foot’ nel 1997, ed arrivare ai quattro fossili in argomento. Solo per citarne alcuni.

La rete sotterranea di grotte si estende per 5 chilometri e i sedimenti fossiliferi che le riempiono si ritiene siano stati depositati in un periodo di 3,67 milioni di anni.

Tuttavia, ben pochi di questi depositi profondi sono stati scavati sistematicamente e quindi, al momento, rimangono in gran parte sconosciuti. Il Milner Hall, dove sono stati rinvenuti i quattro fossili di ominidi è uno di questi, identificato da tempo ma esplorato e scavato solo dall’inizio del 2015.

E’ certo che gli scavi e le ricerche sulla collina di Sterkfontein hanno ancora molto da rivelare sui primi esseri della scala evolutiva che conduce agli esseri umani.

Leonardo Debbia

Da dove viene il gatto di casa?

Gli zoologi se lo sono chiesto da tempo e le scuole di pensiero, sostanzialmente, erano due, proprio come gli interrogativi che si ponevano.

Il gatto domestico fu importato in Cina da qualche altra regione prima di 5000 anni fa? Oppure, a quell’epoca, si provvide ad addomesticare proprio in Cina i piccoli gatti selvatici?

Insomma, l’origine del nostro micio era cinese o in Cina era solo stato allevato?

La risposta alle due ipotesi si è fatta attendere a lungo, finchè un team, formato dal Laboratorio di Archeozoologia e Archeobotanica  del Centro nazionale per la ricerca scientifica di Francia (CNRS), in collaborazione con studiosi britannici e cinesi, è riuscito a determinare le specie cui appartenevano i resti di gatto rinvenuti in alcuni insediamenti agricoli in Cina e databili a 3500 anni a.C.

Tutte le ossa appartengono al gatto leopardo, un lontano parente del gatto selvatico africano o occidentale, da cui discendono tutti i gatti domestici moderni.

Vista laterale del cranio di gatto domestico rinvenuto nel sito neolitico di Wuzhuangguoliang (Shaanxi, 3200-2800 a.C.) (credit: J.D. Vigne, CNRS / MNHN)
Vista laterale del cranio di gatto domestico rinvenuto nel sito neolitico di Wuzhuangguoliang (Shaanxi, 3200-2800 a.C.) (credit: J.D. Vigne, CNRS / MNHN)

I ricercatori sono così riusciti a fornire le prove che i primi gatti iniziarono ad essere addomesticati in Cina prima del 3000 a.C.

E’ uno scenario che chiama in causa il Vicino Oriente e l’Egitto, dove il rapporto tra l’uomo ed il gatto si sviluppò dopo la nascita dell’agricoltura.

I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista PloS ONE della scorsa settimana.

Attualmente, il gatto è l’animale domestico più diffuso nel mondo, con oltre 500 milioni di individui, tutti discendenti dalla specie africana e del Vicino Oriente (Felis silvestris lybica).

Secondo una ricerca svolta nel 2004, esseri umani e gatti iniziarono a mettersi in relazione nel Vicino Oriente, tra il 9000 e il 7000 a.C., quando l’uomo cominciò a praticare l’agricoltura.

Nel 2001, i ricercatori dell’Accademia cinese delle Scienze di Pechino, avevano scoperto ossa di gatti in insediamenti agricoli della Cina settentrionale (provincia di Shaanxi), risalenti al 3500 a.C.

Gatto leopardo (Prionailurus bengalensis)
Gatto leopardo (Prionailurus bengalensis)

Poteva essere la prova che le relazioni tra piccoli gatti ed esseri umani avevano avuto inizio in Cina nel IV millennio a.C.? O era il risultato dell’arrivo in Cina di gatti addomesticati dal Vicino Oriente?

Per avere la risposta giusta, il primo passo sarebbe stata l’identificazione delle specie cui appartenevano le ossa fossili rinvenute.

La sottospecie di piccolo gatto (Felis silvestris lybica), l’ascendente del micio attuale con cui conviviamo, non è mai stata rinvenuta in Cina.

Per cercare di risolvere la questione, una collaborazione di scienziati di diversi paesi, dal CNRS/ Museo nazionale francese di Storia naturale (MNHN), dall’Università di Aberdeeen e dall’Accademia cinese delle Scienze sociali, hanno intrapreso un’analisi morfometrica geometrica che, in assenza di DNA antico,  è l’unico modo di differenziare le ossa dei piccoli gatti, che hanno morfologia molto simile e le cui differenze sono spesso impercettibili usando le tecniche d’indagine convenzionali.

Gli scienziati hanno analizzato le mandibole di cinque esemplari rinvenuti a Shaanxi e Henan, risalenti al 3500-2000 a.C., giungendo a stabilire chiaramente che le ossa appartenevano tutte al gatto leopardo (Prionailurus bengalensis). Ancor oggi molto diffuso in Asia orientale, questo gatto selvatico, lontano parente del gatto selvatico occidentale (Felis silvestris lybica), è ben noto per la sua propensione a frequentare zone dove risiede una forte presenza umana.

Proprio come doveva essere accaduto nel Vicino Oriente e in Egitto, i gatti leopardo furono probabilmente attratti negli insediamenti cinesi dall’abbondanza di roditori, che proliferavano in vicinanza dei granai.

Gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica)
Gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica)

Queste conclusioni mostrano che un processo analogo a quello avvenuto nel Vicino Oriente ed in Egitto si sviluppò, in modo del tutto indipendente, in Cina, dopo la nascita dell’agricoltura, nell’ottavo millennio a.C.; con la differenza che in Cina fu il gatto leopardo (Prionailurus bengalensis) e non il gatto selvatico occidentale (Felis silvestris) a stabilire un primo rapporto con gli esseri umani.

La domesticazione del gatto ha avuto luogo, separatamente, almeno in tre regioni del mondo e dunque era giocoforza poterla collegare con gli inizi dell’agricoltura.

Tuttavia, i gatti domestici viventi oggi in Cina non discendono dal gatto leopardo, ma dal parente F. silvestris lybica. Quest’ultima specie ha quindi sostituito il gatto leopardo negli insediamenti cinesi dopo la fine del Neolitico.

Ma, se non era presente prima, da dove è arrivata questa specie nelle campagne cinesi?

Probabilmente, sarà giunto in Cina con l’apertura della Via della Seta, quando l’Impero Romano e l’Impero Han iniziarono a stabilire i primi tenui rapporti tra Oriente e Occidente.

Il fatto è che non ne siamo affatto sicuri e possiamo solo avanzare un’altra ipotesi.

Agli studiosi il compito di risolvere il nuovo quesito.

Leonardo Debbia

La prima “TAC” della Terra ci spiega le origine e gli sviluppi del vulcanesimo

I sismologi dell’Università della California, Berkeley, (UC) hanno eseguito per la prima volta in assoluto una scansione tridimensionale dell’interno della Terra. Per mezzo di questa tecnica è stato così possibile osservare i percorsi dei pennacchi di magma fuso che, risalendo nel mantello, vanno a collegarsi con gli hotspot in superficie della crosta, dove generano le catene di isole vulcaniche quali le Hawaii, Samoa e l’Islanda.

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Si è trattato, sostanzialmente, di una TAC (tomografia assiale computerizzata) dell’interno terrestre, mediante la quale è stata eseguita una simulazione al computer ad opera del National Energy Research Scientific Computig Center (NERCS), organo del Dipartimento dell’Energia presso il Lawrence Berkeley National Laboratory.

Mentre in campo medico le TAC impiegano i raggi X per sondare il corpo umano, gli studiosi della Terra se ne sono serviti per mappare i pennacchi del mantello, analizzando i percorsi delle onde sismiche propagatesi all’interno della Terra durante 273 forti terremoti che hanno scosso il pianeta negli ultimi 20 anni.

Precedenti tentativi di imaging dei pennacchi caldi del mantello avevano rilevato la presenza di sacche di roccia fusa nelle zone da cui avevano origine i pennacchi, ma non era chiaro se questi fossero direttamente connessi agli hotspot vulcanici di superficie e alle radici dei pennacchi al confine nucleo-mantello, 2900 chilometri sotto la superficie terrestre.

La nuova mappa ad alta risoluzione del mantello, eseguita seguendo i percorsi dei magmi fusi sotto la crosta terrestre e il nucleo di ferro del pianeta, non solo mostra i collegamenti con i numerosi hotspot sulla superficie terrestre, ma rivela anche che a 1000 chilometri circa al di sotto della superficie, tra i 600 e i 1000 chilometri, sono presenti dei pennacchi fino a cinque volte più ampi di quanto avessero ipotizzato i geofisici.

I pennacchi hanno probabilmente temperature stimate almeno 400°C più elevate della roccia circostante.

Barbara Romanowicz, docente di Scienze della Terra e Scienze Planetarie alla UC di Berkeley, autore senior dello studio, ha tuttavia osservato che le connessioni tra i pennacchi del mantello inferiore e i punti caldi vulcanici superficiali non sarebbero in realtà connessioni dirette, perché le estremità finali dei pennacchi, quando vengono a contatto con la roccia meno viscosa del mantello superiore e giungono in prossimità della superficie, appaiono ramificate e simili al delta di un fiume.

Le nuove immagini mostrano anche che le basi di questi pennacchi sono ancorate, al confine nucleo-mantello, a due enormi sacche di roccia calda, ciascuna di circa 5000 chilometri di diametro, che risultano più dense della roccia circostante.

Romanowicz ipotizza che queste due sacche, posizionate una direttamente di fronte all’altra e ancorate sotto l’Africa e l’Oceano Pacifico, siano rimaste stabili nella stessa posizione per 250 milioni di anni.

Schematizzazione dell’interno della Terra e degli strati concentrici disposti ‘a cipolla’ (da Wikipedia)
Schematizzazione dell’interno della Terra e degli strati concentrici disposti ‘a cipolla’ (da Wikipedia)

Lo studio, condotto in collaborazione con Scott W. French, assistente della Romanowicz alla UC Berkeley, è stato pubblicato sulla rivista Nature nel mese di settembre scorso.

L’interno della Terra ha confermato la sua disposizione a strati, come una cipolla.

Una crosta esterna solida comprende oceani e continenti, mentre al di sotto della crosta si trova uno spesso mantello di roccia molto calda ma solida, dello spessore di 2900 chilometri.

Sotto il mantello è presente il nucleo esterno, composto di ferro fuso e nichel, che racchiude a sua volta un nucleo più interno di ferro solido, che costituisce il cuore del pianeta.

Riscaldati dal calore del mantello, i magmi salgono e ridiscendono, analogamente ai moti convettivi che si possono osservare in una pentola d’acqua bollente, anche se nel mantello i moti convettivi scorrono molto, ma molto più lentamente.

Una trentina d’anni fa, i sismologi supponevano che solo occasionalmente i pennacchi caldi del mantello potessero raggiungere la superficie terrestre, dando origine a fenomeni eruttivi come i vulcani che, quando la crosta avesse ceduto, fessurandosi, avrebbero generato a loro volta catene di isole, come le Galapagos, Capo Verde e le Canarie.

Per creare una TAC ad alta risoluzione della Terra, Scott W. French ha usato simulazioni numeriche molto accurate dell’attraversamento del mantello da parte delle onde sismiche e ha confrontato le previsioni rilevate con il movimento reale del suolo misurato dai sensori disposti un po’ovunque nel mondo.

Precedenti tentativi degli studiosi spesso hanno limitato lo studio della fisica della propagazione delle onde, focalizzandosi principalmente sui tempi di arrivo di alcuni tipi di onde sismiche con differenti velocità di propagazione: le onde P (onde compressionali o longitudinali), in cui le particelle del mezzo attraversato vibrano sullo stesso piano della propagazione; e le onde S (onde trasversali), in cui le particelle vibrano perpendicolarmente alla direzione di propagazione.

French ha utilizzato simulazioni numeriche per calcolare tutte le componenti delle onde sismiche, comprese la dispersione e la diffrazione, ed ha ottimizzato ripetutamente il modello,  registrandone i dati.

Il calcolo finale ha richiesto 3 milioni di ore di lavoro su supercomputer NERSC, anche se il calcolo parallelo si è ridotto ad un paio di settimane.

Romanowicz spera di ottenere maggiori informazioni sull’interno della Terra concentrando l’indagine su aree specifiche, quali l’area al di sotto dell’Oceano Pacifico, o usando i nuovi dati.

 “Attualmente, la TAC è il metodo più efficace per le indagini, ma in futuro sarà usata in combinazione con misurazioni sempre più sensibili”, dichiarano i due ricercatori.

Leonardo Debbia