I brividi premonitori della Terra: segnali sismici dai tornado

Foto di un tornado in Oklahoma

Esperimenti geofisicici condotti dall’Università dell’Indiana, hanno scoperto inconsueti segnali sismici associati ai tornado che hanno colpito recentemente le regioni mediorientali degli Stati Uniti; informazioni che possono avere un certo valore per i meteorologi che studiano l’attività atmosferica immediatamente precedente l’arrivo del tornado.

Ma come nasce ed evolve un tornado?

 Quando alla base di un cumulonembo temporalesco l’aria calda e umida vicina al suolo viene aspirata in una massa d’aria più fredda, si forma un violento vortice d’aria associato a venti molto forti che possono raggiungere anche i 500 km/h.

  La violentissima corrente verticale appare come un gigantesco “imbuto”, chiamato anche “tuba”, reso visibile dalla condensazione del vapore al suo interno, dove la pressione atmosferica è molto bassa e le correnti ruotano rapidissime mentre discendono verso il suolo. Il diametro dell’imbuto varia da poche decine a qualche centinaio di metri ed i suoi effetti distruttivi sono impressionanti. La durata del tornado va da qualche minuto a qualche ora, per cui è difficile prevedere dove e quando questo fenomeno abbia la possibilità di formarsi. Ma forse d’ora in poi qualcosa potrà cambiare nelle previsioni, se sapremo interpretare i segnali che sono stati rilevati dai sismografi immediatamente prima del verificarsi di un tornado.

I ricercatori dell’Università dell’Indiana hanno studiato, infatti, le informazioni pervenute da oltre un centinaio di sismografi dislocati nella parte orientale degli USA. Uno dei tornado che ha colpito il Sud-Est del Missouri e il Sud dell’Illinois il 29 febbraio 2012 è stato registrato da questa rete sismografica.

“Nell’esaminare i sismogrammi abbiamo osservato particolari segnali sismici su tre delle nostre stazioni nel Sud dell’Illinois” – ha detto Michael Hamburger, professore del Dipartimento di Scienze Geologiche della Indiana University Bloomington, uno dei ricercatori che hanno condotto l’esperimento. “I sismogrammi mostrano un forte impulso di bassa frequenza che ha avuto inizio alle 04.45 del 29 febbraio. La nostra interpretazione preliminare, sulla base di altre registrazioni sismiche di tornado, suggerisce che stavamo registrando non il tornado, ma una forte pressione atmosferica transitoria riferita ai temporali che avevano generato il tornado.” I sismografi che hanno rilevato l’impulso erano collocati vicino a Harrisburg, una cittadina di 9.000 abitanti dell’Illinois, colpita, prima dell’alba, dal tornado che causò ingenti danni, provocò la morte di sei persone e ne ferì più di cento.

Il grafico mostra la collocazione dei sismografi nel Missouri orientale e nel Sud dell’Illinois e il percorso del tornado che ha colpito Harrisburg - Illinois il 29 febbraio scorso.

 I ricercatori hanno temuto che alcuni strumenti avrebbero potuto essere stati danneggiati dalla tempesta. Ma Gary Pavlis, professore di Scienze geologiche e coordinatore del progetto, controllando le registrazioni digitali delle stazioni dell’Illinois, trovò che i dati erano stati correttamente registrati e trasmessi. Il controllo ha così consentito di rilevare i segnali  precedenti il passaggio del tornado di Harrisburg.  Hamburger ha affermato che il gradiente di pressione sismica associata al tornado è durato diversi minuti e ritiene che questo tipo di segnale relativo alla pressione può aiutare gli scienziati a capire meglio l’attività atmosferica che si svolge  prima che il tornado tocchi terra. I ricercatori stanno lavorando in accordo con i colleghi della University of California, S. Diego  per tentare di comparare registrazioni di altri segnali correlati ai tornado, approfondendone così l’analisi per una migliore comprensione del fenomeno.

Negli USA è stato messo a punto un esperimento denominato OIINK (dalle iniziali delle zone interessate: l’altopiano dell’Ozarks negli Stati Uniti centrali, Illinois, Indiana e Kentucky), che prevede il posizionamento di 120 sismometri nell’area in esame al fine di studiare i terremoti e la struttura geologica in un settore chiave degli Stati Uniti. I lavori di installazione delle apparecchiature sono iniziati nell’estate scorsa.

 Leonardo Debbia

Dinosauri ornitischi: due nuove specie entrano ora nel gruppo

Unescoceratops koppelhusae
Unescoceratops koppelhusae (in alto) e Gryphoceratops morrisoni (a destra), i nuovi dinosauri scoperti nella provincia di Alberta, Canada.

Una equipe di paleontologi, guidata da Michael Ryan, curatore di paleontologia dei vertebrati al “Cleveland Museum” di Scienze Naturali dell’Ohio, esaminando alcuni resti fossili raccolti parecchi anni fa nella provincia di Alberta, Canada, ha individuato e dato il nome a due nuove specie di dinosauri. Dopo anni di attesa, la loro posizione tassonomica è stata così finalmente stabilita.

Le due specie sono state chiamate rispettivamente Unescoceratops koppelhusae e Gryphoceratops morrisoni e riconosciute appartenenti ad una Famiglia di dinosauri ornitischi, i Leptoceratopsidi.

Provvisti di corna, questi piccoli erbivori vissero fianco a fianco dei loro mastodontici parenti, come il Triceratopo, nel tardo Cretaceo del Nord America, tra i 75 e gli 83 milioni di anni fa. Lo studio di queste specie è stato pubblicato sulla rivista Cretaceous Research nel gennaio scorso.

Gryphoceratops morrisoni
Gryphoceratops morrisoni

“Questi esemplari vengono a colmare un’importante lacuna nella storia evolutiva dei dinosauri con le corna di piccola taglia, cui manca il grosso corno e i fronzoli caratteristici dei Triceratopi del Nord America”, afferma Michael Ryan, principale autore della ricerca.

Ricostruzione di Triceratopo, della Famiglia dei Ceratopsidi, “cugino” più grande (lunghezza 9 metri) dei nuovi Leptoceratopsidi.

“Sebbene i dinosauri con le corna siano originari dell’Asia” – continua Ryan – “ le nostre osservazioni ci inducono a supporre che i Leptoceratopsidi si siano diffusi nel Nord America e qui si siano diversificati proprio a partire dal Gryphoceratops, che è la prima specie del gruppo ad essere documentata in questo continente”.Per questa specie, come si è detto, è stato scelto il nome scientifico di Gryphoceratops morrisoni.

Il genere (Gryceratops) prende il nome dal grifone, figura mitologica dal corpo di leone e il becco d’aquila, in riferimento al becco dell’animale; mentre il nome della specie (morrisoni) deriva da Ian Morrison, tecnico del Royal Ontario Museum, che si occupò di rimettere in connessione le ossa. I frammenti di mascella inferiore destra del Gryphoceratops erano stati scoperti nel 1950 da Levi Sternberg, mentre lavorava per il Royal Ontario Museum di Alberta. Nel fossile rinvenuto la forma della mandibola appare più corta e più spessa rispetto agli altri Leptoceratopsidi. I ricercatori ritengono che si tratti di un esemplare adulto, il che significa che Gryphoceratops morrisoni non cresceva più di 50 cm di lunghezza. Sarebbe quindi il più piccolo esemplare ritrovato nel Nord America, dove visse 83 milioni di anni fa, e uno dei più piccoli in tutto il mondo. Dell’altra specie individuata, Unescoceratops koppelhusae, fu scoperto un frammento di mandibola sinistra nel 1995 da Philip Currie, professore dell’Università di Alberta, nel “Dinosaur Provincial Park”, in Canada, un sito appartenente all’UNESCO.

Descritto per la prima volta nel 1998 da Michael Ryan e Philip Currie, originariamente il dinosauro era stato catalogato come Leptoceratops. In seguito lo stesso Ryan e David Evans, curatore associato di paleontologia dei vertebrati del Royal Ontario Museum e professore dell’Università di Toronto, sulla base di ulteriori studi, ritennero che questo esemplare costituisse invece un nuovo genere e una nuova specie a sé stanti.
Il nome del genere è stato dato in onore della UNESCO World Heritage Site, il luogo dove era stato rinvenuto il fossile, congiunto poi al termine greco “ceratops” che significa “faccia di corno”.
La specie prende invece il nome da Eva Koppelhus, palinologa dell’Università di Alberta e moglie di Currie.

Di questa specie, che visse approssimativamente 75 milioni di anni fa, sappiamo che misurava da uno a due metri di lunghezza e pesava meno di 91 chilogrammi. Aveva un collare corto, provvisto di una piccola frangia che si estendeva dietro la testa, ma non aveva ornamenti sul cranio. Era dotato di un becco simile a quello di un pappagallo e, rispetto agli altri Leptoceratopsidi, aveva denti più bassi e più rotondi e inoltre gli mancava il corno caratteristico degli altri appartenenti alla Famiglia.

La mascella, a forma di ascia, aveva una porzione distinta di osso, sporgente al di sotto della mascella stessa come un piccolo mento.
David Evans asserisce che “I piccoli corpi di questi dinosauri sono in genere scarsamente rappresentati nella documentazione fossile perché si conservano in modo frammentario, come questi nuovi Leptoceratopsidi, che però possono darci un grande contributo per conoscere l’ecologia e l’evoluzione dei dinosauri”.

Leonardo Debbia

Inquinamento da mercurio nell’Artico. E’ il ghiaccio che si scioglie.

inquinamento mercurio ghiaccio scioglieLa NASA, a mezzo dell’Agenzia Reuters, ha comunicato che uno studio appena concluso ha mostrato come la significativa diminuzione del ghiaccio artico degli ultimi dieci anni abbia accelerato una reazione chimica che porta alla formazione di mercurio tossico.

E’ stato osservato che lo spesso strato di ghiaccio artico, assottigliandosi, è divenuto più ricco in sale, rilasciando nell’atmosfera una certa quantità di bromo, presente nell’acqua di mare sotto forma di sali (bromuri).

Lo studio è stato condotto da un team di scienziati provenienti da Stati Uniti, Canada, Germania e Gran Bretagna, guidati da Son Nghiem, ricercatore NASA del Jet Propulsion Laboratory di Pasadena.

Gli studiosi affermano che l’interazione tra bromo, luce solare e basse temperature innesca una reazione chimica che è stata definita “esplosione di bromo”.  Il bromo rilasciato rimuove l’ozono dalla troposfera, il livello più basso dell’atmosfera. Dalla reazione con l’ozono, si formano infatti un elevato numero di molecole di monossido di bromo che reagiscono poi con il mercurio gassoso presente nell’atmosfera. La conseguenza è duplice: diminuzione dei livelli di ozono e liberazione di un inquinante altamente tossico che va a ricadere sulla superficie terrestre e nell’acqua, contaminando anche i pesci. Queste alte concentrazioni di bromo nell’atmosfera erano state scoperte una ventina d’anni fa sull’Artico canadese, ma non se ne conoscevano le cause.

Nel 2008 gli scienziati associarono l’accrescimento di bromo atmosferico alla riduzione di mercurio e ozono. Il mercurio rilasciato nell’atmosfera in fase gassosa è di per sé innocuo, ma potenzialmente nocivo. Infatti, in presenza di bromo e sotto l’azione della luce solare, si ossida e si trasforma in monossido di mercurio, altamente inquinante e pericoloso per gli animali, uomo compreso. I suoi depositi danneggiano sistema nervoso centrale, cuore e apparato immunitario. Laura Sherman, del Department of Earth and Environmental Science dell’Università del Michigan, aveva già studiato il fenomento e nel febbraio del 2010 aveva pubblicato le proprie conclusioni sulla rivista Nature Geoscience.

“Gli esperimenti – aveva affermato la studiosa – hanno dimostrato che una porzione piuttosto significativa del mercurio depositato sulla neve ritorna nell’atmosfera e questo processo è anche una “impronta” che può aiutarci per studiarne l’andamento nel tempo”. Queste conclusioni sono state confermate dal team di Son Nghiem, che ha riferito i risultati ottenuti sul Journal of Geophysical Research-Atmospheres utilizzando i dati provenienti da 6 satelliti della NASA, della European Space Agency e della Canadian Space Agency. “Si pone molta attenzione al ritiro dei ghiacci estivi per sfruttare adeguatamente le risorse dell’Artico e per migliorare le rotte commerciali marittime” – dice Son Nghiem – “Ma il cambiamento della composizione del ghiaccio ha anche un impatto sull’ambiente”.

Verificato che le esplosioni di bromo erano avvenute negli strati inferiori dell’atmosfera, ne è stata collegata l’origine con l’aumento della salinità della superficie del mare in seguito alla fusione del ghiaccio.
“Cambiando le condizioni nell’Artico, con lo scioglimento dei ghiacci e l’aumento della salinità, le esplosioni di bromo potrebbero aumentare in futuro” – avverte Son Nghiem.
Lo scienziato sta ora conducendo una campagna titolata BROMEX (Bromine, Ozone and Mercury) che coinvolge 20 organizzazioni internazionali, con lo scopo di sensibilizzare comunità scientifica e opinione pubblica sulla questione, nonchè offrire nuove prospettive sulle esplosioni di bromo e sul loro impatto ambientale.

Leonardo Debbia

L’estinzione del Neanderthal europeo è cominciata prima dell’arrivo del Sapiens

Nuove scoperte fatte da un team internazionale di ricercatori mostrano che la maggior parte dei Neanderthal  europei si estinse 50mila anni fa, ancora prima dell’arrivo in Europa dell’Homo sapiens, che avvenne attorno ai 40mila anni fa.

A questo evento sopravvisse soltanto un piccolo gruppo di Neanderthal che avrebbe ricolonizzato l’Europa centrale e occidentale, rimanendo da solo per altri 10mila anni.
Questo nuovo scenario che si apre sull’esistenza e l’evoluzione dei Neanderthal in Europa scaturisce da uno studio su DNA antico pubblicato il 25 febbraio scorso su Molecular Biology and Evolution. Lo studio è il risultato di un progetto internazionale condotto da ricercatori svedesi e spagnoli delle Università di Uppsala, Stoccolma e Madrid.

Ma ripercorriamo le varie fasi che hanno caratterizzato quell’epoca remota.
Circa 200mila anni fa, nel Paleolitico medio, in Europa vennero lentamente a definirsi i caratteri di una nuova specie umana, evolutasi con ogni probabilità da Homo heidelbergensi; si trattava dell’Homo Neanderthalensis.
Il primo fossile fu rinvenuto nel 1856 in Germania, nella valle di Neander (thal= valle, in tedesco moderno “tal”), da cui prese il nome la nuova specie.

H. neardenthalensis (La Ferrassie ca 50mila anni)

I caratteri fisici e in particolare la calotta cranica bassa e larga, di capacità simile a quella dell’uomo attuale (1600 cc contro i nostri 1300-1500), ne permisero l’attribuzione al genere Homo.
Il Neanderthal  visse in climi particolari, nell’arco di tempo compreso tra l’ultimo periodo interglaciale Riss-Wurm (200-125mila anni fa) e la prima parte della glaciazione wurmiana (90-11mila anni fa), all’acme della quale, tra i 25 e i 22mila anni fa, si estinse.
Fin dalla scoperta dei primi resti, ci si chiese quale posizione questa specie occupasse e quale ruolo potesse avere avuto nella scala evolutiva. Il dubbio se i neandertaliani potessero avere incontrato i sapiens, procreato e quindi essere considerati o meno nostri antenati è stato a lungo discusso e ora finalmente dissipato.
Oggi tutti gli studiosi concordano: le due specie si sono incrociate e l’ibridazione è di certo avvenuta, ma soprattutto – e questo è l’importante – l’ibridazione fu fertile, dette origine a prole.
Nel 2001 Damian Lauda, del Dipartimento di Pediatria dell’Università di Montreal, aveva individuato un frammento sconosciuto di DNA del cromosoma X, presente in una percentuale media del 9% in tutti i popoli della Terra, ad eccezione degli africani.
Si sospettava che potesse appartenere al Neanderthal, ma non fu possibile allora fare confronti.
Nel 2010 fu sequenziato il genoma del Neanderthal  e, comparando il DNA di oltre 6.000 esseri umani moderni sparsi in tutti i continenti, si scoprì che il frammento misterioso era proprio quello del Neanderthal. Era una prima conferma genetica dell’avvenuta ibridazione.
Le tracce genetiche presenti negli eurasiatici e nei nativi americani, ma non negli africani, suggeriscono che il contatto tra le due specie sia avvenuto circa 80mila anni fa nel Vicino Oriente, dopo che i sapiens avevano lasciato l’Africa.
A conferma di tutto questo, la rivista  Science ha riportato che una percentuale, sia pure bassissima (1-4%) del genoma degli esseri umani moderni proviene senza dubbio dalla specie Neanderthal.
Sulle basi genetiche, da ulteriori analisi del DNA si è potuto verificare che la varietà delle popolazioni neandertaliane antiche fu grande, analoga alla varietà dell’uomo attuale. Ad una grande variazione genetica corrisponde un gran numero di individui, mentre una bassa variazione significa un numero limitato di individui.
“La quantità di variazione genetica nei Neandertaliani più antichi, sia europei che asiatici, era grande quanto quella degli esseri umani moderni, mentre la variazione fra i Neandertaliani  europei più recenti era inferiore alla popolazione islandese attuale”, dice Anders Gotherstrom, professore associato dell’Università di Uppsala.
Esaminando il DNA dei fossili neandertaliani del Nord della Spagna, i ricercatori hanno osservato che la variazione genetica fra i Neanderthal europei fu estremamente limitata durante gli ultimi 10mila anni prima che i Neanderthal scomparissero.
Cosa è accaduto, allora, di così drastico da ridurre la variabilità e quindi il numero degli individui nel confronto tra Neanderthal antichi e Neanderthal recenti?
I Sapiens, come detto, giunsero in Europa dall’Africa circa 40mila anni fa, quindi per circa 10-12mila anni  le due specie hanno convissuto sul continente europeo.
L’arrivo del Sapiens e la competizione per le medesime risorse potrebbe aver portato il Neanderthal  all’estinzione definitiva. Secondo una simulazione al computer, dopo 1500 generazioni, dato l’elevato numero dei Sapiens, i neandertaliani, già ridotti di numero e sotto la pressione dei Sapiens, si sarebbero avviati verso l’estinzione.
Questa considerazione è valida per la loro scomparsa.
Ma se l’estinzione era iniziata 50mila anni fa, prima dell’arrivo del Sapiens, in un’epoca in cui l’Europa era popolata solo da neandertaliani e sporadici gruppi residui pre-neandertaliani, quale evento determinò questa estinzione?
“Il fatto che i Neanderthal in Europa si siano prima quasi estinti, ma poi siano sopravvissuti ancora per alcune migliaia di anni, e tutto questo sia avvenuto molto tempo prima che entrassero in contatto con esseri uomini moderni è per noi una assoluta sorpresa. Questo indica che i Neanderthal  possano aver sofferto i drammatici cambiamenti climatici dell’ultima Era glaciale molto più di quanto si sia finora ritenuto”, dice Love Dalèn, professore associato del Swedish Museum of Natural History di Stoccolma.
L’ipotesi fatta dallo studioso svedese ci pare la più attendibile.
In effetti, mancando un’altra popolazione che contendesse le fonti alimentari o si ponesse in antagonismo per la conquista del territorio e in considerazione della particolare rigidità del clima (ricordiamo che l’ultima glaciazione, il Wurm, è iniziata attorno ai 90mila anni), si deve ammettere che le fluttuazioni delle temperature possano aver svolto un ruolo determinante per la sopravvivenza di quella specie. Gli individui più deboli inevitabilmente soccombevano, la variazione genetica diventava sempre più piccola e il numero degli esseri viventi diminuiva.
I risultati li avrebbero subìti i discendenti qualche decina di migliaia di anni dopo con la definitiva uscita di scena.

Leonardo Debbia

Nuove immagini dalla Luna. E ancora interrogativi.

Graben lunari
Foto dei graben lunari (da LRO-NASA).

Eravamo convinti di conoscere quasi tutto sulla Luna. Eravamo riusciti anche ad elaborare una teoria che metteva tutti d’accordo sulla sua origine. Non solo eravamo riusciti a vedere la sua faccia nascosta, a calpestarne la superficie e a mandare i nostri robot a raccogliere i campioni di rocce. L’avevamo anche fotografata e filmata un po’ ovunque. Nonostante tutto questo, la Luna ci riserva ancora qualche sorpresa. Il veicolo spaziale Lunar Reconnaisance Orbiter (LRO) della NASA, lanciato nel 2009, ci ha inviato immagini sorprendenti, che aggiungono qualcosa di veramente nuovo.

Le immagini ad alta risoluzione trasmesse dal LRO mostrano la superficie lunare incisa da lunghi solchi irregolari, valli strette e poco profonde che risultano essere tipiche deformazioni da “stiramento” della crosta. Gli scienziati suppongono che questi eventi geologici si siano verificati meno di 50 milioni di anni fa, un periodo da considerare recente, se paragonato all’età della Luna (circa 4,5 miliardi di anni).

Queste valli lineari, vere “trincee”, strette ma di notevole lunghezza, sono in realtà fosse tettoniche, conosciute anche sulla Terra e chiamate con il termine tedesco “graben”, che significa appunto fossa. Queste grandi spaccature si formano quando la crosta è soggetta ad un movimento di  distensione, che ne provoca la rottura e un conseguente abbassamento dell’area interessata lungo i due limiti di faglia paralleli, originando così una depressione.

Nelle foto si evidenzia un gruppo di sistemi di graben disposti trasversalmente sulla superficie lunare.

Raffigurazione della formazione di Graben terrestri. Con questo termine in Geologia si indica una porzione di crosta sprofondata in un sistema di faglie in regime distensivo, in una fase cioè in cui la crosta cede, “stirata” dalla distensione secondo le direzioni indicate dalle frecce.

“Riteniamo che la Luna attraversi una fase di contrazione globale a causa del raffreddamento di un interno ancora caldo” – afferma Thomas Watters del Center for Earth and Planetary Studies presso lo Smithsonian’s National and Space Museum di Washington – “I graben indicano però che le forze di contrazione sulla Luna sono deboli, certamente inferiori alle forze che agiscono per distendere la crosta. Altrimenti, i graben non avrebbero potuto formarsi”.

La debole contrazione suggerisce che la Luna, al contrario dei pianeti come la Terra, non si sia fusa completamente nelle primissime fasi della sua evoluzione (4,6 miliardi di anni fa).

E’invece probabile che si sia formato un nucleo interno solido, coperto da un oceano globale di roccia fusa.

Nel 2010 il team di ricercatori aveva usato le immagini del LRO per identificare sulla superficie lunare i segni fisici della contrazione e aveva scoperto che la Luna si era rimpicciolita di circa 182 metri dalla sua formazione. Questo era stato affermato, in base alla presenza delle cosiddette “scarpate lobate”, formazioni geologiche simili a rupi risalenti a quando la Luna aveva iniziato a raffreddarsi e la crosta a contrarsi.

Le scarpate, dal momento che erano diffuse su tutta la superficie lunare, costituivano la prova che la Luna si era ridotta a livello globale e che questa contrazione poteva essere ancora in atto.

In questa nuova ricerca, i graben sono stati una scoperta inaspettata e le immagini sono le prove evidenti che la crosta lunare, lungi dal contrarsi, sia invece soggetta a forze distensive.

“Questa distensione ci dice che la Luna è tuttora attiva” – ribadisce Richard Vondrak, studioso  del progetto LRO del Goddard Space Flight Center – NASA di Greenbelt, nel Maryland. “Il Lunar Reconnaisance Orbiter ci permette una visione dettagliata di questo processo”.

Con il procedere della missione del LRO, gli scienziati avranno un quadro ancora più ampio di quanto siano comuni questi recenti graben e quali altre caratteristiche tettoniche possano essere presenti nelle aree più vicine.

“E’stata una grande sorpresa quando ho notato i graben” – afferma lo studioso Mark Robinson della School of Earth and Space Exploration presso l’Arizona State University, principale ricercatore del LRO – “Ho subito inquadrato l’area per le immagini stereo ad alta risoluzione in modo da poter avere una visione tridimensionale dei graben..E’ eccitante quando si scopre qualcosa di totalmente inaspettato”.

“E ho ripreso in alta risoluzione soltanto la metà circa della superficie lunare!” – conclude Robinson – “C’è ancora molta più Luna da esplorare!”.

 

 

 

Leonardo Debbia

Macchie solari in calo? Ma che freddo fa!

Da tempo gli scienziati sono dell’opinione che l’aumentato numero di inverni più freddi sia direttamente correlato con l’attività del Sole e particolarmente con le macchie solari.

E’ di questo parere anche Mike Lockwood, meteorologo dell’Università di Reading, nel Regno Unito, in riferimento alla particolare rigidità degli inverni europeo e americano del 2009, ripetutasi quest’anno; rigidità associata alla bassa attività solare iniziata già negli anni ’80.

Lockwood ha studiato l’andamento delle macchie solari negli ultimi 9mila anni ed ha scoperto che l’attività solare ha un andamento ciclico con un periodo di  400 anni: per 300 anni tende a crescere e nei 100 anni successivi tende a diminuire.

Il numero delle macchie ha andamento ciclico undecennale, con un massimo e un minimo.

Il ciclo fu scoperto nel 1845 dall’astronomo dilettante tedesco Heinrich Schwabe sulla base di osservazioni durate decenni, anche se era già stato intuito in precedenza dall’astronomo danese Christian Horrebow. Il numero delle macchie è strettamente connesso con l’attività del Sole e con l’intensità della radiazione: maggior numero di macchie significa una maggiore attività solare.

Il più recente periodo di bassa attività solare si è registrato dal 1620 al 1720, in corrispondenza del cosiddetto “Minimo di Maunder”, quel periodo caratterizzato da inverni particolarmente rigidi che coinvolsero tutta l’Europa e che coincise con la totale sparizione delle macchie dalla superficie del Sole.  Dal 1720 l’attività solare riprese quindi ad aumentare fino agli anni ’80 del XX secolo.

Andamento ciclico dell’attività solare – Grafico del numero di macchie solari negli ultimi 400 anni
Andamento ciclico dell’attività solare – Grafico del numero di macchie solari negli ultimi 400 anni.

 

Dal 1720 l’attività solare riprese quindi ad aumentare fino agli anni ’80 del XX secolo.

Dal 1985 infatti, riferisce Lockwood, ricordando l’inverno rigido di quell’anno, l’attività del Sole ha nuovamente ripreso a diminuire, in accordo con la diminuzione del numero di macchie solari; andamento che dal 2004 in poi ha subìto un’accelerazione.

Ci si avvia quindi verso un nuovo “minimo di Maunder”? Gli studi di Lockwood lo affermano e prevedono il raggiungimento di questo minimo tra una cinquantina d’anni.

Ma cosa sono in realtà le macchie solari?

Macchie solari
Macchie solari.

Sappiamo che le macchie solari corrispondono ad aree della superficie del Sole in cui la temperatura è più bassa (circa 4mila gradi Kelvin) del resto della stella (5-6mila gradi) e che appaiono come zone più scure, chiaramente visibili anche con telescopi di scarsa potenza, tanto è vero che i primi ad osservarle, ad occhio nudo, furono gli astronomi cinesi nel primo millennio d.C.

Si tratta in effetti di vere e proprie tempeste elettromagnetiche, perturbazioni originate dall’intenso campo magnetico del Sole che in queste aree impedisce la risalita dei gas e del calore dall’interno della stella, provocando la formazione di zone più fredde e più scure.

Si deve precisare che l’intensità solare che influenza il clima terrestre non dipende però tanto dalla quantità di radiazione ricevuta dalla Terra quanto dalla energia che le macchie solari  trasmettono e quindi dal numero di queste.

Solo nel 2009 un team di fisici americani e tedeschi dell’NCAR (National Center for Atmospheric Research) del Colorado, è riuscito a interpretare un secolo di correlazioni tra attività solare e clima terrestre, giungendo a spiegare le complesse interazioni tra radiazione solare, atmosfera e correnti oceaniche.

Per quanto riguarda l’emisfero boreale, oggi sappiamo che periodi di bassa attività solare sono accompagnati dalla formazione di un anticiclone stazionante sull’Europa centrosettentrionale, al cui bordo meridionale fluiscono correnti gelide che da Nord-Est trascinano verso Sud-Ovest masse imponenti di aria fredda cui dobbiamo l’abbassamento delle temperature delle ultime settimane.

Secondo Lockwood una scarsa attività solare blocca le “jet streams”, le correnti a getto, i veri e propri fiumi d’aria che scorrono nella stratosfera, appena al di sotto della troposfera, a 7-12 km di quota e a velocità comprese tra i 150 e i 300 Km orari da Ovest verso Est.

Ogni emisfero ha due correnti, una che scorre alle alte latitudini ed una, meno intensa, subequatoriale. Quando nel nostro emisfero quest’ultima viene “bloccata”, cessano di spirare i venti caldi da Ovest e sull’Europa arrivano i venti gelidi dell’Est. Questo si è verificato anche durante il minimo di Maunder.

Ma cosa causa questo “blocco”?

Il blocco della corrente a getto è provocato dalla quantità di radiazione ultravioletta proveniente dal Sole che la riscalda . Il riscaldamento deriva dalla trasformazione di Ossigeno biatomico che sotto l’azione dei raggi ultravioletti si trasforma in Ozono (Ossigeno triatomico). Questa è una reazione esotermica, che sviluppa calore e questo calore scalda la corrente a getto, che si “frantuma” in più rami.

Come conseguenza, i venti caldi occidentali non arrivano più sull’Europa, lasciando il posto all’afflusso di aria fredda dall’Artico e dalla Siberia.

Leonardo Debbia

La “Piccola Era glaciale”: i vulcani unici responsabili

La Piccola Era glaciale i vulcani unici responsabili
Hendrick Avercamp (1585-1634) - A scene on the ice

Sulla rivista scientifica Geophysical Research Letters è stato pubblicato il risultato di uno studio sulla “Piccola Era Glaciale” che potrebbe mettere fine alla disputa sulle origini del fenomeno.

La ricerca è stata condotta da Gifford Miller dell’Università del Colorado, in collaborazione con altri studiosi islandesi, californiani e scozzesi e finanziata dalla National Science Foundation, dal National Center for Atmospheric Research e dalla Iceland Science Foundation.

Ma, innanzitutto, vediamo di definire meglio l’oggetto di questa indagine. La Piccola Era Glaciale (in inglese, Little Ice Age) è un periodo di tempo che va dai primi del 1300 al 1850 circa, caratterizzato da un abbassamento delle temperature medie e da inverni molto rigidi in tutto l’emisfero boreale. Forse, sarebbe più corretto chiamare questo periodo “Piccola età glaciale”, dal momento che il fenomeno ebbe una durata limitata a “soltanto” 650 anni circa, un tempo assai inferiore alle dimensioni di un’Era vera e propria, ossia milioni di anni.

Tralasciando le considerazioni sulla definizione, è necessario riconoscere che finora questo lungo periodo freddo è sconosciuto al grande pubblico e se ne parla solo in sedi prettamente interessate ai fenomeni climatici. Nessun testo scolastico ne fa cenno, anche se le ricadute sul Nord Europa ci furono eccome: carestie e pestilenze che decimarono intere popolazioni; abbandono in massa di abitanti della Groenlandia; isolamento di intere regioni settentrionali e via dicendo.

Eppure, questo periodo storico è stato caratterizzato da cambiamenti epocali: la scoperta dell’America, l’avvento di correnti illustri di pensiero (il Rinascimento, l’Illuminismo), le svolte storiche ed economiche (le Rivoluzioni americana e francese), lo sviluppo di nuove teorie scientifiche. Pensiamo alle menti eccelse che lo hanno attraversato, quali Leonardo da Vinci e Galileo, Newton e Carlo Linneo, senza peraltro che di questo evento siano rimaste tracce nei loro studi o nei loro scritti.

Rimangono tuttavia le testimonianze visibili nei quadri dei pittori fiamminghi, che ritraggono paesaggi insolitamente gelati in luoghi dove non ci si aspetterebbe di trovarne. Rimangono le raffigurazioni del fiume Tamigi, sulla cui superficie ghiacciata si tenevano, in quel periodo, fiere e mercati o dipinti di persone che pattinano sui canali olandesi trasformati in lastroni di ghiaccio.

Finora gli scienziati avevano ritenuto che la Piccola era glaciale fosse stata causata da una diminuzione della radiazione solare o da eruzioni vulcaniche che avevano raffreddato la Terra con l’emissione di solfati e altri particelle in sospensione che riflettevano la luce solare nello spazio. Oppure, anche da un effetto combinato dei due fenomeni.

Il team di Miller sostiene che la fase iniziale del periodo freddo sia da attribuirsi ad una insolita, intensa attività vulcanica tropicale iniziata tra il 1275 ed il 1300 e ripetutasi nel 1500.

“Questa è la prima volta che qualcuno ha chiaramente identificato l’inizio specifico del freddo, segnando l’inizio della Piccola era glaciale” – afferma Miller – “Noi abbiamo anche individuato un sistema di feedback climatico comprensibile che spiega come questo periodo freddo abbia potuto mantenersi per un lungo periodo di tempo. Se il clima viene alimentato sempre più da condizioni fredde per un periodo relativamente corto – in questo caso dalle eruzioni vulcaniche – l’effetto di raffreddamento viene cumulandosi”.
Lo studio ha inizialmente analizzato resti di vegetazione fossile, ghiaccio e sedimenti marini ed effettuato poi modelli climatici computerizzati.
Miller e i suoi colleghi hanno datato con il radiocarbonio circa 150 campioni di piante morte con le radici ancora intatte, raccolte sotto le calotte di ghiaccio delle Isole Baffin, nell’Artico canadese. Le piante erano state inglobate nel ghiaccio durante un evento improvviso avvenuto in due tempi, tra il 1275 ed il 1300 e ripetutosi nel XVI secolo. Questo evento improvviso poteva essere ricondotto ad una intensa attività vulcanica eruttiva.

La persistenza di estati fredde conseguenti alle eruzioni vulcaniche viene spiegata con una susseguente espansione di ghiaccio marino e un relativo indebolimento delle correnti atlantiche, in accordo con le simulazioni condotte al computer.

“Le nostre simulazioni hanno mostrato che le eruzioni vulcaniche  possono avere avuto un profondo effetto raffreddante” – ribadisce Bette Otto-Bliesner, scienziato del NCAR e collaboratore nella ricerca. “Le eruzioni possono aver dato inizio ad una reazione a catena, coinvolgendo il ghiaccio marino e le correnti oceaniche in modo da mantenere basse le temperature per secoli”.

Cercando altre conferme, sono stati analizzati anche i sedimenti di un lago glaciale di 367 miglia quadrate, il Langjokull Ice Cap, sull’altopiano centrale dell’Islanda. Gli strati annuali delle carote, datati in concordanza con depositi di tefrite, materiale piroclastico delle eruzioni vulcaniche islandesi dell’ultimo millennio, sono risultati più sottili nel tardo 13° secolo e ancora nel 15° secolo, a causa di un aumento dell’erosione ad opera della calotta di ghiaccio.

“Questo ci fa pensare che ci sia stata una importante perturbazione nel clima dell’emisfero Nord verso la fine del 13° secolo” – afferma Miller.

Per le simulazioni, è stato usato il Community Climate System Model, che è stato sviluppato dagli scienziati del NCAR e dal Dipartimento per l’Energia con colleghi di altre organizzazioni per testare gli effetti del raffreddamento vulcanico sulla portata e la massa del ghiaccio marino artico. La simulazione delle condizioni del ghiaccio marino dal 1150 al 1700 ha mostrato che alcune eruzioni ravvicinate di grandi dimensioni avrebbero potuto raffreddare l’emisfero Nord a sufficienza per attivare l’espansione del ghiaccio artico.

Il modello ha mostrato anche che l’intenso raffreddamento dei vulcani avrebbe potuto causare l’espansione del ghiaccio artico lungo la costa orientale della Groenlandia fino allo scioglimento
nel Nord Atlantico. Quando il ghiaccio marino contenente una quantità ridotta di sale si scioglie, la superficie del mare diviene meno densa e non avviene il rimescolamento con l’acqua più profonda nord-atlantica. Questo meccanismo ha affievolito il ritorno di calore verso l’Artico e ha creato un  feedback sul ghiaccio artico, dopo gli effetti delle polveri vulcaniche, in accordo con le simulazioni.

Va tenuto presente che nei modelli climatici i ricercatori hanno considerato costante la radiazione solare.

“Le simulazioni – afferma  quindi Miller – hanno indicato che la Piccola era glaciale potrebbe essersi verificata senza che la radiazione solare fosse diminuita”.

La conclusione è che l’attività vulcanica da sola è stata l’ effettiva protagonista dell’avvio del processo di raffreddamento climatico e del suo mantenimento fino all’avvento della rivoluzione industriale.

Leonardo Debbia