Ora sappiamo quando si sviluppò la particolare ecologia delle Galapagos

Le Isole Galapagos sono sede di una grande diversità di piante e animali. In nessun’altra parte del mondo si è mai riscontrato qualcosa di simile.

L’arcipelago è composto di tredici isole, distribuite sia a nord che a sud dell’Equatore, in pieno Oceano Pacifico, a più di mille chilometri dalle coste occidentali del continente americano.

Rese celebri per gli studi che portarono Charles Darwin alla formulazione della teoria dell’evoluzione, per gli scienziati continuano ancor oggi ad essere un laboratorio naturale a cielo aperto.

Ad esempio, la domanda su come e quando sia nato questo affascinante angolo di mondo, rimane ancora adesso un quesito senza risposta.

Ora, forse, gli scienziati sono però in grado di aggiungere un altro tassello al puzzle di questo mistero.

Secondo un nuovo studio, infatti, pubblicato su Earth and Planetary Science Letters, la formazione geologica di una particolare area dell’arcipelago – la parte responsabile dell’enorme

biodiversità – si sarebbe formata circa 1,6 milioni di anni fa.

L’autore principale dello studio è Kris Karnauskas, uno studioso del CIRES (Cooperative Institute for Research in Environmental Sciences), interessato a queste Isole da sempre.

Dopo aver studiato a fondo l’argomento, ha riassunto le sue conclusioni in sei articoli scientifici, riuniti, nell’insieme, con il titolo Galapagos.

“Quando nacquero queste isole?”, si chiedeva Karnauskas, che è anche docente presso il Dipartimento di Scienze dell’Atmosfera e dell’Oceano presso l’Università del Colorado, Boulder. “Da mezzo milione a venti milioni di anni fa, mi rispondevano gli amici geologi, a seconda delle caratteristiche che io andassi cercando”.

“A me, tuttavia, non interessava sapere quando era emersa la prima isola, ma quando aveva cominciato a svilupparsi un ecosistema così particolare”.

Dal punto di vista geologico, le Galapagos sono situate sulla placca tettonica di Nazca, al largo delle coste sudamericane; la placca che si sposta da ovest verso est alla velocità di 4 centimetri l’anno ed è collocata proprio su un hotspot, una zona in cui il magma affluisce in superficie dalle profondità del mantello terrestre, originando queste isole vulcaniche. La più antica delle Galapagos, vecchia di milioni di anni, è ora sommersa dall’oceano, mentre la più recente si eleva a ovest, proprio sopra l’hotspot.

Karnauskas ritiene che l’evento critico alla base dell’esplosione biologica si verificò quando la corrente sottomarina equatoriale o EUC venne a contatto con l’arcipelago.

L’EUC (Equatorial Undercurrent) è un fiume d’acqua oceanica che scorre da ovest verso est a 10-15 metri di profondità e che, a causa della forma e della rotazione della Terra, è confinata all’equatore e scorre verso le coste americane.

Ma cosa accade se qualche ostacolo ne impedisce il normale scorrimento?

“Questo è quanto è successo alle Galapagos”, spiega Karnauskas. “E’stato sufficiente che un’isola, o un gruppo di isole, si sia elevato troppo dal fondale marino per impedire il flusso regolare della corrente. In questo momento, l’ostacolo è rappresentato dall’isola di Isabela.

Si tratta di un ‘incidente’ geografico. L’Isla Isabela è grande e si trova proprio sull’equatore, nel punto in cui passa la corrente oceanica. Questo ostacolo è sufficiente per provocare la risalita di acque fredde profonde e ricche di sostanze nutritive verso la superficie dell’oceano, dove agisce da combustibile, alimentando la produttività marina. Possiamo vedere facilmente l’effetto dallo spazio. Appena ad ovest delle Galapagos, il mare è popolato da pinguini che trovano in quelle acque tutti i nutrienti di cui hanno bisogno”.

Flusso della corrente marina equatoriale vista dallo spazio
(credit: Karnauskas, Università del Colorado Boulder)

Scoprire esattamente quando le Galapagos abbiano bloccato l’EUC non è stato un compito facilissimo e ha richiesto l’aiuto dei paleoceanografi.

Karnauskas ed il suo team hanno utilizzato una messe di dati, raccolti da campioni di sedimenti di mare profondo, prelevati da siti nelle vicinanze delle isole Galapagos e sulle coste del Sud America.

L’insieme dei numerosi file, raccolti dal Centro Nazionale per l’informazione ambientale della NOAA a Boulder, hanno fornito le informazioni necessarie sui cambiamenti delle temperature superficiali del mare nel corso di milioni di anni.

Ed è stato così che, attorno a 1,6 milioni di anni fa, sono stati osservati dei cambiamenti nella composizione chimica degli insetti fossili inglobati nel sedimento del fondo; osservazione che autorizzava ad ipotizzare un cambiamento significativo nelle temperature del mare di quel periodo.

Le acque fredde che fino ad allora risalivano in superficie al largo delle coste sudamericane, avevano preso a risalire invece lungo le coste occidentali delle Galapagos.

Questo evento non giungeva del tutto inaspettato all’équipe di Karnauskas, dal momento che questo ostacolo nella corrente era stato previsto durante le simulazioni in laboratorio degli ultimi dieci anni.

A questo punto è intervenuto Eric Mittelstaedt, assistente professore di Scienze geologiche presso l’Università dell’Idaho, divenendo così co-autore dello studio, che ha sviluppato un nuovo modello al computer sulla evoluzione geologica dell’intero arcipelago.

Combinando questo modello con il modello di circolazione oceanica di Karnauskas, il team di ricercatori è stato così in grado di calcolare i tempi, che concordavano nei due modelli, usati indipendentemente uno dal’altro.

In un periodo di tempo breve (dal punto di vista geologico), l’ecosistema delle Galapagos era cambiato per sempre.

Dato che l’EUC non poteva più proseguire diritta verso la costa sudamericana, si infrangeva contro l’improvviso ostacolo e risaliva in superficie, trascinando con sé acque fredde e sostanze nutritive e andando a creare quelle condizioni ideali perché vi prosperassero pesci, piante e pinguini.

“Generalmente, si sono utilizzate prove geologiche per poter spiegare i cambiamenti ambientali, come la circolazione oceanica”; dice Karnauskas.“In questo caso, le parti si sono invertite. Abbiamo sfruttato i dati ambientali per spiegare come può essere avvenuta l’evoluzione di quelle isole nel corso del tempo. Questo procedimento ha convogliato i dati verso un unico obiettivo, valido non solo per la geologia, ma anche per l’ecologia e la biogeografia, per la conoscenza di dove e quando è stata distribuita la vita”.

Leonardo Debbia

Foglie fossili e recupero delle biodiversità dopo l’estinzione del Cretaceo

I danni a foglie fossili provocati da insetti milioni di anni fa offrono nuovi elementi per una nuova valutazione sulle conseguenze dell’estinzione di massa che spazzò via i dinosauri alla fine del periodo Cretaceo.

Il team di scienziati che ha condotto lo studio, composto da ricercatori della Pennsylvania University, della Smithsonian Institution e del Consiglio Nazionale delle Ricerche dell’Argentina, ha analizzato foglie fossili in Patagonia, risalenti alla fascia temporale situata immediatamente oltre il limite Cretaceo-Paleogene (66 milioni di anni fa).

Morsi di insetti su una foglia fossile del tardo Cretaceo in Patagonia (credit: Michael Donovan / Penn State) 
Morsi di insetti su una foglia fossile del tardo Cretaceo in Patagonia (credit: Michael Donovan / Penn State)

I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista Nature, Ecology & Evolution, costituiscono una prova importante di come gli ecosistemi terrestri dell’emisfero meridionale abbiano recuperato più velocemente degli ecosistemi dell’emisfero settentrionale, dopo l’impatto dell’asteroide che colpì Chicxulub, in Messico, circa 66 milioni di anni fa, decretando la fine del periodo Cretaceo.

“La maggior parte delle nostre conoscenze sulle risposte terrestri alla catastrofe ci viene dalla parte occidentale degli Stati Uniti, relativamente vicina al cratere Chicxulub, mentre si sa poco sulle reazioni degli ecosistemi nel resto del mondo”, afferma Michael Donovan, geologo della Penn State e autore leader dell’articolo. “Oggi, stiamo fornendo una nuova versione di quanto stava accadendo in quel periodo a molta distanza dall’area dell’impatto”.

Donovan e il team internazionale hanno studiato i resti di foglie della formazione Salamanca in Patagonia di cui si erano cibati insetti completamente scomparsi da quella regione durante l’evento di estinzione, confrontandole con altre foglie simili rinvenute nel Nord America.

Mentre precedenti studi avevano dimostrato che nel Nord America erano stati necessari nove milioni di anni per recuperare il livello di biodiversità del periodo precedente l’impatto, per quanto riguardava la Patagonia erano bastati quattro milioni di anni.

Scopo della ricerca era individuare la prova di questa differenza e trarne le conclusioni.

E’ ben conosciuta la sensibilità alle perturbazioni dei grandi cambiamenti ambientali che si ripercuotono sui rapporti tra gli insetti e le piante di cui questi si nutrono.

Si può ben capire quindi l’importanza delle tracce fossili che severi cambiamenti ambientali possono aver lasciato in questi antichi rapporti e, in senso lato, sugli ecosistemi dell’epoca.

“Gli insetti e le piante sono gli organismi multicellulari con la maggiore grande diversità, conosciuti anche per essere in grado di rispondere ai grandi cambiamenti climatici”, ribadisce Donovan. “Costituiscono quindi una grande risorsa per studiare il nostro passato”.

Il team ha analizzato 3646 foglie fossili della Patagonia alla ricerca dei morsi lasciati dai ‘minatori fogliari’, insetti lepidotteri così chiamati per il tipo di segni (lunghe gallerie come fanno i minatori) che le larve scavano all’interno delle lamine fogliari a scopo nutritivo.

Questi percorsi di alimentazione, insieme agli escrementi degli insetti, creano modelli distintivi che possono essere confrontati in siti diversi.

Gli studiosi non hanno trovato le prove che singole specie di questi insetti siano sopravvissute all’evento di estinzione di fine Cretaceo in Patagonia, e questo potrebbe significare che il lontano emisfero meridionale non offrì alcun rifugio agli insetti, come in un primo momento il team di Donovan aveva supposto.

“Non abbiamo prove della sopravvivenza di questi insetti in Patagonia”, afferma Donovan. “Ma quello che abbiamo trovato è un gruppo piuttosto eterogeneo di nuovi minatori fogliari che fecero la loro comparsa molto prima degli insetti del Nord America”.

I ricercatori hanno ipotizzato che la maggior distanza della Patagonia, rispetto al Nord America, dal cratere di impatto dell’asteroide sia stato il motivo principale del più rapido ripristino della diversità degli insetti nell’emisfero meridionale.

Leonardo Debbia

Gigantesche eruzioni vulcaniche ed estinzioni di massa globali

Un articolo pubblicato su Nature Communications dai ricercatori del Virginia Tech conferma una importante caratteristica del processo di formazione delle grandi ‘province ignee’, vale a dire di quelle vaste aree, frutto di estese eruzioni vulcaniche che, mediante l’effusione di imponenti volumi di lava, interessarono tutta la Terra tra i 170 e i 90 milioni di anni fa, innescando catastrofi ambientali ed estinzioni di massa di faune e flore.

Rappresentazione delle grandi province ignee del Pacifico considerate dallo studio del Virginia Tech. Le sezioni colorate in rosso sono state visitate da Esteban Gazel. All’interno della linea gialla è compresa l’intera provincia del Pacifico meridionale, larga quasi 2000 miglia. (credit: Virginia Tech)
Rappresentazione delle grandi province ignee del Pacifico considerate dallo studio del Virginia Tech. Le sezioni colorate in rosso sono state visitate da Esteban Gazel. All’interno della linea gialla è compresa l’intera provincia del Pacifico meridionale, larga quasi 2000 miglia. (credit: Virginia Tech)

Hanno condotto la nuova ricerca Esteban Gazel, docente di Geologia presso il Dipartimento di Geoscienze, College of Science, presso il Virginia Tech e Pilar Madrigal, docente di Geochimica presso l’Università di Costa Rica.

“Abbiamo elaborato una ipotesi secondo la quale eruzioni così estese trovano il loro innesco nella risalita di correnti calde provenienti dal mantello profondo, il cui sbocco in superficie viene agevolato in presenza di una struttura particolare – quale potrebbe essere una dorsale medio-oceanica – perché avvengano effusioni di enormi quantità di magma”, dichiara la Madrigal.

“Il nostro studio suggerisce anche che queste correnti di risalita di materiale caldo dalle profondità del mantello si formino in intervalli di tempo variabili dai 10 ai 20 milioni di anni”, aggiunge la studiosa. “Questa ciclicità è un dato interessante che consente di ipotizzare possibili instabilità nel mantello profondo che si manifesterebbero di tanto in tanto, di cui sappiamo ancora poco ma che potrebbero essere spiegate con interazioni nucleo-mantello”.

Questa ipotesi non è stata formulata astrattamente, ma di fatto era già stata prevista in modelli numerici e dinamici, fino a quando Gazel e Madrigal hanno potuto valutare – indipendentemente l’uno dall’altra – le prove geodinamiche insieme ai modelli geochimici e petrologici prodotti, per individuare valide correlazioni che confermassero questa interazione come la chiave per la formazione delle grandi province ignee.

Ma cosa si intende esattamente per province ignee?

Si tratta di enormi distese superficiali di rocce magmatiche, originate da una copiosa espansione sulla superficie terrestre di materiali vulcanici intrusivi ed effusivi di provenienza profonda; qualcosa di molto più vasto di una qualsiasi eruzione.

Province ignee se ne trovano ovunque, nel mondo, in bacini oceanici che confinano con la Siberia, l’Africa, l’India e le coste orientali del Nord e Sud America.

Questa ricerca è stata concentrata tutta sulle province ignee dell’Oceano Pacifico.

Gazel e Madrigal hanno esaminato la composizione geochimica e la tempistica di formazione delle province ignee nella placca del Pacifico, risultate da magmi risaliti ed espulsi da processi tettonici durante il Mesozoico, in un arco di tempo compreso tra 170 e 90 milioni di anni fa.

Naturalmente, sono stati raccolti anche campioni di formazioni sottomarine dell’epoca.

In collaborazione con Kennet Flores, geologo del Brooklin College di New York, il team ha prodotto una serie di modelli per calcolare la rappresentazione paleotettonica del Pacifico durante il periodo Cretaceo. In sostanza, per una ricostruzione virtuale del pavimento oceanico di 170 milioni danni fa.

Lo studio ha incluso i dati isotopici e quelli per la datazione, raccolti in collaborazione con i ricercatori Michael Bizimis e Brian Jicah, rispettivamente dell’Università del South Carolina e del Laboratorio di spettrometria di massa (WiscAr Geochronology Laboratori) presso l’Università del Wisconsin-Madison.

I risultati dello studio confermano l’esistenza di una relazione tra l’effusione dei magmi di queste province ignee e la posizione delle paleodorsali medio-oceaniche.

Più specificamente, c’è un rapporto tra la zona dove la normale crosta oceanica viene formata da un flusso regolare di materiale igneo e i bordi della Pacific Large Low-Shear Velocity Province, quella anomalia termochimica di circa 1860 miglia di larghezza, posta tra l’Australia orientale e la costa occidentale del Sud America e collocata molto in profondità nella Terra, al limite nucleo-mantello.

Per inciso, ma senza addentrarci troppo, chiariamo che questa anomalia, corrispondente alla ‘Grande Provincia del Pacifico’, è stata scoperta grazie alla sismologia (da cui il riferimento alla bassa velocità delle onde sismiche che la attraversano o Low-Shear Velocity), ed è correlata con estese porzioni del mantello profondo.

Secondo una recente teoria si tratterebbe di enormi frammenti di crosta oceanica subdotti nelle profondità del mantello in epoche molto remote, che interferirebbero fisicamente e chimicamente sulla composizione del mantello profondo.

Questo nuovo studio di Gazel e Madrigal ipotizza l’esistenza di interazioni tra la risalita dalle profondità calde del mantello e le dorsali medio-oceaniche nel concorrere alla formazione delle grandi province ignee.

“La maggior parte di queste province ignee si formarono contemporaneamente durante un evento conosciuto come ‘Cretaceous Normal Superchron’, circa 120-80 milioni di anni fa, quando per milioni di anni il nucleo terrestre non cambiò la sua polarità, che invece venne cambiata probabilmente a causa di scambi di calore tra nucleo e mantello”, spiega Gazel.

Secondo lo studioso, nel corso del tempo si sono verificati molti altri eventi di estinzioni collegate a processi vulcanici di queste dimensioni, come ad esempio quello avvenuto 300 milioni di anni fa, che spazzò via quasi ogni forma di vita sulla Terra, dopo la formazione delle Siberian Traps o Trappole Siberiane, un’altra vasta provincia ignea.

“La comprensione di questi processi non è importante solo per decodificare i grandi enigmi della Terra, ma anche per considerare meglio quanto sia fragile la vita sul nostro pianeta”.

Leonardo Debbia

Nan Madol, la misteriosa città degli antichi isolani del Pacifico

Una nuova datazione delle costruzioni in pietra di Nan Madol, nell’isola di Pohnpei, suggerisce che l’antica città, costruita sulla barriera corallina in pieno Oceano Pacifico, sia stata la capitale della prima isola della Micronesia ad essere governata da un unico capo.

Secondo l’archeologo Mark D. McCoy, della Southern Methodist University (SMU) di Dallas, USA, che ha eseguito lo studio relativo, Nan Madol costituisce la chiave per studiare il passaggio delle antiche società da semplici in complesse.

nan-madol

Utilizzando per la datazione il metodo uranio-torio, significativamente più preciso del metodo del radiocarbonio usato in precedenza, è stata calcolata l’età degli edifici in basalto del sito; in particolare, l’età di una tomba che è il primo esempio di sepoltura monumentale in quelle remote isole.

Mc Coy, archeologo presso il Dipartimento di Antropologia della SMU, ha riportato i risultati della scoperta sulla rivista Quaternary Research.

Vulcano inattivo per almeno un  milione di anni, l’isola di Pohnpei, con una superficie di 334 chilometri quadrati – poco più grande dell’isola d’Elba – ed una popolazione di 34mila abitanti,  fa parte degli Stati Federati di Micronesia.

Nan Madol, la capitale di un tempo, è considerata il più grande sito archeologico del Pacifico nord-occidentale.

Disabitata per secoli ed oggi proclamata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, è raggiungibile solo con un volo di 10 ore dalle Hawaii e una serie di scali tra gli atolli.

Finora si riteneva che la sua fondazione risalisse al 1300 d.C., ma con la nuova datazione, la sua origine è sicuramente di almeno100 anni più antica.

La scoperta retrodata ovviamente anche il dominio della dinastia dei capi Saudeleur, che detennero il potere fino al 1500 d.C.

Possiamo supporre quindi che, già prima del 1200, massicci basalti siano stati prelevati dal lato opposto dell’isola e trasportati a Nan Madol per costruire una tomba che dal 1200 accolse la prima inumazione del luogo, il capo Saudeleur dell’isola.

Le costruzioni di Nan Madol rappresentano un mistero di ingegneria, come le piramidi d’Egitto.

“Il confronto con le Piramidi è adeguato, perché la costruzione della tomba non è servita ad altri scopi se non ad accogliere il corpo di un defunto, come le Piramidi”, spiega McCoy. “E’ importante evidenziarlo, perché questa meraviglia architettonica indica che, oltre l’Egitto, un’altra antica popolazione si è impegnata nella costruzione di un monumento sepolcrale”.

“Riteniamo che questo possa essere associato all’idea di un nuovo modello di società, un sistema che comprendeva l’intera isola”, dice McCoy.

Nella storia, tuttavia, l’evoluzione di questa società, a differenza di quella egizia, è avvenuta in tempi più recenti.

“Nel 1200 in Europa erano già state fondate le Università. La civiltà romana era giunta al suo apice ed era già decaduta, come prima era accaduto a molte altre antiche civiltà. Ma studiando Nan Madol, proprio perché è così recente, possiamo disporre delle testimonianze orali dei discendenti dei fondatori della capitale; prove che non troviamo da nessun’altra parte”.

I primi insediamenti su Pohnpei risalgono al 200 a.C., lasciati probabilmente da navigatori provenienti dagli arcipelaghi meridionali delle Salomone e di Vanuatu, nella Melanesia.

Stando alla tradizione e risalendo nel tempo dalle generazioni attuali, la Dinastia Saudeleur avrebbe iniziato il suo dominio intorno al 1160.

Per costruire la tomba e le altre strutture, furono trasportate – non sappiamo come – rocce di basalto, pesanti tonnellate, dalle cave sul lato opposto dell’isola ad una laguna ricoperta di mangrovie, di 83 ettari di superficie.

I blocchi di basalto, antichi di 1-8 milioni di anni, consistevano in lunghi massi a forma di colonne esagonali e ottogonali.

Le strutture della città furono erette dalla Dinastia Saudeleur sopra 98 isolotti della barriera corallina, per lo più sommerse dal mare circostante per circa tre piedi, con pietre squadrate, i vuoti tra di esse riempiti di coralli schiacciati e doppi muri paralleli.

Gli isolotti appaiono separati da canali e protetti dal mare da 12 dighe, per cui Nan Madol viene considerata la Venezia del Pacifico.

La più grande ed elaborata struttura della città è la tomba del primo Saudeleur, che misura ben 80 metri per 60 (in pratica, le misure di un campo di calcio), un’altezza di 8 metri ed ha le pareti esterne di un metro e mezzo di spessore medio.

Un labirinto di pareti interne protegge una cripta sotterranea ricoperta, a sua volta, di basalto.

Si è giunti alla datazione con il metodo dell’uranio-torio, in base alla quantità degli isotopi torio-230 e uranio-234 presenti.

La datazione con l’uranio offre una maggiore accuratezza, potendola usare sul corallo, con un’incertezza di pochi anni in più o in meno dalla morte del corallo, a differenza del radiocarbonio con cui l’intervallo di incertezza sale a 100 anni in più o in meno.

“Se Nan Madol non fosse stata costruita con quel tipo di pietra e se gli antichi architetti non avessero usato il corallo, non saremmo stati in grado di fornire una datazione così precisa”, commenta McCoy.

Per l’archeologo, la ricerca futura dovrà essere indirizzata a capire cosa ci fosse realmente alla base di questa antica civiltà, così misteriosamente evoluta da essere in gradi di erigere edifici monumentali così imponenti.

Leonardo Debbia

Alghe del Mediterraneo e attività umane

Cystoseira zosteroides è un’alga di colore marrone, appartenente all’ordine delle Fucales che, vivendo in foreste sottomarine su litorali rocciosi, costituisce l’habitat, la  protezione e il cibo per altri organismi.

Nonostante il suo valore ecologico, non c’è ancora molta bibliografia su questa specie, che si sa comunque essere una delle alghe più sensibili e più colpite dagli impatti ambientali e antropogenici nel Mediterraneo.

  Gli autori sottolineano che la lenta crescita e la bassa attività riproduttiva delle alghe sono in funzione della loro capacità di adattamento all’ambiente (credit: Pol Capdevila, Univ. Barcellona)

 Gli autori sottolineano che la lenta crescita e la bassa attività riproduttiva delle alghe sono in funzione della loro capacità di adattamento all’ambiente (credit: Pol Capdevila, Univ. Barcellona)

Secondo il ricercatore Pol Capdevila, dell’Università di Barcellona (UB), autore principale dello studio relativo, “si è verificata una drammatica diminuzione dell’habitat di formazione delle alghe – principalmente per i generi Cystoseira e Sargassum. Negli ultimi anni, per esempio, in alcune aree marine delle coste francesi, C. zosteroides è drasticamente diminuita a causa delle attività antropiche, quali l’ampliamento di porti e l’inquinamento delle acque.

“Nelle Isole Medes – continua lo studioso – vive una popolazione di Cystoseira che non si è ancora ripresa dagli effetti della tempesta del 26 settembre 2008; un episodio estremo, con venti insolitamente forti e onde di 14 metri, che provocò la morte di circa il 79 per cento delle comunità di questa specie”.

Sussistono molti enigmi sulla biologia e la distribuzione di C. zosteroides nel Mediterraneo, per cui dal 2008 al 2012 un team di ricercatori della UB ha studiato alcune comunità presso le Isole Columbretes, la Costa Montgri, le Isole Medes e il Cap de Creus (Girona, Spagna).

“Tutti gli studi scientifici sulle alghe marine sono difficili, perché è necessario immergersi

su fondali profondi. L’alga Cystoseira zosteroides vive in ambienti molto profondi (dai 25 ai 60 metri) per cui è necessario disporre di molto tempo per poterle studiare in situ”, spiega Capdevila.

Le alghe adottano strategie di vita molto diverse, a seconda degli habitat, sostengono gli autori. Alcune specie si comportano come le erbe, cioè vivono molti anni e si riproducono parecchio; altre sono più simili agli alberi: vivono molti anni, crescono lentamente e si riproducono poco.  

  1. zosteroides ha adottato una strategia simile agli alberi: crescita lenta, alta sopravvivenza e basso tasso riproduttivo.

“Sopravvivenza, riproduzione e crescita sono tre processi demografici essenziali per tutti gli esseri viventi”, afferma Capdevila. “Finchè le risorse sono limitate, ciascuna specie sceglie una  strategia propria. Qualcuna impiega più risorse per aumentare la longevità degli individui (sopravvivenza); altre propendono ad aumentare il numero dei discendenti (riproduzione).

“Gli alberi terrestri e C. zosteroides  impiegano molte risorse per mantenere la biomassa strutturale (crescita del tronco), che fa preferire loro l’elevato tasso di sopravvivenza (una cinquantina d’anni, nel caso dell’alga”.

Questa strategia rende difficile all’alga l’adattamento alle perturbazioni estreme dell’ambiente marino.

“Quest’alga vive in ambienti profondi e tranquilli, dove le risorse (luce naturale) sono limitate, per cui ha difficoltà a reagire ai cambiamenti di breve durata”, avverte lo studioso.

Impatti locali, quali resti di attrezzi da pesca abbandonati sul fondo (reti, fili, tramagli),  inquinamento e intorbidamento dell’acqua e impatti più globali (acidificazione e riscaldamento delle acque) sono tra i fattori più dannosi per le popolazione di C. zosteroides  nel Mediterraneo.

Secondo gli autori, l’alga può compensare le perturbazioni mediante la nascita di nuovi individui che beneficiano dello spazio lasciato dagli adulti. Tuttavia, anche se la comunità non scompare, la popolazione perde il valore strutturale delle sue funzioni nella relativa biomassa. Un piccolo individuo non ha la stessa funzione di un adulto, così le foreste marine – strutture tridimensionali complesse, che aiutano altre specie – diminuiscono. Per di più, la lentezza nella riproduzione produce una crescita lenta della popolazione di alghe, che richiedono molti anni, anche decenni, per recuperare.

“Episodi con frequenti perturbazioni della luce – una forte tempesta ogni venticinque anni – potrebbe significare l’estinzione di C. zosteroides non solo per la perdita di individui, ma anche la perdita di comunità”, avverte Capdevila.

Ovviamente la diminuzione o – peggio – la scomparsa di una specie si ripercuote sull’intero ecosistema e può comportare la perdita di altre specie, determinando uno stravolgimento dell’habitat.

Gli ecosistemi marini sono poco conosciuti e questo peggiora la situazione delle specie in via d’estinzione.

“Abbiamo poche risorse economiche per studiare le alghe, che necessitano tuttavia di protezione e conservazione”, afferma Capdevila. “Ora, stiamo valutando strumenti di ripopolamento delle aree da dove è scomparsa C. zosteroides, per migliorare una loro futura conservazione”.

Leonardo Debbia

Identificata la firma biologica della sindrome da fatica cronica 

La sindrome da stanchezza cronica o CFS (acronimo di Chronic Fatigue Sindrome) è una condizione di estremo disagio fisico, un grave stato di affaticamento che si protrae nel tempo, spesso accompagnato da febbricola, linfonodi, dolori muscolari, mal di testa; da una sintomatologia alquanto variegata, comune a più malattie.

sindrome-fatica-cronica

Non compresa fino alla metà degli anni Novanta, quando ad Atlanta, USA, vennero definiti i primi criteri-guida per il suo riconoscimento, la CFS è riconosciuta oggi come una vera e propria patologia alquanto invalidante e viene studiata e descritta in numerosi studi da vari ricercatori un po’ ovunque nel mondo, ma dall’origine che rimane ancora sconosciuta, per cui nessuna cura si è mostrata risolutiva.

Giunge ora dagli Stati Uniti la notizia che un team di ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università della California S. Diego, diretto dal genetista Robert K. Naviaux, utilizzando svariate tecniche  per identificare e valutare i metaboliti del plasma sanguigno, ha individuato una firma caratteristica per questa patologia, scoprendo una biologia del tutto inaspettata.

Per gli studiosi statunitensi la sindrome sarebbe paragonabile allo ‘stato di Dauer’ e ad altre sindromi ipometaboliche, quali, ad esempio, diapausa (stasi dello sviluppo embrionale di alcune larve di insetti) e ibernazione (Stato di rallentamento metabolico tipico anche di alcuni mammiferi).

‘Dauer’ è una parola tedesca che sta per ‘persistenza’ o ‘durata’ e viene usata per indicare un tipo di stasi nello sviluppo della vita animale, indotta da condizioni ambientali difficili.

I risultati dello studio relativo sono stati resi noti sulla rivista on line Proceedings National Academy Science (PNAS).

I ricercatori avrebbero individuato nei pazienti 20 processi metabolici interessati da una diminuzione della loro efficienza.

La sindrome sarebbe quindi paragonabile ad una sorta di sospensione, sia pure parziale, del metabolismo, la prima osservata nell’organismo umano.

Una simile condizione è stata riscontrata, come detto sopra, in alcuni animali, compreso quelli superiori, che acquistano, in questo modo, la capacità di sopportare uno stress ambientale cui vengono occasionalmente sottoposti.

E’ evidente che una simile scoperta, se confermata da ulteriori ricerche, sarebbe determinante ai fini diagnostici di una patologia che finora sfugge ai tentativi di una corretta formulazione.

E’ la prima volta che viene trovata una ‘firma’ biologica così indicativa.

Robert K. Naviaux e il suo team hanno esaminato 84 soggetti, ripartiti in 45 pazienti, tra uomini e donne, affetti da CFS e 39 persone sane.

I ricercatori hanno analizzato 612 metaboliti (sostanze prodotte dal metabolismo) presenti nel plasma sanguigno. Dal confronto tra pazienti e soggetti sani è emerso che nelle persone affette dalla sindrome, 20 metaboliti presentavano anomalie rispetto alle persone sane.

L’80 per cento delle sostanze coinvolte mostrava una diminuzione del livello ematico, coerenti con la sindrome ipometabolica o metabolismo ridotto, indicando una chiara carenza di efficienza metabolica nell’organismo.

In particolare è risultato alterato il metabolismo di sfingolipidi, fosfolipidi, glicosfingolipidi, colesterolo, prolina, drossiprolina e arginina.

“Nonostante l’eterogeneità dei fattori che portano a questa condizione patologica e che spiegano la varietà della sintomatologia della sindrome, i nostri risultati mostrano che nei pazienti la risposta cellulare è sempre la stessa”, afferma Naviaux. “E’ interessante aver evidenziato questo stato, chimicamente simile allo stato Dauer che si osserva in alcuni organismi e che entra in gioco quando gli stress ambientali costituiscono una seria minaccia  per la sopravvivenza dell’organismo in condizioni che potrebbero portare alla morte delle cellule. Nella CFS questo rallentamento avviene producendo dolore a lungo termine e disabilità”.

Lo studio del dr Naveaux riveste una importanza rilevante ai fini diagnostici perché consente di capire come possano agire i meccanismi di questa patologia finora avvolta nel mistero,  dischiudendo uno spiraglio sulle possibili terapie da intraprendersi.

Ovviamente, lo studio necessita di conferme che si troveranno solo indagando su un numero più ampio di casi.

 Leonardo Debbia

Come nacque e aumentò di quantità l’ossigeno dell’atmosfera terrestre?

Un team internazionale di scienziati, appartenenti alle statunitensi Rice University, Texas e Yale University, Connecticut, in collaborazione con la University of Tokio, ha formulato nuove ipotesi sui processi con cui il nostro pianeta avrebbe potuto acquisire l’atmosfera ricca di ossigeno che lo caratterizza e che ha consentito lo sviluppo ed il mantenimento della vita.

Vista dell’atmosfera terrestre ripresa dalla Stazione spaziale internazionale nel 2003,  (credit: ISS Expedition 7 Crew, EOL, NASA).
Vista dell’atmosfera terrestre ripresa dalla Stazione spaziale internazionale nel 2003,  (credit: ISS Expedition 7 Crew, EOL, NASA).

Il nuovo modello, che attinge a diverse discipline (Petrologia, Geodinamica, Vulcanologia e Geochimica), ha elaborato i risultati che sono comparsi di recente sulla rivista Nature Geosciences.

Questi risultati suggeriscono che l’aumento di ossigeno nell’atmosfera terrestre è conseguente alle origini della vita ed alla formazione dei continenti ad opera della tettonica delle placche.

“E’ davvero un’idea molto semplice, ma assumendola interamente, non occorrono grandi sforzi  per capire come funziona la macchina-Terra”, afferma Cin-Ty Lee, docente di Scienze della Terra presso la Rice e autore leader dello studio. “L’analogia che uso più spesso è quella di una vasca da bagno che perde. Il livello costante dell’acqua nella vasca è mantenuto dal rapporto tra la quantità d’acqua che entra dal rubinetto aperto e la quantità d’acqua che esce dal tubo di scarico.

Le piante e alcuni tipi di batteri producono ossigeno come sottoprodotto della fotosintesi.

Questa produzione di ossigeno è bilanciata dalla reazione dell’ossigeno con il ferro e lo zolfo della crosta terrestre e il legame formato con il carbonio organico. Infatti, noi respiriamo ossigeno ed espiriamo anidride carbonica, assorbendo sostanzialmente ossigeno dall’atmosfera.

La storia dell’ossigeno atmosferico comprende anche le sorgenti e i pozzi terrestri, ma la descrizione di come questo sia avvenuto in 3 miliardi di anni è più complessa”.

Lee ha avuto come co-autori Laurence Yeung e Adrian Lenardic, entrambi della Rice; Ryan McKenzie, dell’Università di Yale e Yusuke Yokoyama, dell’Università di Tokio.

Le ipotesi di questi ricercatori si basano su un nuovo modello che suggerisce come l’ossigeno atmosferico sia stato immesso nell’atmosfera terrestre in due momenti principali, uno verso i due miliardi di anni fa e l’altro intorno ai 600 milioni di anni fa.

Oggi, circa il 20 per cento dell’atmosfera è costituito da ossigeno molecolare libero, ossia O2.

In questa condizione, la molecola è biatomica e non è legata ad altri elementi, come lo sono gli atomi di ossigeno negli altri gas atmosferici, quali l’anidride carbonica e l’anidride solforosa.

Per gran parte dei 4,5 miliardi di anni nella storia della Terra, nell’atmosfera l’ossigeno libero era praticamente inesistente.

Ma questa assenza non è legata alla rarità.

“L’ossigeno non è mancato perché era raro”, sostiene Lee. “L’ossigeno è uno degli elementi più abbondanti sui pianeti rocciosi, Marte, Venere e la Terra. Tuttavia, è anche uno degli elementi più reattivi. L’ossigeno forma forti legami chimici con molti altri elementi e, di conseguenza, tende ad essere presente solo nei composti, come gli ossidi, che restano però sepolti nelle viscere del pianeta, all’interno delle rocce.

In questo senso, la Terra non fa eccezione rispetto agli altri pianeti; la quasi totalità del suo ossigeno rimane intrappolato in profondità”.

Lee e colleghi hanno dimostrato che circa 2,5 miliardi di anni fa la composizione della crosta continentale terrestre cambiò radicalmente.

Si trattò del periodo che coincise con il primo aumento di ossigeno atmosferico, caratterizzato dalla comparsa di abbondanti grani minerali conosciuti come zirconi.

“La presenza di zircone è significativa”, dice Lee. “Gli zirconi cristallizzano da rocce fuse aventi particolare composizione e il loro aspetto indica un cambiamento profondo nel vulcanismo che, da povero in silice, diviene ricco in silice. Il legame con la composizione atmosferica è che le rocce ricche  di silice hanno molto meno ferro e zolfo delle rocce povere di silice; e ferro e zolfo reagiscono con l’ossigeno, provocando una diminuzione di ossigeno libero.

“Sulla base di questo, riteniamo che il primo aumento di ossigeno possa essere dovuto ad una sostanziale diminuzione di ossigeno sottratto all’atmosfera”, afferma Lee. “In analogia con la vasca, questo è equivalente alla parte da collegare allo scarico”.

Il secondo incremento di ossigeno atmosferico è da collegarsi, invece, ad un cambiamento nella produzione, analogamente all’aumento del flusso d’acqua proveniente dal rubinetto.

“L’analogia con la vasca da bagno è semplice, ma c’è una complicazione che va presa in considerazione”, dichiara Lee. “Questo perché la produzione di ossigeno è, in ultima analisi, legata al ciclo globale del carbonio tra la Terra, la biosfera, l’atmosfera e gli oceani”.

Il modello ha mostrato che questo ciclo del carbonio non è mai stato in equilibrio perché il carbonio fuoriesce lentamente come anidride carbonica dalle profondità verso la superficie della Terra per mezzo dell’attività vulcanica. L’anidride carbonica è infatti uno degli ingredienti chiave per il processo della fotosintesi.

“Nei lunghi tempi geologici il carbonio viene rimosso dall’atmosfera dalla produzione di forme ‘condensate’ di carbonio, come il carbonio organico e i minerali chiamati ‘carbonati’, spiega Lee. “Per gran parte della storia della Terra, la maggiore percentuale di questo carbonio non è stato depositato nelle profondità oceaniche, ma ai margini dei continenti. Le implicazioni sono decisive, perché il carbonio depositato sui margini continentali non ritorna all’interno della Terra, mentre ne viene facilitato l’ingresso nell’atmosfera allorché i continenti vengono con il tempo disturbati dal vulcanesimo”.

Il modello di Lee ha dimostrato che, con il tempo, l’attività vulcanica e altre fonti di natura geologica avrebbero facilitato l’immissione di carbonio in atmosfera e dato che la produzione di carbonio è legata alla produzione di ossigeno, anche quest’ultima sarebbe stata favorita, con un conseguente aumento di quantità.

Questo sarebbe stato il secondo aumento di ossigeno, il più recente.

“Indipendentemente dal modello, quello che è chiaro è che la formazione di crosta continentale porta naturalmente a due aumenti di ossigeno atmosferico, in accordo con i dati forniti dai fossili”, afferma Lee.

Cosa possa aver causato il cambiamento della composizione della crosta durante il primo evento di ossigenazione rimane un mistero ma, secondo il team, questo evento potrebbe essere

correlato con la comparsa della tettonica a placche, quando la superficie terrestre è divenuta sufficientemente mobile da sprofondare di nuovo nell’interno della Terra.

Lee riconosce che il modello proposto non è esente da critiche.

Ad esempio, si assume che la produzione di anidride carbonica debba aumentare col tempo, fenomeno che sappiamo non esser veritiero, dato che la produzione di anidride carbonica e la sua immissione in atmosfera è diminuita costantemente negli ultimi 4 miliardi di anni.

“La variazione di flusso prevista dal modello avviene su tempi estremamente lunghi e sarebbe un errore pensare che questi processi che porterebbero a cambiamenti atmosferici si verifichino a causa di cambiamenti climatici legati all’antropizzazione”, asserisce Lee. “Tuttavia, il nostro studio suggerisce che scienziati e astrobiologi rivedano quanto si conosce sulla storia antica del nostro pianeta”.

Leonardo Debbia