Terremoti giganti: non sono poi così casuali come si pensa

Analizzzando i nuclei di sedimenti prelevati da due laghi in Cile, un team internazionale di scienziati ha scoperto che i terremoti di forte entità, quelli la cui magnitudo è superiore a 8 e che sono definiti anche ‘terremoti giganti’, si ripetono nel tempo ad intervalli quasi regolari.

L’intervallo di tempo tra un evento e l’altro diventa sempre più irregolare per i terremoti con magnitudo inferiore ad 8, per diventare pura casualità per quanto riguarda la ripetizione degli eventi sismici più piccoli.

Carotaggi di sedimenti dal fondo del lago cileno Calafquén (sullo sfondo il vulcano Villarrica) crediti: Maarten Van Daele

Questa conclusione non può essere considerata come una regola matematica, essendo sempre accompagnata da un margine di errore, né tuttavia consiste in una mera interpretazione, ma si basa essenzialmente sull’osservazione di ripetizioni la cui tempistica ‘fa ipotizzare’ che l’evento sismico più è catastrofico, più necessita di un determinato periodo di tempo perchè possa ripetersi.

“Nel 1960, il Cile centro-meridionale fu colpito dal più grande terremoto al mondo di cui si fosse mai stati a conoscenza, di una magnitudo pari a 9.5.

Lo tsunami che ne scaturì fu talmente violento che, oltre a spazzare la costa cilena, arrivò a provocare la morte di circa 200 persone in Giappone, sull’altra sponda del Pacifico”, racconta Jasper Moernaut, dell’Università di Innsbruck, in Austria, autore principale dello studio. “Comprendere quando e dove tali devastanti terremoti giganti possano verificarsi in futuro è un compito cardine per tutta la comunità geoscientifica”.

Si ritiene generalmente che i terremoti giganti liberino un’energia talmente enorme da richiedere poi diversi secoli perchè possa nuovamente accumularsi una quantità di stress così elevata da provocare altri eventi del genere.

Pertanto, i dati sismologici o i documenti storici in possesso degli studiosi non consentono di risalire abbastanza indietro nel tempo per poter ricostruire modelli sulla loro ricorrenza.

“E’ una scelta non di poco conto decidere se si possa prendere a modello la ricorrenza nel tempo di questi ‘grandi terremoti’ come un processo quasi regolare o invece come casuale.

Nel recente lavoro pubblicato sulla rivista Earth and Planetary Science Letters, il team di Moernaut, composto da ricercatori belgi, cileni e svizzeri, ha proposto un nuovo approccio per affrontare il problema della ricorrenza di un terremoto.

Analizzando i sedimenti dei fondali di due laghi cileni, i ricercatori hanno osservato che ogni grande terremoto provoca frane subacquee che vengono ‘conservate’ negli strati sedimentari che si accumulano sul fondo dei laghi. Campionando questi strati attraverso carote di sedimenti lunghe fino a 8 metri, è stato così possibile calcolare la cronologia completa di 35 terremoti di magnitudo superiore a 7.7 avvenuti negli ultimi 5000 anni.

“Il fatto veramente eccezionale (particolare, se si vuole) è che in un lago sono avvenute frane subacquee solo durante i più forti eventi di scuotimento (ad esempio, un terremoto di magnitudo 9), mentre nell’altro lago le frane ci sono state anche per terremoti più leggeri”, evidenzia Maarten Van Daele, ricercatore dell’Università di Ghent, Belgio. “Così, siamo stati in grado di confrontare modelli in cui si verificano terremoti di ampiezza differente. Non abbiamo dovuto indovinare quale fosse il modello migliore; potevamo desumerlo dai dati rilevati”.

Con questo approccio, il team ha scoperto che i terremoti giganti, come quello del 1960, si ripetono all’incirca ogni 292 anni (93 anni in più o in meno).e quindi la probabilità che un simile evento si ripeta rimane molto bassa per i prossimi 50-100 anni.

I terremoti meno intensi (di magnitudo minore di 8) hanno richiesto un intervallo di tempo più piccolo, pari a 139 anni (69 anni in più o in meno) con una probabilità del 29,5% che un tale evento possa ripetersi nei prossimi 50 anni.

Dal 1960 la regione è rimasta sismicamente silenziosa, ma un recente terremoto di magnitudo 7.6, occorso il 25 dicembre 2016 nei pressi dell’isola di Chiloè, suggerisce un primo segnale di ripresa di grandi sismi nel Cile centro-meridionale.

“Ignoriamo se questa frequenza sia tipica dell’area cilena”, precisa Moernaut.

“Nel frattempo” – interviene Marc De Baptist, della Ghent – “abbiamo avviato studi simili sui laghi dell’Alaska, nell’Isola di Sumatra e in Giappone. Attendiamo perciò confronti con queste aree per vedere se i modelli cileni possano valere anche per altre regioni che in passato sono state interessate dai terremoti giganti, qelli di magnitudo 9, per intenderci”.

Leonardo Debbia

Un ‘dinosauro arcobaleno’ dalle piume a colori vivaci

Sulle faune del passato, i depostiti fossiliferi della Cina non mancano di riservarci continue sorprese.

La più recente, pubbblicata sulla rivista Nature Communications, riguarda la scoperta di un fossile di dinosauro con piume così ben conservate da mostrare le microscopiche strutture dei colori di cui erano costituite.

Confrontando le strutture di queste piume con quelle degli uccelli attuali, è stato possibile ricostruire l’aspetto di una specie di dinosauro, ribattezzato Caihong juji – che in lingua mandarina significa ‘arcobaleno con la grande cresta’ – che aveva piume iridescenti come quelle di un moderno colibrì.

Fossile di Caihong juji. (crediti: Yu et alii, 2018)

Lo studio rivela che Caihong juji risale a 161 milioni di anni fa.

Di corporatura minuscola, grande all’incirca come un’anatra, aveva una cresta ossuta sul cranio e sfoggiava lunghe penne nastriformi multicolori che gli ricoprivano testa, ali e coda e che, alla luce del sole, dovevano apparire straordinariamente iridescenti.

La nuova specie è stata scoperta casualmente da un contadino nel nord-est della Cina ed è stata descritta da un team internazionale, guidato dal paleontologo Dongyu Hu, docente del Collegio di Paleontologia presso l’Università di Shenyang.

Esaminando le piume al microscopio, gli studiosi hanno potuto distinguere la struttura fisica dei melanosomi, le parti delle cellule che contenevano il pigmento ormai scomparso.

Tanto è bastato agli studiosi per stabilire il colore delle piume. Questo perchè il colore non è determinato solo dal pigmento, ma dalla struttura dei melanosomi che contengono quel pigmento.

I melanosomi riflettono infatti la luce in diversi colori, a seconda della propria forma.

“I colibrì hanno piume brillanti e iridescenti, ma se prendiamo una sua piuma e la riduciamo in piccoli pezzi, si può vedere solo una polvere nera, perchè il pigmento nelle piume è nero. Ma dalle forme dei melanosomi che producono quel pigmento si può risalire ai colori delle piume”, spiega Chad Eliason, ricercatore presso il Field Museum of Natural History di Chicago e co-autore dello studio.

Abbinando le forme dei melanosomi di Caihong con varie forme di melanosomi di uccelli viventi e comparando uccelli con melanosomi di forma simile, gli studiosi sono stati in grado di determinare quali colori potesse aver avuto il Caihong e quindi cercare un esemplare vivente cui potesse somigliare, individuandolo nel colibrì.

Negli uccelli moderni il piumaggio colorato ha per scopo il corteggiamento: le piume arcobaleno del Caihong potrebbero dunque essere state una primitiva versione della coda iridescente del pavone.

Il Caihong è il primo uccello conosciuto a possedere anche piume asimmetriche, una caratteristica che gli uccelli moderni utilizzano per direzionare il volo.

Tuttavia, il Caihong non poteva volare, per cui le sue piume servivano forse sia per corteggiare che per proteggersi.

Mentre le penne asimmetriche degli uccelli attuali sono presenti solo sulle ali, le penne del Caihong erano anche sulla coda.

“Le penne della coda asimmetriche sono una caratteristica bizzarra, precedentemente sconosciuta tra i dinosauri, compresi gli uccelli”, afferma il co-autore Xing Xu, paleontologo dell’Accademia cinese delle Scienze. “Questo suggerirebbe che negli esemplari primitivi il controllo del volo potrebbe essere stato attuato con le penne della coda”.

Anche la cresta ossea sulla testa è senza dubbio un tratto primitivo

“Questa combinazione di tratti è alquanto insolita”, afferma la co-autrice Julia Clarke, dell’Università del Texas ad Austin. “Il cranio è simile a quello del Velociraptor su un corpo di forma aviaria, completamente piumato e soffice”, osserva.

Per Eliason, l’associazione di tratti antichi e moderni sarebbe la prova dell’evoluzione del mosaico, il concetto secondo cui diversi tratti si evolvono indipendentemente uno dall’altro.

“Questa scoperta ci dà un’idea del tempo di evoluzione di queste caratteristiche”, aggiunge il ricercatore.

Eliason pone in risalto anche la grande utilità dell’archivio delle caratteristiche fisiche aviarie.

“Per conoscere il colore delle piume di Caihong abbiamo confrontato i suoi melanosomi con un database che viene aggiornato costantemente, misurando migliaia di melanosomi degli uccelli attuali”.

Leonardo Debbia

Segnali da disturbi della gravità per quantificare l’entità dei terremoti

Dopo un terremoto, quasi istantaneamente, a causa di spostamenti delle masse, si verifica una perturbazione nel campo di gravità della Terra, che si trasmette per mezzo di onde.

Questo disturbo, i cui effetti vengono trasmessi molto velocemente, potrebbe venire registrato prima delle onde sismiche, che giungono ai sismologi e che sono quelle che vengono analizzate solitamente nella quantificazione dell’entità di un sisma.

In uno studio pubblicato su Science, un team formato da ricercatori francesi del CNRS (Centro Nazionale della Ricerca Scientifica), dell’ IPGP (Institut de Physique du Globe), dell’Università ‘Paris Diderot’ e dagli statunitensi del Caltech di Pasadena, è riuscito ad osservare questi deboli segnali, legati alla gravità, e a capire da dove provenivano.

Dal momento che questi segnali sono proporzionati all’entità dei terremoti, potrebbero avere un ruolo importante sull’individuazione precoce del verificarsi di un grave sisma.

Riproduzione del posizionamento dei sismometri (triangolini bianchi) che rilevarono le onde sismiche del terremoto dell’11 marzo 2011 in Giappone. Il triangolino rosso e la sigla MDj indicano la stazione, a più a 1280 km dall’epicentro, che analizzò i segnali di disturbo gravitazionale (crediti: IPGP/2017).

Questo studio è scaturito dall’interazione tra i sismologi che volevano comprendere meglio i terremoti e i fisici che stavano sviluppando misure di gravità al fine di rilevare le onde gravitazionali.

I terremoti, ripercuotendosi sulle masse rocciose, cambiano brutalmente l’equilibrio delle forze sulla Terra ed emettono onde sismiche che attraversano il pianeta e le cui conseguenze in superficie sono spesso devastanti.

Ma queste stesse onde, come già detto, disturbano anche il campo gravitazionale terrestre, che  anch’esso emette segnali, ma diversi.

Questi segnali sono particolarmente interessanti per la possibilità di quantificare velocemente i movimenti delle onde, dato che si tramettono alla velocità della luce, a differenza delle onde sismiche che si propagano a velocità comprese tra 3 e 10 Km / sec.

Da quanto esposto, consegue che i sismometri di una stazione situata a 1000 chilometri dall’epicentro potrebbero, potenzialmente, rilevare questi segnali ben più di due minuti prima dell’arrivo delle onde sismiche.

La ricerca è iniziata con l’ osservazione di questi segnali su 10 sismometri collocati tra 500 e 3000 chilometri dall’epicentro del terremoto giapponese del 2011 (quello che interessò la centrale di Fukushima, per intenderci!), che ebbe una magnitudo di 9.1.

Con le osservazioni eseguite i ricercatori riuscirono a dimostrare che questi segnali avevano  essenzialmente due effetti: primo, il cambiamento di gravità che si verifica nella posizione del sismometro, che modifica la posizione di equilibrio dello strumento e, secondo, il cambiamento di gravità, che viene rilevato ovunque sulla Terra e che disturba l’equilibrio delle forze, producendo nuove onde sismiche che raggiungono a loro volta il sismometro.

Tenendo conto di questi due effetti appena descritti, i sismologi hanno dimostrato che questi segnali relativi alla gravità sono molto sensibili alla magnitudo di un terremoto; e questo è un grosso problema, perchè  se li rendono dei buoni candidati per quantificare rapidamente l’entità di forti terremoti, altrettanto diventano inutilizzabili per i terremoti meno violenti.

Rimangono quindi esclusi, al momento, i sismi con magnitudo media inferiore a 8-8.5, perchè al di sotto di questa soglia il segnale è troppo debole rispetto al rumore sismico emesso naturalmente dalla Terra. E distinguerlo, è complicato.

Ora, resta ai ricercatori l’arduo compito di tentare con tecnologie sempre più avanzate e con strumenti sempre più sofisticati; magari cercando di sviluppare al meglio il rilevamento delle onde gravitazionali.

Leonardo Debbia

Ritorno da Zealandia, il continente perduto

Dopo un viaggio di nove settimane per studiare il continente sommerso di Zealandia, nel Sud del Pacifico, un team di 32 scienziati provenienti da dodici paesi diversi è giunto ad Hobart, in Tasmania, a conclusione di una ricerca condotta con la nave scientifica JOIDES Resolution

(acronimo di Joint Oceanographic Institutions Deep Earth Sampler).

La nave dispone di un complesso sistema di perforazione per carotaggi profondi, vari laboratori di analisi fotografiche, chimiche, radiologiche per esami approfonditi dei fondali oceanici.

I ricercatori, facenti parte dell’Integrated Ocean Drilling Program (IODP), tornavano dalla spedizione di esplorazione della Zealandia.

Percorso della spedizione scientifica sul continente perduto di Zealandia (crediti: IODP)

L’organizzazione coordina i viaggi per studiare la storia della Terra registrata nei sedimenti e nelle rocce del fondale marino.

“La Zealandia, un continente sommerso, rimasto a lungo sconosciuto, posto com’è al di sotto delle acque dell’Oceano, rinuncia ai suoi segreti di 60 milioni di anni per merito della ricerca scientifica”, dichiara Jamie Allan, direttore del programma della divisione National Science Foundation of Ocean Sciences, che supporta l’IODP.

“Questa spedizione ha offerto approfondimenti della storia della Terra, che vanno dalle montagne in Nuova Zelanda ai movimenti delle placche terrestri, ai cambiamenti nella circolazione oceanica e nel clima globale”.

All’inizio di quest’anno, dopo anni di attesa, la Zealandia è stata finalmente confermata come settimo continente della Terra, anche se poco conosciuto, data la profondità media di un chilometro sotto il livello del mare cui è situato.

Finora l’intera area è stata scarsamente analizzata e campionata.

I ricercatori hanno ora perforato il fondale marino in sei siti, alla profondità di 1250 metri,

raccogliendo 2500 metri di sedimenti dagli strati attraversati, che testimoniano i cambiamenti della geografia, del vulcanismo e del clima della Zealandia negli ultimi 70 milioni di anni.

Secondo Gerald Dickens, docente di Scienze della Terra ed esperto di Oceanografia presso la Rice University di Houston, Texas, sono state fatte nuove scoperte fossili, a dimostrazione che la Zealandia non è rimasta sempre alla stessa profondità, come si presenta oggi ma è immersa e riemersa più volte.

“Più di 8000 esemplari sono stati studiati e sono state identificate diverse centinaia di specie fossili”, afferma Dickens. “La scoperta di gusci microscopici di organismi che vivevano in caldi mari superficiali, di spore e pollini di piante terrestri rivelano che nel passato la geografia e il clima della Zealandia furono completamente diversi”.

Secondo Dickens, le nuove scoperte mostrano che la formazione, tra i 40 e i 50 milioni di anni fa, dell’Anello di fuoco del Pacifico, il grande arco marino di vulcani attivi che si estende lungo il perimetro costiero dell’Oceano Pacifico, ha prodotto drastici cambiamenti nelle profondità oceaniche e nell’attività vulcanica, piegando e deformando il fondale marino della Zealandia.

Inizialmente, gli studiosi avevano creduto che la Zealandia fosse già sommersa quando si separò dall’Australia e dall’Antartide, circa 80 milioni di anni fa.

“Anche se fosse andata così, gli incisivi cambiamenti successivi modellarono il continente trasformandolo così come lo abbiamo esplorato oggi”, commenta Rupert Sutherland, ricercatore della Wellington University, Nuova Zelanda, leader della ricerca in coppia con Dickens.

“I grandi cambiamenti geografici del Nord della Nuova Zelanda, pari alla dimensione dell’India, hanno rilevanti implicazioni per comprendere questioni come il modo in cui le piante e gli animali abbiano avuto modo di diffondersi ed evolversi nel Sud del Pacifico”.

Le analisi sui sedimenti riportati in luce dalla spedizione saranno incentrati sulla comprensione delle modalità di movimento delle placche tettoniche terrestri e del funzionamento del sistema climatico globale.

Le prove della storia della Zealandia, spiegate dai ricercatori, potranno fornire un test per la modellazione al computer per la previsione di futuri cambiamenti climatici.

Sicuramente, il continente sommerso avrà molto da raccontare. Si tratta senza dubbio di un tassello molto importante del puzzle in cui si configura il passato del nostro pianeta.

Leonardo Debbia

Lago Baikal: strategie di protezione di un ecosistema ‘unico’

Il lago Baikal, situato nella Siberia meridionale, è il lago più antico e più vasto della Terra.

Il suo bacino si è formato tra i 25 e i 30 milioni di anni fa e contiene circa il 20 per cento di tutte le acque dolci del pianeta.

Con un’estensione di 636 chilometri di lunghezza e un volume d’acqua pari a circa 23mila chilometri cubi, è più grande dei cinque grandi laghi del Nord America messi insieme.

La sua profondità supera i 1600 metri ed è uno dei laghi più freddi: la temperatura media dell’acqua vicino alle rive è di soli 6°C.

“L’acqua è cristallina, ha un basso contenuto di sale e di nutrienti ma è estremamente ricca di ossigeno, persino sul fondo”, afferma Till Luckenbach, ecotossicologo presso il Centro di Ricerca ambientale Helmholtz – UFZ, in Germania.

Nel corso della sua storia evolutiva, le particolari condizioni del lago Baikal hanno favorito lo sviluppo di una fauna unica al mondo. Circa l’80 per cento delle 2600 specie viventi nel lago sono endemiche; vale a dire che, essendosi adattate alle sue condizioni ambientali estreme, non si ritrovano in nessun’altra parte della Terra.

Tuttavia, gli studiosi ignorano se questa fauna particolare riuscirà per il futuro a mantenersi così diversificata.

Il lago, infatti, si trova in una regione in cui il riscaldamento globale è particolarmente intenso.

Negli ultimi 50 anni la temperatura superficiale delle acque è salita di 1,5 °C.

“Ed è tuttora in aumento”, puntualizza Luckenbach. “Durante l’inverno, la copertura ghiacciata del lago diminuisce costantemente ed ha una durata sempre più breve, mentre l’inquinamento chimico è rilevante. Dato che in passato le condizioni ambientali sono rimaste stabili per molto tempo, questi cambiamenti sono da considerarsi drammatici”.

Un team internazionale di ricercatori del Centro Helmholtz, dell’Università di Irkutsk, in Russia, dell’Istituto Alfred Wegener (AWI) di Bremerhaven e dell’Università di Lipsia, ha lavorato ad un progetto comune, comprendente diversi studi, per scoprire le ricadute su questa fauna unica del lago seguite alle variazioni delle temperature dell’acqua e all’aumento dell’inquinamento chimico.

Sono stati presi come organismo-modello due specie autoctone di anfipodi, appartenenti al genere Eulimnogammarus, e ne sono state esaminate le relativi reazioni al cambiamento delle condizioni ambientali.

Gli anfipodi sono crostacei cui è assegnata un’importante funzione ecologica, dato che si nutrono di materiale organico, mantengono l’acqua pulita e sono il cibo preferito dei pesci; un ruolo chiave nella catena alimentare, che li rende perfetti organismi modello per gli studi ecotossicologici.

Uno studio dell’Università di Irkutsk sulla sensibilità alla temperatura di questi anfipodi ha appurato che una di queste due specie (E. cyaneus) può tollerare temperature dell’acqua fino a circa 20°C, quelle che si possono avere, in estate, in prossimità delle rive del lago.

E. cyaneus continua a produrre un livello costante di ‘proteine da shock termico’, utilizzate per proteggere importanti molecole proteiche nell’organismo, che verrebbero danneggiate dalle temperature elevate.

L’altra specie, E. verrucosus, per sfuggire all’aumento della temperatura dell’acqua, produce invece meno proteine da shock termico, ma migra nelle regioni più profonde e più fredde del lago.

“Se le temperature dell’acqua aumentano a causa del cambiamento climatico, le conseguenze interessano non solo le singole specie, ma compromettono l’equilibrio dell’intero ecosistema”, avverte Luckenbach.

Secondo lo studioso, ulteriori aumenti delle temperature estive rappresenterebbero un pericolo estremo, sia per E. cyaneus, che potrebbe non sopportare soglie più elevate, che per

  1. verrucosus, che qualora dovesse migrare più in profondità, si troverebbe a competere per la sopravvivenza con altri anfipodi già presenti nelle acque profonde.

Nello studio, pubblicato su Environmental Science and Technology, il team di ricercatori ha descritto le reazioni di queste due specie anche all’inquinamento chimico.

Gli animali sono stati esposti al cadmio, che è servito come tossina-modello. Sebbene l’acqua del lago Baikal sia ancora in gran parte incontaminata, il cadmio è un inquinante ambientale relativamente frequente, la cui tossicità lo rende estremamente nocivo per gli ecosistemi.

Il fiume Selenga, il più grande affluente del lago, che porta le acque di scarico dalla regione mineraria della Mongolia, è sempre più inquinato e, per di più, l’inquinamento giunge anche per via aerea dalla regione industriale di Irkutsk.

Le reazioni degli anfipodi sono state analizzate in laboratorio.

“All’aumento dell’inquinante chimico nell’acqua, la specie più piccola (E. cyaneus) ne ha aumentato l’assorbimento più velocemente e non è sopravvissuta neanche a basse concentrazioni”, spiega Lena Jakob, ecofisiologista dell’AWI. “E. verrucosus, invece, in presenza di basse concentrazioni di cadmio, ha rallentato il proprio metabolismo. Un segnale di sofferenza, dato che gli animali potrebbero evitare di alimentarsi, non riproducendosi più e finendo per soccombere ai predatori.

La conclusione è che anche un livello basso ma costante di inquinamento chimico potrebbe avere ripercussioni massicce su tutto l’ecosistema”.

In un altro studio, i ricercatori dell’UFZ, in collaborazione con esperti di bioinformatica dell’Università di Lipsia, sono riusciti ad ottenere le prime conoscenze sul genoma di E. verrucosus, che hanno scoperto sorprendentemente grande – tre volte le dimensioni di quello umano – conoscenze che serviranno come base per ulteriori approfondimenti sulle strategie d’adattamento fisiologico adottate dalle faune per fronteggiare il mutamento delle condizioni ambientali.

Leonardo Debbia

Mantello terrestre. Ciò che scende, poi risale. E le placche fanno la loro parte

A seguito di un approfondimento sui modelli di convezione del mantello terrestre, uno scienziato dell’Università di Leicester ha studiato e proposto una nuova teoria che pone sotto una nuova luce i processi geochimici e petrologici che avvengono nel mantello in relazione alla dinamica attiva della crosta.

I risultati raggiunti suggeriscono che il mantello non sarebbe costituito da un unico involucro di materiale con una fluidità omogenea, come finora ritenuto, ma sarebbe invece suddiviso in due spessi strati concentrici o domini, ben distinti uno dall’altro, ciascuno con caratteristiche proprie,  propria fluidità, senza alcuna possibilità di miscelazione.

Illustrazione e spiegazione dei meccanismi di discesa e di risalita di materiali in una stessa sezione della Terra (credit: Università di Leicester)

La ricerca, guidata dal dr Tiffany Barry, del Dipartimento di Geologia dell’Università di Leicester, Inghilterra, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature e parte dal presupposto che il materiale del mantello superiore scenda verso le parti più interne del mantello nelle zone di subduzione, laddove una placca tettonica si immerge sotto un’altra placca.

Secondo Barry, la placca discendente del materiale agisce come una sorta di sipario, impedendo che il materiale del mantello superiore giunga fino alle estreme profondità del mantello stesso e si mescoli in tutto il globo. Si manterrebbe così un dominio inferiore, separato da uno superiore, con cui non avrebbe possibilità di mescolarsi.

“Uno dei modi in cui il nostro pianeta può considerarsi unico è l’avere placche mobili sulla sua superficie, che si muovono sia nello spazio che nel tempo, una particolarità che è stata definita ‘tettonica delle placche’ e che, almeno finora, non è stata mai osservata su altri pianeti”, afferma Barry. “Nessun altro pianeta conosciuto mostra le prove di un processo analogo.

Come e perché sia iniziato il movimento delle placche, non si è ancora ben capito, ma il punto è che questo processo è stato essenziale per la produzione della crosta e degli oceani della superficie terrestre per come la conosciamo oggi.

Quello che non è stato ulteriormente compreso è quale influenza abbiano le placche tettoniche sui processi interni della Terra.

“Abbiamo scoperto che quando il materiale del mantello raggiunge la base del mantello stesso, al confine con il nucleo esterno, non si espande dappertutto attorno al nucleo, avvolgendolo, ma torna invece indietro verso lo stesso emisfero del globo da dove è disceso”, aggiunge Barry.

“Noi abbiamo modellato questo movimento convettivo verso l’alto e abbiamo scoperto che può persistere anche per milioni di anni.

“Sulla base dei movimenti delle placche nel passato e di prove geochimiche, ipotizziamo che questo processo convettivo nel mantello avrebbe potuto iniziare almeno 550 milioni di anni fa e, potenzialmente, fin dall’inizio dello scorrimento delle placche in superficie”.

I ricercatori hanno combinato modelli al computer in 3D con le migliori ricostruzioni disponibili dei movimenti delle placche terrestri negli ultimi 200 milioni di anni, tracciando quindi i percorsi di particelle matematiche collocate ad hoc a diverse profondità del mantello modellato.

Per mezzo di questi modelli è stata cercata la regione dove il mantello si muove liberamente durante i movimenti delle placche sulla superficie terrestre.

Una volta seguiti i percorsi delle particelle nei modelli, il team si è occupato quindi degli isotopi chimici provenienti dai bacini oceanici del passato, che costituiscono un’ottima analogia con la composizione del mantello superiore della stessa età.

Con questi dati, i ricercatori sono stati così in grado di verificare se i vecchi bacini oceanici, non più esistenti, mantenevano o cambiavano la composizione dei bacini che progressivamente andavano formandosi nel tempo e nella stessa regione del globo.

“Ho pensato a questa ricerca per quasi vent’anni”, dichiara Barry. “Mi pare un sogno aver realizzato un modello convincente, in grado di spiegare le differenze chimiche nella crosta oceanica dei fondali.

“Questo nuovo studio chiarisce la comprensione di come è suddivisa e cosa avviene nella parte interna della Terra e, per la prima volta, spiega le osservazioni fatte alla fine degli anni ‘80”.

Leonardo Debbia

È grazie all’ossigeno, se abbiamo un’atmosfera adatta a noi?

Niente è più importante dell’ossigeno, per lo sviluppo della vita animale. L’ossigeno permette le reazioni chimiche che gli animali utilizzano per trarre energia dai carboidrati immagazzinati con il cibo.

Così, potrebbe essere un caso che gli animali siano comparsi e si siano evoluti  nel corso della ‘esplosione Cambriana’, il grande evento che coincise con un picco di ossigeno nell’atmosfera terrestre, circa 500 milioni di anni fa. Ma forse, no.
Nelle piante verdi la fotosintesi separa l’anidride carbonica in carbonio, che finisce immagazzinato nei carboidrati, e ossigeno molecolare (O2), che viene immesso poi nell’atmosfera.

Scisto nero, formatosi 450 milioni di anni fa contenente fossili di trilobiti e altro materiale organico che, togliendo il carbonio dalla superficie terrestre, ha contribuito all’incremento di ossigeno nell’atmosfera (credit: Jon Husson e Shanan Peters / UW-Madison)

Ma 500 milioni di anni fa, la fotosintesi non era un processo nuovo. Aveva già fatto la sua comparsa attorno ai 2,5 miliardi di anni.

Allora, come si spiega questo picco improvviso di ossigeno durante il Cambriano?

Uno studio, che sarà pubblicato nel mese di febbraio sulla rivista on line Earth and Planetary Science Letters, collega questo aumento di ossigeno ad un incremento del seppellimento nel suolo di sedimenti contenenti grandi quantità di materia organica ricca di carbonio.

La causa, secondo Shanan Peters, professore di Geologia presso l’Università del Wisconsin-Madison e co-autore dello studio, fu questo seppellimento di sedimenti a bloccare l’ossidazione del carbonio.

Se non si verifica l’interramento, la reazione di ossidazione del carbonio permette al materiale vegetale morto e abbandonato sulla superficie terrestre di poter prendere fuoco e lasciare che il carbonio contenuto vada a legarsi con l’ossigeno atmosferico per formare anidride carbonica.

Per permettere che l’ossigeno aumenti nell’atmosfera, la vegetazione in disfacimento deve quindi essere protetta dall’ossidazione.

Questa protezione è stata sicuramente assicurata dal seppellimento della materia organica – materia prima per carbone, petrolio e gas naturale – avvenuto attraverso processi geologici.

 

Per verificare queste reazioni, Peters e il collega Jon Husson sono ricorsi all’ausilio di Macrostrat, un database ‘unico’, consistente in una raccolta enciclopedica di informazioni geologiche sul Nord America, cui Peters si è dedicato per dieci anni.

La comparazione tra il grafico del contenuto di ossigeno nell’atmosfera e il grafico sul seppellimento di sedimenti organici, desunto dalla formazione delle rocce sedimentarie, indica l’esistenza di un rapporto tra ossigeno e sedimenti ed entrambi i grafici mostrano un picco più basso sui 2,3 miliardi di anni fa e uno più alto attorno ai 500 milioni di anni fa.

“Esiste una correlazione. Sono intercorsi collegamenti fisico-chimici tra l’evoluzione geologica e l’aumento dell’ossigeno nell’atmosfera”, dice Husson. “I sedimenti contenevano materiale organico formatosi dalla fotosintesi, che ha convertito l’anidride carbonica in biomassa e rilasciato ossigeno nell’atmosfera. Il seppellimento ha rimosso il carbonio dalla superficie terrestre, impedendogli così di legarsi all’ossigeno atmosferico”.

Alcuni picchi sulla curva del seppellimento dei sedimenti, identificati da Peters e Husson, coincidono con la formazione di vasti giacimenti di combustibili fossili, che si estraggono tuttora, quali il Bacino Permiano in Texas, ricco di petrolio, e i campi di carbone degli Appalachi, in Pennsylvania.

“Il seppellimento di sedimenti, divenuti poi combustibili fossili, è stato la chiave per il successo della vita animale sulla Terra”, spiega Peters, sottolineando che la vita pluricellulare si formò, per la maggior parte, nel Cambriano.

Oggi, bruciando miliardi di tonnellate di carbonio immagazzinato nei combustibili fossili, si sottrae grandi quantità di ossigeno all’atmosfera, invertendo il processo che ne aveva consentito l’aumento.

Così, nella nostra atmosfera, il livello di ossigeno diminuisce, mentre la concentrazione di anidride carbonica cresce.

Tornando ai due grafici, è opportuno evidenziare che questi sono riferiti al solo Nord America, mentre mancano ancora i database completi per il restante 80 per cento delle terre emerse.

Sulla causa geologica che ha accelerato il deposito di sedimenti espressi dai due picchi di ossigeno, non si possono azzardare ipotesi. Al momento, rimane un mistero.

“Si potrebbe ipotizzarne l’attribuzione a cambiamenti profondi nel movimento delle placche tettoniche o nelle correnti convettive del calore nel mantello, ma una spiegazione certa non l’abbiamo ancora”, ammette Husson.

Dinanzi ad un campione di scisto con incluse trilobiti dell’Ordoviciano, di  450 milioni di anni fa, Peters si domanda: “Perché c’è ossigeno nell’atmosfera? La risposta ufficiale che viene data è: ‘la fotosintesi’. La nascita dell’ossigeno presuppone, tuttavia, che si siano formate rocce come questo scisto nero, che può essere abbastanza ricco di carbonio per bruciare ancora.

Il carbonio organico in questo scisto è stato fissato dall’atmosfera attraverso la fotosintesi, ma è attraverso il suo seppellimento e la conservazione in questa roccia che si è potuto liberare ossigeno molecolare”.

Secondo Husson, la peculiarità dello studio è aver verificato, con l’aiuto del database Macrostrat, l’ipotesi della necessità del seppellimento continuo di carbonio per mantenere l’atmosfera ricca di ossigeno.

“Molti processi sulla superficie terrestre”- afferma Husson – “quali l’ossidazione del ferro (la ruggine) sottraggono ossigeno libero. L’escamotage per avere più ossigeno nell’atmosfera sarebbe rimuovere una piccola porzione di ossigeno dalla biomassa e immagazzinarlo in depositi sedimentari. Questo è quello che è accaduto in passato quando sono nati i combustibili fossili”.

 

Leonardo Debbia