I Neanderthal camminavano in posizione eretta come gli umani moderni

Fino ad oggi, i Neanderthal sono stati quasi sempre raffigurati con colonne vertebrali dritte e una postura scorretta o, quanto meno, ben diversa dalla nostra.

Tuttavia, questi esseri umani preistorici probabilmente erano più simili a noi di quanto sia stato finora ritenuto.

Alcuni ricercatori dell’Università di Zurigo hanno dimostrato che i Neanderthal avevano un’andatura eretta proprio come gli esseri umani moderni (Homo sapiens) e a questa constatazione si è arrivati grazie alla ricostruzione virtuale di un bacino e della colonna vertebrale di uno scheletro di un Neanderthal molto ben conservato.

Ricostruzione virtuale dello scheletro rinvenuto a La Chapelle-aux-Saints, basata su scansioni ad alta risoluzione in 3D della colonna vertebrale e del bacino  (crediti: Martin Hausler, Università di Zurigo)

 

Una postura eretta e ben bilanciata è, di fatto, una delle caratteristiche principali di Homo sapiens, mentre Homo neanderthalensis, ancora agli inizi del XX secolo, veniva descritto come un individuo che avesse mantenuto la posizione eretta solo parzialmente.

Queste ricostruzioni si basavano esclusivamente sullo scheletro di un Neanderthal maschio anziano rinvenuto nel sito di La Chapelle-aux-Saints, in Francia.

Solo negli anni ’50 gli studiosi appurarono che l’immagine del Neanderthal come uomo delle caverne curvo, quasi gobbo, non fosse più attendibile.

Ovviamente, fu necessaria tutta una serie di rinvenimenti fossili per poter raggiungere questa convinzione.

La somiglianza con gli esseri umani moderni, sia in terminin evolutivi che comportamentali, oggi sono note, e tuttavia, in questi ultimi anni, il vecchio modello è stato riproposto.

A far sorgere nuovi dubbi erano stati dei recenti studi condotti su alcune vertebre isolate che avevano fatto concludere che i Neanderthal non potevano avere una colonna vertebrale a forma di doppia S ben sviluppata.

Tuttavia, una ricostruzione virtuale dello scheletro di La Chapelle-aux-Saints – lo stesso su cui ci si era espressi una prima volta – ha ora fornito prove di quanto fosse sbagliata la vecchia idea.

Il modello anatomico del nuovo studio è stato ricostruito da un gruppo di ricerca guidato da Martin Haeusler, biologo e antropologo dell’Università di Zurigo, cui si è affiancato Erik Trinkaus, paleoantropologo della Washington University di St. Louis (USA).

Il team è stato in grado di dimostrare che sia l’individuo in esame che altri Neanderthal avevano una regione lombare curva, come pure il collo, proprio come gli esseri umani attuali.

A questa conclusione gli studiosi sono giunti mentre ricostruivano il bacino.

Mettendo insieme le singole vertebre lombari e cervicali, si è giunti a ricomporre la curvatura della colonna in maniera più pronunciata. Il contatto molto stretto tra i processi spinosi della colonna – apparsi come proiezioni ossee sul retro di ogni vertebra – è divenuto chiaro, così come i segni di usura, in parte causati dalla curvatura della colonna vertebrale.

Anche i segni di usura nell’articolazione dell’anca indicavano una postura eretta, simile a quella degli uomini moderni.

“La sollecitazione sull’articolazione dell’anca e la posizione del bacino non sono affatto diverse dalle nostre”, afferma Haeusler. E questo risultato è testimoniato anche dalle analisi di altri scheletri di Uomini di Neanderthal di cui si avevano resti di vertebre e ossa pelviche in numero sufficiente.

“Nel complesso, non ci sono prove che i Neanderthal avessero un’anatomia fondamentalmente diversa dalla nostra”, spiega Haeusler. “Chiarito questo punto, ora è il momento di riconoscere le somiglianze di base tra i Neanderthal e i Sapiens e di spostare l’attenzione sui sottili cambiamenti biologici e comportamentali che si sono verificati negli esseri umani del tardo Pleistocene”.

 

 

Regione del Sahara: tra vegetazione lussureggiante e arido deserto

Ogni 20mila anni, il deserto del Sahara passa da condizioni di rigogliosa vegetazione a periodi di secchezza climatica, in sincronia con l’attività dei monsoni sulla regione e con la variazione dell’inclinazione dell’asse terrestre.

Questo è quanto affermato dai ricercatori dell’Istituto di Tecnologia del Massachussetts (MIT), che hanno analizzato le polveri depositate dai venti al largo delle coste africane occidentali negli ultimi 240mila anni, scoprendo che il Sahara e, più in generale, tutto il Nord Africa sono sottoposti all’oscillazione di questo ‘pendolo’ tra climi umidi e climi secchi ogni 20mila anni.

Oggi, il deserto del Sahara è uno dei luoghi più aspri e inospitali della Terra, con i suoi 3,6 milioni di miglia quadrate di rocce e dune battute dal vento, che si estendono su quasi tutto il Nord Africa.

Ma non è sempre stato così.

Pitture rupestri e fossili scavati nella regione suggeriscono che il Sahara sia stata un tempo un’area verdeggiante, dove prosperavano gli insediamenti umani e dove una grande varietà di animali si aggirava tra piante e corsi d’acqua.

Gli studiosi del MIT, analizzando le polveri depositate in un arco di tempo di 240mila anni, hanno scoperto che il clima della regione subìva questa oscillazione tra condizioni umide e condizioni secche ogni 20mila anni.

E’ stato osservato che questo ‘pendolo climatico’ dipendeva soprattutto dalla variazione dell’inclinazione dell’asse terrestre durante la rivoluzione del nostro pianeta intorno al Sole: la luce solare, ogni 20mila anni, giunge sulla Terra in modo diverso, influenzando le stagioni.

Ma c’è di più; un fattore che finora era passato inosservato: la funzione dei monsoni sulla regione; i venti ‘stagionali’, tipici delle aree equatoriali e subequatoriali, che ogni sei mesi, in conseguenza al riscaldamento e al raffreddamento delle masse continentali, cambiano direzione.

E’ probabile che, quando la Terra ha una posizione più inclinata e riceve la massima luce solare estiva, l’aumento della radiazione solare sul Nord Africa intensifichi l’attività monsonica della regione che, a sua volta, rende il Sahara più umido e più ‘verde’.

Quando, al contrario, la radiazione solare giunge sulla Terra con un angolo più piccolo e la luce solare in arrivo è minore, l’attività dei monsoni si indebolisce, producendo un clima più secco, simile a quello attuale.

“La nostra ricerca suggerisce che la storia del clima africano è fatta di questi ritmi, che si alternano ogni 20mila anni, tra un Sahara verde e un Sahara secco”, afferma David McGee, professore del Dipartimento della Terra, dell’Atmosfera e delle Scienze planetarie del MIT.

Conoscere l’altalena di questi climi ci consente di ricostruire una storia diversa da quella che conosciamo circa la presenza di animali e di esseri umani in quella regione nel corso dei millenni.

Ogni anno, i venti provenienti dal Nord-est raccolgono centinaia di milioni di tonnellate di polvere del deserto, depositandola nell’Oceano Atlantico.

Strati su strati di questi sedimenti si accumulano così sul fondo oceanico, al largo delle coste africane, consentendo di ricostruire la storia geologica e climatica di quella parte di continente: a strati densi corrispondono periodi aridi, a strati sottili periodi umidi.

Alle sabbie si accompagnano sovente minuscole conchiglie di plancton, un’ulteriore fonte di informazioni sulla presenza di vita marina.

Tenendo conto soltanto dei fattori astronomici, fino ad oggi gli scienziati ritenevano che i periodi secchi e quelli umidi si alternassero ogni 100mila anni, in corrispondenza di periodi glaciali e interglaciali.

Secondo McGee, i periodi di alternanza secco-umido erano, in realtà, più brevi e più frequenti, in relazione all’attività dei monsoni sulla regione.

Per dimostrare la validità della sua ipotesi ha indagato più a fondo, verificando la quantità di un isotopo del torio nei sedimenti.

Il torio viene prodotto a velocità costante da piccolissime quantità di uranio radioattivo disciolto nell’acqua di mare e si attacca ai sedimenti che si depositano sul fondo.

Di conseguenza, gli scienziati potevano utilizzare la concentrazione di torio nei sedimenti per determinare la velocità di accumulo delle polveri nei tempi passati: più torio equivaleva ad un accumulo lento; meno torio ad un accumulo rapido.

Al termine delle analisi, che coprivano un arco temporale di 240mila anni, lo scenario cambiava notevolmente.

“Si è scoperto cha alcuni picchi di polvere erano dovuti ad un aumento della deposizione di polvere nell’oceano, ma altri picchi erano semplicemente dovuti alla dissoluzione del carbonato e al fatto che, durante le ere glaciali, in questa regione l’oceano era più corrosivo per la presenza del carbonato di calcio”, afferma McGee. “In altri termini, potrebbe sembrare che ci sia più polvere depositata, quando invece non c’è stata deposizione”.

Una volta apportata questa correzione, i ricercatori hanno dovuto riformulare i calcoli per giungere alla conclusione che l’oscillazione del Sahara tra climi umidi e aridi avveniva ogni 20mila anni, in sincronia con l’attività monsonica e l’inclinazione dell’asse terrestre.

Leonardo Debbia

Vulcani alimentati da serbatoi di ‘poltiglia’ piuttosto che da magma fuso

Secondo un nuovo studio britannico, i vulcani non sarebbero alimentati da magma fuso  formatosi in grandi camere magmatiche sotto la superficie terrestre, ma piuttosto da una sorta di ‘bacini artificiali’, aree ricche di cristalli, per lo più allo stato solido, o serbatoi contenenti magma circolante negli spazi relativamente piccoli tra un cristallo e l’altro.

La nostra comprensione dei processi vulcanici, compresi quelli che portano alle eruzioni più imponenti, finora si è basata sull’ipotesi che il magma fosse immagazzinato in camere magmatiche, vale a dire cavità sotterranee, piene di liquido magmatico, cioè rocce fuse.

Una sorta di serbatoi, quindi, che tuttavia non sono mai stati osservati, ma solo ipotizzati.

Il nuovo studio, condotto in collaborazione dai ricercatori dell’Imperial College di Londra e dell’Università di Bristol e reso noto attraverso la rivista Nature, suggerisce che l’ipotesi dell’esistenza di una “camera magmatica” necessita di essere rivista.

“Ora dobbiamo guardare nuovamente al come e al perché si verificano le eruzioni dai ‘bacini artificiali’”, sostiene il prof. Matthew Jackson, del Dipartimento di Scienze della Terra presso l’Imperial.

Alla base di una eruzione, i vulcani necessitano giocoforza di una fonte di magma, un insieme  di roccia fusa a composizione estremamente variabile, che contenga pochi cristalli solidi.

Da decenni è sempre stato ritenuto che questa fonte trovasse la sua giusta collocazione in una cavità della crosta terrestre, posta sotto la superficie in corrispondenza dei vulcani, la cosiddetta “camera magmatica”.

Recenti studi di chimica del magma hanno messo in dubbio questo punto di vista e hanno proposto un modello di “poltiglia” in cui piccoli pozzetti di magma si troverebbero alloggiati negli spazi tra i cristalli solidi.

Questo modello non spiega però l’esistenza di magmi contenenti pochi cristalli.

Ora, ricorrendo alla modellazione dei bacini artificiali, il team di ricerca ha trovato una spiegazione anche a questo interrogativo.

All’interno di questi serbatoi di raccolta, il magma. meno denso dei cristalli, risalirebbe attraverso gli inerstizi tra i cristalli stessi.

Nella salita, il magma reagirebbe con i cristalli con cui verrebbe a contatto, disciogliendoli e trascinandoli in zone contenenti pochi cristalli.

“Si riteneva che i vulcani fossero ricoperti da grandi camere di roccia fusa”, afferma il co-autore dello studio, prof. Stephen Sparks, della Scuola di Scuola di Scienze della Terra dell’Università di Bristol. “Tuttavia, era molto difficile individuare queste camere di magma”.

“La nuova teoria elaborata dai geologi dell’Imperial di Bristol – continua Sparks – è che la roccia fusa si formi all’interno della roccia, piuttosto che depositarsi in grandi camere di magma. Si formerebbero così delle pozze di fusione che potrebbero scoppiare o formare camere di magma effimere”.

Così come l’inizio delle eruzioni, il nuovo modello può aiutare a spiegare altri fenomeni dei sistemi vulcanici, come il modo in cui la composizione chimica del magma si evolve e la quantità di cristalli più vecchi che possono essere rinvenuti all’interno di magmi più giovani.

Leonardo Debbia

Global warming: l’ingegneria glaciale potrebbe limitare l’innalzamento marino

L’escalation del riscaldamento globale è ormai un fenomeno riconosciuto da tutto il mondo scientifico.

L’aumendo dello scioglimento dei ghiacciai artici durante la scorsa stagione estiva è stato riconfermato nei giorni scorsi dalle ossservazioni satellitari che hanno misurato una estensione minima del ghiaccio artico di 4,59 milioni di chilometri quadrati e verificato la tendenza alla riduzione media della superficie ghiacciata, pari a 54000 chilometri quadrati all’anno: cifre che anche se non raggiungono i tassi del 2012, sono pur sempre un fattore che fa pensare.

Ora, gli esperti dell’ambiente, fisici, climatologi e scienziati dell’ambiente in genere, ipotizzano scenari a dir poco inquietanti. E’ da considerare, però, che questi scienziati sono ottimi teorici ed elaborano teorie sulla base dei dati di cui dispongono.

Sul piano pratico, oltre a raccomandare una limitazione delle emissioni di gas serra, la parola – o meglio, il modo di porre rimedio – spetterebbe a politici e governanti; ma su questo fronte ci si muove poco e male. Tra assemblee, conferenze e simposi, gli accordi sono sempre rimandati a nuove date.

Ma il riscaldamento globale non attende; procede, inesorabile.

Ecco allora entrare in scena la categoria dei ‘praticoni’, vale a dire degli ingegneri, che sul campo sanno come muoversi, eccome!

La geoingegneria glaciale è difatti divenuta oggi una nuova branchia dell’ingegneria che si prefigge di affrontare il problema con soluzioni d’ordine pratico, andando alla radice o, come si suol dire a “prendere il toro per le corna”.

Secondo due ricercatori americani, Michael Wolovick e John Moore, i progetti di ingegneria civile già esistenti sulle modalità con cui fronteggiare lo scioglimento dei ghiacciai globali, avrebbero solo il 30 per cento di probabiltà di successo, mentre un progetto più ristretto avrebbe forse migliori possibilità di trattenere il collassamento dei ghiacciai.

“Fare geoingegneria significa spesso considerare l’impensabile”, afferma Moore, ricercatore della Bejin Normal University, in Cina, e docente di cambiamenti climatici all’Università della Lapponia, in Finlandia, che ha studiato un piano d’intervento con Wolovick, ricercatore della Princeton University, negli Stati Uniti.

I due hanno pubblicato i risultati del loro studio sulla rivista The Cryospher.

Invece di provare a cambiare l’intero clima – dichiarano i due scienziati – si potrebbe ricorrere ad un approccio più mirato per limitare almeno una delle conseguenze più drastiche dei cambiamenti climatici, ossia l’innalzamento del livello dei mari.

Usando tecniche ingegneristiche, si potrebbero apportare modifiche alla geometria del fondo marino nelle vicinanze dei ghiacciai che sfociano nell’oceno. Come? Costruendo una piattaforma

di ghiaccio per impedire che i ghiacciai si sciolgano ulteriornente.

Alcuni ghiacciai, come il ghiacciaio Thwaites nell’Antartide occidentale, si stanno ritirando rapidamente.

“Il Thwaites, con i suoi 80-100 chilometri di larghezza, è uno dei ghiacciai più ampi del mondo ed anche uno dei più ‘veloci’, se si pensa che raggiunge il mare di Amundsen alla velocità di due chilometri all’anno. Una sua fusione completa potrebbe innescare una fusione della calotta glaciale che farebbe aumentare di circa 3 metri il livello dei mari dell’intero pianeta”, sostiene Wolovick.

Ovviamente un evento del genere avrebbe effetti drammatici su milioni di persone che vivono sulle aree costiere del mondo intero.

Invece, limitare gli effetti di un innalzamento di livello marino attraverso la protezione costiera intervenendo alla fonte, potrebbe rivelarsi un’ottima applicazione di ingegneria glaciale.

Sono stati così esaminati due progetti.

Il primo prevede la costruzione di una diga subacquea per bloccare o limitare moltissimo l’afflusso di acque calde che raggiungono la base del ghiacciaio.

Un altro progetto, più semplice, consiste nella costruzione di cumuli artificiali o colonne sul fondale marino, che non bloccherebbero l’acqua temperata, ma potrebbero sostenere il ghiacciaio, aiutandolo anche a riformarsi.

“In entrambi i casi, si realizzarebbero strutture molto semplici, servendosi di cumuli di sabbia o ghiaia sul fondo dell’oceano”, afferma Wolovick.

Il team ha eseguito alcune modellazioni, con cui sono stati simulati questi interventi sul ghiacciaio Thwaites in una fase di riscaldamento.

“Se la geoingegneria glaciale dovesse funzionare qui, ci aspettiamo che funzioni anche su ghiacciai meno impegnativi”, scrivono su Cryosphere gli autori dello studio.

E’ stato osservato che il primo intervento potrebbe rallentare il tasso di innalzamento del livello marino ed ha una probabilità del 30 per cento di prevenire un crollo della calotta antartica occidentale. In pratica andrebbero costruiti cumuli o colonne di 300 metri di altezza sul fondale marino, utilizzando tra 0,1 e 1,5 chilometri cubi di materiali aggregati naturali (o inerti), a seconda della resistenza del materiale necessario. Servirebbe una quantità di materiale pari a quella impiegata per costruire il Canale di Suez, lungo un chilometro, o utilizzato nelle Palm Islands, le isole artificiali di Dubai (0,3 chilometri cubi).

Un progetto più sofisticato, che andasse oltre tutto ciò che è stato tentato finora, avrebbe maggiori probabilità di successo nell’evitare lo scioglimento del ghiacciaio entro i prossimi mille anni, così come migliori probabilità di riguadagnare parte della massa di ghiaccio.

Un piccolo muro sottomarino che impedisse al 50 per cento delle acque temperate di raggiungere la base della calotta di ghiaccio avrebbe il 70 per cento di probabilità di successo, mentre muri più grandi sarebbero ancora più adatti a ritardare o addirittura bloccare il collasso dei ghiacci.

Nonostante i risultati delle simulazioni siano interessanti, tuttavia gli scienziati non ritengono di poter realizzare in tempo questi progetti ambiziosi.

Si deve considerare che anche il più modesto di questi interventi interessa uno degli ambienti più difficili della Terra. E i dettagli tecnici dovrebbero essere ulteriormente elaborati.

Il team voleva verificare se la geoingegneria avrebbe potuto essere d’ aiuto e i dati ottenuti sono confortanti.

La fisica del ghiaccio mostra che la geoingegneria glaciale potrebbe funzionare per bloccare il collasso dei ghiacciai, ma per Wolovick e Moore la riduzione delle emissioni globali rimane la priorità, nella lotta ai cambiamenti climatici.

“Ci saranno segmenti dell’industria che cercheranno di utilizzare la nostra ricerca per argomentare contro la necessità di riduzione delle emissioni. La nostra ricerca non supporta questa interpretazione”, dicono.

L’ingegneria glaciale limiterebbe solo l’innalzamento dei mari, mentre la riduzione delle emissioni contrasta anche l’acidificazione degli oceani, le inondazioni, la siccità e le ondate di calore.

Dopotutto, le strutture subacquee si limiterebbero a proteggere il fondo delle calotte ma non impedirebbero che l’aria calda alimentasse la parte alta del ghiacciaio.

Leonardo Debbia

I primi esseri umani giunsero in Madagascar oltre 10mila anni fa

Durante la frammentazione del supercontinente di Gondwana, il Madagascar iniziò a separarsi, prima dall’Africa ad ovest (circa 160 milioni di anni fa) e quindi dall’India ad Est (89 milioni di anni fa).

L’isolamento che ne derivò produsse uno straordinario grado di endemismo di specie animali e vegetali, molto diverse da quelle del continente africano. E i primi esseri umani giunsero sull’isola provenienti forse da etnie indonesiane o malesi.

Dall’esame delle ossa di quello che un tempo era considerato l’uccello più grande del mondo o uccello elefante (Aepyornis maximus), di dimensioni maggiori di quelle di uno struzzo (3 metri di altezza e mezza tonnellata di peso), si è scoperto che gli esseri umani arrivarono sull’isola tropicale del Madagascar ben 6000 anni prima di quanto si sia ritenuto fino ad oggi, vale a dire oltre 10mila anni fa.

Lo afferma uno studio apparso in questi giorni sulla rivista Science Advanced.

Segni di disarticolazione sulla base del tarso e metatarso. Questi segni di taglio sono stati fatti rimuovendo le dita del piede. (crediti: ZSL)

Un gruppo di scienziati, sotto l’égida dell’ Associzione internazionale per la conservazione, che fa capo alla Zoological Society of London (ZSL), ha scoperto che le ossa degli antichi uccelli- elefanti del Madagascar (Aepyornis e Mullerornis) mostrano segni di tagli e fratture compatibili con la caccia e la macellazione, attività che non potevano che essere state praticate da esseri umani preistorici.

Usando tecniche d’indagine con il radiocarbonio, il team è stato in grado di determinare con un ottimo grado di attendibilità quando furono uccisi questi giganteschi uccelli, spostando indietro nel tempo le lancette dell’orologio che segnò l’arrivo dei primi esseri umani sulla grande isola africana.

Precedenti studi su ossa di lémuri e artefatti archeologici avevano fatto presumere che i primi esseri umani fossero giunti in Madagascar ‘soltanto’ tra i 2400 e i 4000 anni fa.

Ora, queste nuove prove, che documentano con sicurezza la presenza dell’uomo, portano i primi arrivi umani fino a 10500 anni fa.

L’autore leader dello studio, dr James Hansford, dell’Istituto di Zoologia della ZSL, dichiara:

“Sappiamo già che la megafauna del Madagascar – elefanti, ippopotami, tartarughe giganti e lémuri giganti – si è estinta meno di 1000 anni fa, ma sono state proposte diverse teorie sui motivi di questa estinzione. E non è ancora del tutto chiara l’entità del coinvolgimento umano in questo evento.

“La nostra ricerca fornisce le prove di un’attività umana in Madagascar più di 6000 anni prima di quanto si sospettasse fno ad ora e questo dimostra che è necessario rielaborare una ennesima teoria dell’estinzione, radicalmente diversa dalle precedenti, per comprendere appieno l’enorme perdita di biodiversità che si è verificata sull’isola.

Sembrerebbe che gli esseri umani abbiano convissuto con uccelli-elefanti e altre specie ormai estinte per oltre 9000 anni ma, almeno apparentemente, con un effetto negativo alquanto limitato per la maggior parte di questo arco di tempo”.

La co-autrice, Patricia Wright, della Stony Brook University, New York, sostiene: “Questa nuova scoperta trasforma la nostra idea dei primi arrivi umani sull’isola. Sappiamo che alla fine dell’ éra glaciale, quando gli umani usavano solo attrezzi di pietra, un gruppo di esseri umani giunse fin qui; ma di questi esseri non si conoscono le origini. E non si conosceranno, fino a quando non ci sosterranno altre prove archeologiche. Di una cosa siamo certi: non ci sono prove dei loro geni nel DNA delle popolazioni moderne. E allora, chi erano questi antichi individui? E quando e perchè sono scomparsi? Mistero.”

Le ossa degli uccelli-elefanti studiate in questo progetto erano state rinvenute nel 2009 nel fiume Natal, nel Madagascar centro-meridionale, un letto d’ossa fossili contenente una ricca concentrazione di antiche faune.

Questo sito paludoso avrebbe potuto essere un importante luogo adibito alla macellazione, ma sono necessarie ulteriori ricerche per averne una conferma attendibile.

Leonardo Debbia

Geoingegneria contro lo scioglimento delle calotte polari

Sembra inevitabile. Il riscaldamento globale scioglierà le calotte glaciali e i mari aumenteranno di livello. Le città costiere saranno sommerse e andranno distrutte e il mondo non sarà più come lo conosciamo ora.

Questo è lo scenario apocalittico che viene spesso paventato dagli scienziati del clima e di fronte al quale restiamo impotenti e rassegnati.

Approcci mirati per impedire o ritardare la fusione dei ghiacciai, impedendo l’innalzamento di livello dei mari, effetto del riscaldamento globale. In viola, punti di massima vulnerabilità dei ghiacciai, quando lasciano la terra e iniziano a galleggiare sull’oceano. In rosso, l’acqua più calda viene fermata da una barriera artificiale sottomarina (crediti: Michael Wolovick, Princeton University).

“O si riducono le immissioni di gas serra o finiremo in …un mare di guai!”.

Ma tra gli scienziati, c’è qualcuno che non ci sta!

Sulla rivista Nature di metà marzo, Michael Wolovick, un ricercatore di Scienze atmosferiche e oceaniche all’Università di Princeton rilancia la sfida, proponendo un rimedio.

“Gli interventi di geoingegneria possono essere mirati contro le conseguenze negative dei cambiamenti climatici”, esordisce Wolovick.

Le calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide la farebbero da protagoniste nel riversare le loro enormi quantità d’acqua negli oceani terrestri, quindi l’ideale sarebbe poter arrestare i loro  flussi più veloci di ghiaccio. Ma per far questo ci vorrebbero alcuni secoli!

E non c’è tutto questo tempo a disposizione.

“Ci sarà un innalzamento di livello del mare nel 21° secolo, ma la maggior parte dei modelli afferma che le calotte polari  non cominceranno  a collassare sul serio fino al 22° o 23° secolo”, afferma Wolovick. “Dovremmo quindi fare progetti a lungo termine”.

Stanti le estese quantità di ghiaccio della Groenlandia e dell’Antartide, i ghiacciai potrebbero essere rallentati ricorrendo alla geoingegneria, in tre modi: 1) impedire alle acque calde oceaniche di raggiungere le basi dei ghiacciai e rallentarne così lo scioglimento; 2) si potrebbero sostenere le calotte di ghiaccio al loro ingresso in mare, allorchè iniziano a galleggiare, costruendo isole artificiali; 3) si potrebbe asciugare i letti dei ghiacciai, drenando o congelando il sottile strato di acqua su cui questi scivolano.

I costi e le scale ingegneristiche di questi progetti sono paragonabili ai grandi progetti di ingegeneia civile di oggi, ma con sfide aggiuntive dovute all’ambiente polare, remoto e rigido.

Gli ingegneri hanno già costruito isole artificiali e drenato acqua da sotto un ghiacciaio in Norvegia per alimentare una centrale idroelettrica.

Alzare una banchina di fronte al ghiacciaio che scorre più velocemente in Groenlandia e costruire un muro sottomarino lungo 3 miglia e alto 350 piedi nellle acque artiche sarebbe una sfida non impossibile.

Un simile progetto potrebbe costare miliardi di dollari, ma gli scienziati osservano che senza la protezione delle coste, il costo globale dei danni potrebbe raggiungere i 50 trilioni di dollari all’anno. In assenza di contromisure geoingegneristiche, le mura marittime e le difese contro le inondazioni, necessarie per prevenire danni, costerebbero decine di miliardi di dollari l’anno.

Ovviamente, si curerebbe poi un sintomo e non la causa.

“La geoingegneria glaciale non è un sostituto per le riduzioni delle emissioni”, sostiene Wolovick.

I suoi approcci potrebbero prevenire una delle maggiori cause di innalzamento globale del livello del mare, ma non mitigherebbero il riscaldamento globale dei gas serra”.

Il destino delle calotte di ghiaccio dipende esclusivamente dalla velocità con cui si abbatteranno le emissioni di combustibili fossili.

“La geoingegneria glaciale non salverà le calotte di ghiaccio se il clima continuerà a riscaldarsi”, ribadisce Wolovick. “Sul lungo termine la geoingegneria glaciale può avere due obiettivi: potrebbe essere una soluzione di ripiego per preservare le calotte finchè il clima non torni a raffreddarsi o potrebbe gestire il collassamento delle strutture, rallentando il più possibile la fusione del ghiaccio”.

Wolovick non ama gli atteggiamenti disfattisti e catastrofici.”Il cambiamento climatico non è un’apocalisse inevitabile, ma un insieme di problemi risolvibili”, sostiene. “Si tratta di una sfida che la nostra specie può e deve superare”.

Leonardo Debbia

Arte rupestre, prima forma di comunicazione tra esseri umani

Quando e dove gli esseri umani hanno sviluppato il linguaggio?

Per scoprirlo, dobbiamo guardare nelle profondità delle caverne, suggerisce Shigeru Miyagawa, un professore del Massachusetts Institute of Tecchnology (MIT), di Cambridge.

Arte rupestre nei Monti Altai, Russia. Anche se i graffiti più famosi si trovano in Spagna e Francia, queste espressioni abbondano in tutto il mondo.

Più precisamente, alcune caratteristiche specifiche dell’arte rupestre potrebbero fornire indizi su come le nostre capacità linguistiche, simboliche e polivalenti si siano evolute fino a come lo sono oggi.

Una chiave di interpretazione di questa ipotesi è che le pitture e i disegni, le espressioni dell’arte rupestre insomma, trovano spesso la loro collocazione in punti acustici caldi, in zone delle grotte in cui il suono riecheggia più nitidamente, come è stato osservato da alcuni studiosi.

E’ un fatto accertato, infatti, che queste espressioni si rinvengono di solito nelle parti più profonde delle grotte, quelle difficilmente accessibili, a dimostrazione che l’acustica potrebbe rivestire il ruolo principale che ha guidato la loro collocazione all’interno delle caverne; come, del resto, gli stessi graffiti potrebbero anche essere rappresentativi dei suoni che i primi esseri umani sono riusciti a riprodurre proprio in quei punti.

In un nuovo articolo sulla questione scritto da Miyagawa, questo incontro tra suono e disegno è, sostanzialmente, una convergenza di informazioni uditive e arte visiva che “avrebbe permesso agli esseri umani di migliorare la loro capacità di trasmettere il pensiero simbolico”.

La combinazione di suoni e immagini è, difatti, anche una delle caratteristiche precipue dell’attuale linguaggio umano, insieme al suo aspetto simbolico e alla sua capacità di generare infinite nuove frasi.

“L’arte rupestre faceva parte dell’insieme di termini con cui l’Homo sapiens arrivava ad avere questa elaborazione cognitiva di altissimo livello”, dice Miyagawa, che è docente di linguistica, nonchè di lingua e cultura giapponese al MIT. “Questo processo cognitivo converte un segnale acustico in una rappresentazione mentale e lo esternalizza come elemento visivo”.

Gli artisti delle grotte non erano quindi solo dei Monet ante litteram, dei pittori che erano soliti raffigurare gli spazi aperti come a loro piaceva o come li ‘sentivano’, esprmendo una forma d’arte, bensì erano piuttosto umani coinvolti in una sorta di processo di comunicazione vera e propria.

“Penso che sia abbastanza evidente che questi ‘artisti’ comunicavano in questo modo tra di loro”, dice Miyagawa.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Frontiers in Psycology da Miyagawa e dai colleghi Cora Lesure, delMIT, e Vitor A.Nobrega, dell’Università di San Paolo, Brasile.

Non è chiaro l’avvento della lingua parlata nella storia dell’uomo. La nostra specie ha circa 200mila anni e la lingua è stata spesso considerata essere antica di almeno 100mila anni.

“E’ molto difficile cercare di capire come il linguaggio umano sia comparso durante l’evoluzione” sostiene Miyagawa, sottolineando che ‘si conosce forse il 99,99 per cento di quello che stava accadendo allora”.

“Tuttavia – aggiunge il professore – si ritiene, a ragione, che il linguaggio non si fossilizzi, e forse in questi  disegni rupestri possiamo vedere alcuni indizi dell’Homo sapiens come essere simbolico”.

Mentre gli esempi di arte rupestre più famosi sono stati rinvenuti in Francia e in Spagna, esistono, comunque, in tutto il mondo.

Una forma di arte rupestre che suggerisce il pensiero simbolico – incisioni geometriche su pezzi di ocra della Grotta di Blombos, nell’Africa meridionale è stata stimata sui 70mila anni di età.

Questa arte simbolica indica una capacità cognitiva che gli umani hanno portato con sé dappertutto, nel resto del mondo.

“L’arte delle caverne è ovunque”, dice Miyagawa. “Ogni grande continente abitato dall’Homo sapiens ha una propria arte rupestre…La si trova in Europa, in Medio Oriente, in Asia; ovunque, proprio come il linguaggio umano”.

Negli ultimi anni, ad esempio, gli studiosi hanno scoperto l’arte rupestre indonesiana che ritengono essere di circa 40mila anni più antica degli esempi più noti dell’arte rupestre europea.

Se l’arte rupestre è implicata nello sviluppo del linguaggio umano, trovare e datare correttamente i graffiti più antichi conosciuti ci aiuterebbe a localizzare gli organi del linguaggio nella storia umana, cosa che dovrebbe essere avvenuta abbastanza precocemente durante il nostro sviluppo.

Leonardo Debbia