Microscopiche e mortali: le microplastiche in mare, un nemico ancora poco conosciuto

La plastica inquina.
Un concetto base, un assioma che sintetizza in maniera estrema questo articolo. Ma è consuetudine associare solo i rifiuti plastici di grandi dimensioni all’inquinamento che minaccia i nostri mari, mentre ciò che è piccolo e invisibile passa in secondo piano. Sì, c’è, però è trascurabile…ma è davvero così?

Passeggiando in spiaggia, è facile imbattersi in rifiuti plastici di grosse dimensioni. Questi in foto sono stati rinvenuti lungo le coste laziali (Ph. Andrea Bonifazi)

Le plastiche lato sensu sono una delle principali fonti di inquinamento marino e negli ultimi anni questa problematica è esponenzialmente diventata più grave: basti pensare che negli ultimi 60 anni la richiesta mondiale di plastica è passata da 1 milione e mezzo di tonnellate degli anni ’50 sino alle oltre 280 milioni di tonnellate della prima decade degli anni 2000. A ciò va aggiunto il fatto che negli ultimi 50 anni la densità di popolazione mondiale è aumentata del 250%…e con lei, aumentano vertiginosamente anche i rifiuti! Le fonti di plastica in mare sono molte ed eterogenee, ma principalmente sono dovute ad apporti fluviali. Da sempre a destare più clamore sono i rifiuti di maggiori dimensioni: sacchi della spazzatura, reti da pesca, pezzi di imbarcazioni, bottiglie, ma anche elettrodomestici, penumatici o barili: eppure l’essere macroscopici e più conosciuti li rende più facilmente contrastabili o quantomeno contenibili. Viceversa, più piccole, infime e incontrollabili sono le microplastiche, frammenti di piccole dimensioni che giungono in mare attraverso scarichi urbani, attività marittime, pesca, attività ricreative…
In maniera molto lungimirante, Carpenter e Smith avevano già provato a metterci in guardia oltre 40 anni fa (1972): in un loro lavoro, affermavano che “l’incremento nella produzione di plastiche, unito alle attuali metodologie di smaltimento dei rifiuti, porteranno probabilmente a una notevole concentrazione sulla superficie del mare. Attualmente, l’unico effetto biologico conosciuto di queste particelle è che fungono da superficie su cui si accrescono idroidi, diatomee e, probabilmente batteri”. I loro studi vertevano essenzialmente sull’impatto di queste microparticelle come veicoli per il trasporto di Batteri, Diatomee ed Idroidi (problematica ancora oggi viva in quanto fungono da vettori di diffusione per molte specie alloctone). Ai giorni nostri sappiamo che questo è solo uno degli impatti biologici che hanno le microplastiche e le conseguenze di questa grave forma di inquinamento, pressoché invisibile a occhio nudo, sono decisamente più pesanti. Ma per combattere un nemico è necessario conoscerlo bene.

Questa foto mostra una situazione estrema…ma purtroppo anche questi tragici spettacoli possono essere osservati lungo le nostre coste.

Ma cosa si intende per microplastiche? Si tratta di una delle categorie in cui sono suddivisi i rifiuti plastici ed hanno dimensioni convenzionalmente comprese tra poco meno di 5 mm e 330 μm. Sebbene la misura di 5 mm sia il limite convenzionale che le separa dalle mesoplastiche, il limite inferiore delle microplastiche è strettamente relazionato alla metodologia di campionamento: difatti vengono utilizzati dei retini “Manta” a bocca rettangolare e con maglia di 330 μm utilizzati generalmente per prelievi di neuston (micro-organismi che vivono nell’interfaccia aria-acqua) in quanto la maggior parte di queste particelle tende a galleggiare nei primi cm della colonna d’acqua. Ovviamente le particelle con alta densità specifica tendono a decantare nei sedimenti, quindi sfuggono ai campionamenti di plancton e neuston.

Il retino “Manta” trascinato durante un campionamento e, a sinistra, il retinato, in cui si nota un giovanissimo Pesce e uno strato galleggiante di microplastiche e altri rifiuti terrigeni (Ph. Andrea Bonifazi)

Oltre che su base dimensionale, le microplastiche sono suddivise anche su base composizionale. I composti che più comunemente vanno a costituire le plastiche sono il polietilene, il polipropilene, il polistirene, il polietilene tereftalato ed il polivinilcloride, le cui fonti originarie sono principalmente bottiglie di plastica, contenitori per il cibo, reti da pesca, posate, pellicole, bicchieri di plastica.
Un altro modo utilizzato per distinguere le microplastiche è su base cromatica e morfologica, sovente determinata dalla fonte che li origina: possono essere campionati pellets preesistenti, frammenti derivanti da disgregazione di rifiuti (usualmente suddivisi in frammenti rigidi e in fogli plastici) di maggiori dimensioni e fibre plastiche. La suddivisione crimatica, viceversa, può permettere di risalire alle fonti originarie e prende in considerazione i colori principali e più comuni: nero, rosso, verde, blu, bianco e trasparente, oltre a unca categoria che racchiude tutti gli altri colori (percentualmente meno abbondanti). Tendenzialmente il pellet (o microbead) si presenta in forme appiattite, cilindriche, sferoidali o discoidali, i frammenti erosi sono molto più irregolari, da forme angolari ad arrotondate, con tutte le possibili morfologie intermedie, mentre le fibre si presentano sotto forma di filamenti sottili ed allungati. Quest’ultima morfologia è la sovente la più numerosa, raggiungendo percentuali superiori al 70-80% in valori espressi convenzionalmente con numero di particelle per metro cubo di acqua. Per quanto riguarda le microplastiche nel sedimento, vengono considerate le particelle rinvenute in 1L o in un Kg di sedimento bagnato. Ovviamente le forme dominanti sono strettamente relazionate agli input principali nell’area presa in esame.

Sono numerosissime le fonti di microplastiche, dai prodotti cosmetici ai rifiuti di maggiori dimensioni frantumati.

Come già specificato, le microplastiche fibrose sono quelle meglio rappresentate. Ma perchè sono così comuni? Essenzialmente perché tutti noi, senza rendercene conto, le produciamo giornalmente in grandissimi quantitativi in quanto derivano direttamente anche dai nostri abiti contenenti percentuali di poliestere o di altre fibre sintetiche. Per dare un’idea del quantitativo di microfibre rilasciate in mare, basti pensare che in media un normale lavaggio in lavatrice genera oltre 1900 microplastiche per capo d’abbigliamento (il che corrisponde ad oltre 100 fibre per Litro d’acqua per un lavaggio di tutti capi), circa il 180% in più delle fibre rilasciate da abbigliamento in lana. A questi sconcertanti dati bisogna aggiungere che, utilizzando in inverno un maggior quantitativo di indumenti, il rilascio di microplastiche fibrose aumenta di circa il 700% durante questa stagione!
Così come avviene per le fibre, l’essere umano rilascia indirettamente microplastiche anche tramite altre comuni attività apparentemente banali ed innocue: lo scrub facciale, l’uso di alcuni shampoo e saponi, il dentifricio, l’eyeliner, la crema solare… Si tratta principalmente di microbeads (“perline”) e frammenti spigolosi di polietilene che in taluni casi possono costituire oltre il 10% in peso del prodotto anche di marche rinomate (Neutrogena e Johnson & Johson). Questo significa che mediamente una persona produce potenzialmente 2,4 mg di microplastiche al giorno. Fortunatamente negli ultimi tempi c’è stata una timida inversione di tendenza, preferendo prodotti cosmetici più ecologicamente sostenibili.

Un comune prodotto per lo scrub facciale e l’enorme quantitativo di microplastiche in esso contenuto.

Oltre all’immissione diretta, le microplastiche derivano comunemente da fenomeni di erosione e degradazione di rifiuti plastici di maggiori dimensioni. Tra i processi degradativi che portano alla formazione delle microplastiche abbiamo la biodegradazione operata organismi viventi, spesso microbi, la fotodegradazione, causata dalla radiazione solare e frequente in mare aperto, la degradazione termoossidativa, con temperature moderate, la degradazione termica, relativa alle alte temperature, e l’idrolisi, tipica reazione con l’acqua. Negli ultimi anni l’allarme legato alle microplastiche è aumentato notevolmente anche grazie agli studi che si stanno svolgendo a livello comunitario in seguito al recepimento della Marine Strategy Framework Directive.

Una piccolissimo filamento microplastico rimasto incastrato tra i parapodi di un Polichete (Ph. Andrea Bonifazi)

Sono molteplici gli effetti dannosi dell’inquinamento da microplastiche. Tra i principali abbiamo l’adsorbimento di sostanze inquinanti e il bioccumulo. Gli inquinanti organici persistenti che frequentemente più vengono adsorbiti sono ad esempio i PCB e le organoclorine. Questo processo fa sì che una piccola superficie quale quella di una microparticella sia in grado di concentrare grandi quantitativi di inquinanti, favorendone la dispersione in mare.
La dispersione è chiaramente correlata ai processi di bioaccumulo in organismi che direttamente o indirettamente ingeriscono le microplastiche: tramite questo fenomeno, gli inquinanti contenuti in una singola microplstica vengono incredibilmente concentrati quando ingeriti e inevitabilmente accumulati…un’innocua Cozza rischia quindi di diventare una pericolosissima “arma chimica vivente”. Sono tantissimi i taxa affetti da questa forma di inquinamento, dai Mitilidi alle Oloturie, passando per Balani, Isopodi e Policheti (in particolar modo Arenicola spp.). Ovviamente gli animali che direttamente accumulano microplastiche sono quelli bentonici, sia detritivori che filtratori, mentre le particelle più piccole possono essere ingerite anche da organismi planctonici, come i Copepodi. L’accumulo diretto è talvolta riscontrabile anche ai livelli più alti della catena trofica, come nella Balenottera comune, che accumula notevoli quantitativi di ftalati (in media circa 45 ng/g di grasso), involontariamente estratti da queste infami particelle. E’ implicito che il processo di biomagnificazione riguardi anche il trasferimento trofico in predatori attivi quali Uccelli, Rettili e Mammiferi marini, ma anche Pesci e Cefalopodi.

Emblematica e triste foto che mostra un grosso Pesce filtratore appartenente alla alla famiglia Myliobatidae mentre nuota (e mangia) in un mare di plastica (Ph. Elitza Germanov)

D’altronde “noi siamo quello che mangiamo”, diceva il tedesco Ludwig Andreas Feuerbach. Questo aforisma è pienamente contestualizzabile anche in ambiente marino: “i pesci sono quello che mangiano”… e, dato che sovente ingeriscono microplastiche, per sillogismo “i pesci sono plastica tossica”, con tutte le aggravanti causate dai processi di bioaccumulo sopracitati. Considerando che si consumano, infatti, circa 23 chili di pesce per persona all’anno, che salgono a 25 chili in Italia (tuttavia il primato europeo spetta al Portogallo, con 56 chili a testa), gli effetti catastrofici sulla salute umana sono facilmente intuibili (Coldiretti – Impresa Pesca, 2015).

Emblematica vignetta che pone l’accento sulle “conseguenze culinarie” delle microplastiche.

Come già detto, molte microplastiche possono fungere da veri e propri mezzi di trasporto per altri organismi, favorendone la dispersione.
Generalmente la successione di organismi su una singola particella vede la colonizzazione da parte di Batteri, a cui seguono Diatomee, Foraminiferi, Idroidi, piccole alghe e talvolta addirittura Cirripedi e Briozoi. Il danno ecologico principale deriva dal possibile trasporto passivo di specie aliene, che di fatto usano le microplastiche come se fossero delle piccolissime “imbaracazioni zeppe di nemici colonizzatori”.

Come se fossero piccole zattere, le microplastiche vengono spesso colonizzate da piccolissimi organismi sia animali che vegetali, molto spesso alloctoni (© Ulg, Panctonolgy)

Il Mar Mediterraneo non è immune da questo tipo di inquinamento. Anzi, essendo un bacino semichiuso e presentando un’elevatissima densità abitativa distribuita lungo le sue coste unita ai di numerosi corsi d’acqua dolce che in esso sfociano, possiede tutte le caratteristiche per essere uno dei mari più colpiti. Si stima possano essere almeno 250 miliardi i frammenti di plastica sparsi per tutto il Mediterraneo!
Proprio per la loro pericolosità, le microplastiche sono menzionate nella Marine Strategy Framework Directive, Direttiva europea recepita in Italia nel 2010, che si propone il compito di monitorare e, successivamente, contrastare i fenomeni di inquinamento e impoverimento dei mari europei. In tale direttiva, il decimo descrittore concerne i “Rifiuti marini”, analizzati sia sotto un aspetto quantitativo che qualitativo, prendendone in esame anche la distribuzione geografica e l’impatto sugli organismi marini. Le microplastiche sono prese in considerazione nel’indicatore 10.1.3 della MSFD. Attualmente non sono disponibili dati certi ed esaurienti che permettano di avere un’idea chiara della distribuzione di questi piccoli, ma “famelici”, rifiuti marini, quindi non è ancora stabilito un valore soglia entro il quale l’impatto sugli ecosistemi marini è minimo.

A. Bonifazi, A. Travisi, V. Righetti

Bilbiografia

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Guida ai Ragni d’Europa. Heiko Bellmann. Franco Muzzio Editore.

Terrore, ripugnanza, paura morbosa e spesso totalmente irrazionale che porta a crisi di panico e a reazioni di fuga immediata: questi sono i sintomi dell’aracnofobia, una delle fobie più diffuse in assoluto.
Ma perché è così comune?
La risposta è intuitiva: l’uomo da sempre ha avuto a che fare con i Ragni, Artropodi anche di grosse dimensioni, veloci, spesso criptici e velenosi… ataviche paure, foraggiate da credenze popolari e religiose, che ormai sono saldamente radicate in molti di noi, tanto che la semplice foto di un Aracnide può suscitare disgusto e timore.
A favorire la propagazione di questa fobia, tuttavia, non è tanto il senno, quanto l’ignoranza verso determinati argomenti: in pochi si interessano ai Ragni e dai più vengono liquidati con un cinico “e se fosse pericoloso? Meglio schiacciarlo! Una ciabattata e passa la paura!“.

Eppure si tratta di invertebrati pazzeschi, dagli adattamenti più disparati e dai pattern più incredibili, con forme e colori che oscillano tra accentuate forme di aposematismo e fenotipi criptici quasi fantascientifici che gli permettono letteralmente di scomparire nell’ambiente circostante. Una variabilità non solo morfologica, ma anche etologica: sono infatti molteplici le strategie di caccia, di accoppiamento, di deposizione delle uova e dispersione delle ninfe, di edificazione della tela…
Sebbene la società occidentale sia vittima dei luoghi comuni e degli sterili stereotipi sopracitati, è necessario ricordare come alcuni popoli considerino il Ragno un Creatore da cui ha avuto origine il mondo; in India questo Aracnide è addirittura indissolubilmente legato all’Universo: la perfezione geometrica della sua tela rappresenterebbe l’Ordine cosmico contrapposto al Caos.

La copertina del testo

Per rimediare alle lacune conoscitive che non permettono a molta gente di rapportarsi come si deve a questi animali, può giungere in soccorso un testo adeguato, preciso e scientificamente inoppugnabile: “Guida ai Ragni d’Europa” è un fantastico manuale di scuola tedesca che ci permette di avere una panoramica sulle principali specie che abitano il nostro continente.
La struttura del testo permette a chiunque di approcciarsi a questi Artropodi, dal semplice curioso che magari neppure sa che i Ragni non sono Insetti, all’aracnologo di professione: dopo un prologo di Zoologia generale che permette di inquadrare questi animali da un punto di vista morfologico e fisiologico, vengono menzionate alcune loro strategie riproduttive, difensive e offensive. Ma non mancano curiosità su come viene edificata la loro ragnatela, una vera e propria opera di alta ingegneria, distinguendo così i classici predatori all’aspetto dalle specie che preferiscono predare attivamente la loro cena. Non manca neppure un excursus sugli animali che, a loro volta, sono predatori di questi piccoli predatori.
Dopo questa ampia e dettagliata introduzione, iniziano le schede relative a oltre 400 specie suddivise per famiglie, condite da più di 850 bellissime foto a colori: per ogni taxon sono menzionate le caratteristiche morfologiche, la distribuzione geografica (permettendoci così di individuare i luoghi dai quali tenerci lontani se aracnofobici o, viceversa, dove trovarli e fotografarli se aracnofili), le eventuali misure di protezione a cui sono sottoposti se in Lista Rossa, il loro comportamento; per diverse specie sono menzionate anche delle simpatiche curiosità e/o i trucchi per distinguere taxa tra loro morfologicamente molto simili. Quando è presente un marcato dimorfismo sessuale, vengono riportate le morfologie sia del maschio che della femmina; non mancano le immagini delle ragnatele e degli ovisacchi, tipologie di ritrovamenti altrettanto importanti per distinguere le varie specie.
Per i più esperti è presente anche un’utilissima chiave dicotomica per riconoscere i diversi taxa partendo da isolati caratteri diagnostici. La copertina è peraltro contrassegnata da un righello laterale, sempre utile e importante sul campo.

Esempio di testo relativo al Teridide Phylloneta impressa

Dulcis in fundo, le ultime 70 pagine sono dedicate ad altri ordini sia di Aracnidi (come Scorpioni, Opilioni e Solifugi) che di Miriapodi (Centopiedi e Millepiedi). Mancano, ovviamente, gli Insetti, ma per loro esistono testi ad hoc altrettanto completi ed esaurienti (si veda Che Insetto è questo?).

Pro: Il giudizio non può essere che positivissimo. Si tratta infatti di un testo fantastico adatto a tutti, con un occhio di riguardo per i veri amanti della Natura in ogni sua sfaccettatura: l’accurata introduzione scritta dall’autore Heiko Bellman, importante Zoologo scomparso pochi anni fa, sembra riflettere alla perfezione i pensieri di un Naturalista totalmente perso nella bellezza di questi piccoli gioielli. Le schede sono altrettanto dettagliate: la loro grande utilità sul campo è implicita, ma possono costituire anche una piacevole lettura che ci permette di immergersi in questo fantastico mondo a 8 zampe. La tassonomia, nell’ultima edizione uscita a Novembre 2016, è aggiornata seguendo il World Spider Catalog (2016).

Contro: In Europa sono presenti almeno 4000 specie che continuano a crescere con il sempre più frequente utilizzo del molecolare, quindi è impossibile avere un unico testo che le illustri tutte in maniera esauriente. Ma le oltre 400 specie qui citate sono le più comuni o le più facilmente riconoscibili, tralasciando i taxa troppo rari o troppo complessi da identificare sul campo o in foto. Decisamente più che sufficiente durante le nostre escursioni!

Andrea Bonifazi

La duplice identità della Mimosa…in realtà cosa regaliamo l’8 Marzo?

Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante” diceva Friedrich Nietzsche. E molto probabilmente c’è chi ha”partorito un’intera galassia” fornendo i nomi comuni ad alcune Fabacee (piante conosciute anche come Leguminose). In questo ribollente calderone di nomi comuni e nomi scientifici liberamente interscambiabili sono cadute Mimosa, Robinia e Acacia.

Con un parafrasato “dulcis a principio”, partiamo dal buonissimo miele d’Acacia: verrebbe da pensare che sia così chiamato perché prodotto dalle Api grazie al nettare dei fiori di Acacia.
Troppo facile… lo si ottiene grazie ai delicati fiori bianchi che arricchiscono le pendule e profumate infiorescenze della Robinia pseudoacacia, una pianta originaria del Nord America introdotta in Europa da pochi secoli. Importantissima per il suo copioso nettare, a livello ecosistemico questa Fabacea costituisce un problema non irrilevante, essendo una specie alloctona fortemente invasiva. L’epiteto specifico giunge in nostro soccorso e ci fa capire che l’errore è comprensibile: “pseudoacacia” lascia infatti intendere che la somiglianza con la classica Acacia sia lampante.

Le eleganti infiorescenze di Robinia pseudoacacia (Ph. 4028mdk09)

Ma allora qual è la vera Acacia?
L’Acacia propriamente detta appartiene appunto al genere Acacia, anch’essa una Fabacea. In Italia una specie molto comune è Acacia dealbata, ma per creare ulteriore confusione, la chiamiamo “Mimosa”. Un albero che non merita presentazioni, rinomato soprattutto per i suoi delicatissimi capolini gialli che vengono regalati l’8 Marzo in occasione della Festa della Donna. Pianta profumata e bellissima in grado di impreziosire i nostri giardini…eppure anch’essa, da un punto di vista ecologico, può costituire un problema per la nostra biodiversità, essendo una specie aliena originaria di Tasmania e Australia.

I vistosi capolini di Acacia dealbata (Ph. marieValet)

Che pignoleria, che problema c’è a chiamarla Mimosa?“, starà pensando (giustamente) qualcuno.
Il disagio nel darle questo nome scaturisce dal dualismo dialettico che accompagna questi alberi. Come già scritto, la confusione regna sovrana nella famiglia delle Fabaceae: infatti Mimosa è il nome di un altro genere di piante. Tra le specie più celebri vi è sicuramente Mimosa pudica, conosciuta come “Sensitiva”.
Caratterizzata da piccole e delicate infiorescenze rosa, è conosciuta soprattutto per i processi di tigmomastia che la caratterizzano: l’uomo è stato infatti da sempre affascinato dalla sua sbalorditiva capacità di rispondere a stimoli tattili o a vibrazioni richiudendo le foglie su se stesse. Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, ha passato delicatamente il dito alla base delle sue foglie, rimanendo a bocca aperta osservando come reagissero impellentemente.
A legare labilmente con un sottile filo questa specie alle altre, oltre la famiglia, vi è anche l’alloctonia: M. pudica, infatti, è originaria dell’America Latina.

La straordinaria Mimosa pudica (Ph. Soubhik)

Tre specie differenti e provenienti da varie parti del mondo unite da un triste destino: creare confusione mentale in chi le nomina!

Andrea Bonifazi

Sitografia

http://www.actaplantarum.org/acta/schede.php

Rettili e Anfibi d’Europa. Axel Kwet. Ricca Editore.

Odi et amo.
Una visione catulliana che, in Natura, è perfettamente calzante con l’ambiguo rapporto che la gente ha con Rettili e Anfibi. L’indifferenza nei loro confronti è rara, tendenzialmente sono le due visioni estreme a prevalere, passando dall’amore sviscerato per questi animali, che può portare a spese anche di migliaia di Euro per ricreare ambienti adeguati in cattività, giungendo fino alla repulsione più totale e irrazionale, mista a una forma atavica e biblica di paura, il più delle volte insensata.
Fa schifo! È viscido!“, “Morde ed è mortale!” o “Spruzza veleno!” sono alcune esclamazioni che, purtroppo, rinvigoriscono i luoghi comuni che riguardano questi animali affascinantissimi.
L’unico modo per eliminare paure insensate e fobie totalmente irrazionali, dettate da una comprensibile ignoranza in materia, è iniziare a conoscerli.
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.

La copertina del testo

Conoscere adeguatamente questi “striscianti nemici” può spesso portare a un drastico cambiamento di opinione.
Il modo migliore per iniziare un approccio con il mondo dell’Erpetologia è imparare a riconoscere i Rettili e gli Anfibi che, quotidianamente, troviamo intorno a noi, comprendendone comportamenti, adattamenti ed eventuale pericolosità. E il testo migliore in tal senso è “Rettili e Anfibi d’Europa“.
Un ottimo manuale di riconoscimento, utilizzabile direttamente sul campo senza problemi dai semplici appassionati, ma, essendo curato nei minimi dettagli, perfettamente fruibile anche dai più esperti. Sono ben 214 le specie descritte in questo testo, per ognuna delle quali, oltre a spettacolari foto a colori (fino a 12 per specie), è riportata una scheda dettagliata, aggiornatata ed esauriente: sono qui citate le caratteristiche morfologiche, ecologiche ed etologiche della specie, la sua eventuale pericolosità, l’habitat dove è più facile osservarla, una cartina di distribuzione e, addirittura, le eventuali sottospecie e gli altri taxa con cui è facile confonderla, quantomeno da un punto di vista morfologico.
All’inizio del testo è inoltre presente un’utile chiave dicotomica che aiuta a determinare in breve tempo la specie basandoci su alcuni importanti caratteri diagnostici. Non mancano le descrizioni degli habitat che più frequentemente sono riportati nel manuale, permettendoci di orientarci più agevolmente in Natura.
Un volume di scuola tedesca aggiornato al 2015, prendendo quindi in considerazione molte delle nuove specie più recentemente descritte su base molecolare.

Esempio di testo relativo rispettivamente ai Rettili e agli Anfibi

Pro: Il non plus ultra per chi ama, apprezza o semplicemente vorrebbe conoscere più adeguatamente questi misteriosi e spesso schivi vertebrati…attualmente non si trova nulla di meglio in lingua italiana, fidatevi.

Contro: Con l’avvento del molecolare, le nuove specie sono ormai all’ordine del giorno e ogni anno ne vengono descritte tra le 150 e le 200…scrivere una nuova edizione ogni qual volta che viene individuato un nuovo taxon è impossibile, quindi, logicamente, qualche specie non è riportata nel testo.

Andrea Bonifazi

Laddove il mito incontra la scienza, si origina la leggenda: la vera storia della “Mano del Turco” di Gaeta

L’essere umano è un sognatore, è quasi un assioma.
Anche la persona più razionale è indiscutibilmente affascinata dalle leggende che vengono tramandate da secoli o millenni. Leggende nate a causa alle ridotte conoscenze scientifiche che aveva l’uomo nel passato, ma, se contestualizzate, assolutamente plausibili, comprensibili e condivisibili.
Epica, religioni monoteiste e politeiste, credenze popolari, ataviche paure, miti e leggende…credenze che trasudano la curiosità naturalistica insita nel genere umano. Infatti, la stragrande maggioranza di queste storie fantastiche è basata su osservazioni naturalistiche non comprese realmente, ma interpretate più fantascientificamente che scientificamente.
Tuttavia le spiegazioni scientifiche sanno spesso essere più affascinanti e complesse della leggenda stessa, squarciando lo schopenhaueriano Velo che avvolge il mito, palesando la realtà che per millenni ha atteso di uscire allo scoperto. Ma non tutti accettano la “cruda verità”, permettendo così a queste leggende di continuare a vivere, lasciando integra l’aura fiabesca e spirituale che le contraddistingue.
Un filosofeggiante prologo per introdurre la storia della cosiddetta “Mano del Turco” di Gaeta, una presunta impronta lasciata nella roccia divenuta fluida in seguito alle sciagurate affermazioni di un saraceno miscredente.

Una leggenda nella leggenda nella leggenda: stando all’Eneide di Virgilio, Gaeta, celebre e incantevole cittadina in provincia di Latina, deve il suo nome a Caieta, la nutrice di Enea, sepolta dall’eroe troiano in quelle terre durante il suo viaggio lungo le coste laziali, aneddoto poi ripreso anche da Dante Alighieri. A protezione di questa località marittima, si erge il Monte Orlando, promontorio alto appena 171 metri sopra il livello del mare, ma impregnato di misticismo: come narra la leggenda, le tre profonde fenditure verticali che lo solcano, si sarebbero aperte in seguito all’imponente terremoto scatenatosi in seguito morte di Gesù; queste enormi “ferite” che lacerano il monte gli sono valse il nome di “Montagna Spaccata”.

A sinistra uno dei sentieri che si articolano all’interno della Montagna Spaccata, a destra l’affascinante Grotta del Turco.

Difficile da credere, penserete giustamente voi. Ma ogni leggenda che si rispetti deve saper rispondere in maniera credibile anche ai suoi più rigidi osteggiatori.
In difesa del mistico aneddoto inteviene quindi la storia di un marinaio turco in visita in quei luoghi: “Poco doppo sopra la Cappella sudetta stava un’huomo a contemplar l’apertura del Monte, sentendo dire da circostanti, che ‘l Monte s’aprì nella morte di Cristo, disse, toccando il Monte, tanto è vero quel che dite, quanto, che questo Monte s’ammollisca, e riceva l’impressione della mia mano. Il monte si rese tenero alla durezza dell’incredolo, e ricevè l’impressione della destra.
Questo brano, tratto dal “Breve Descrittione Delle Cose Più Notabili di Gaeta” del Rossetto (1675), foraggia ulteriormente la leggenda, impreziosendola e completandola, quasi fosse un enorme puzzle. La fantomatica “impressione della destra” che viene menzionata nell’antico scritto non è altro che la mitica “Mano del Turco”, impronta lasciata secoli fa in quel punto come indelebile emblema della spiritualità che avvolge il piccolo promontorio.

La prima pagina del testo “Breve Descrittione Delle Cose Più Notabili di Gaeta” di Rossetto nell’edizione del 1675.

La somiglianza con l’impronta di una mano lascia letteralmente impietriti: cinque arrotondati fori poco profondi che bucano la roccia, perforazioni perfettamente allineate e tra loro poco distanti che sembrano ricalcare alla perfezione l’impronta di una mano. Ma non c’è solo questo aspetto a rendere il tutto così incredibile: la roccia circostante, incredibilmente liscia e lucida, sembra ancora fluida o appena solidificata. Osservare per la prima volta questa inquietante mano traslucida lascia senza parole, per un attimo tutte le certezze scientifiche vengono meno e il misticismo sembra prevalere…difficile confutare la spiegazione che ha generato questa leggenda, se contestualizzata in un recente passato in cui tante nozioni scientifiche non erano neppure immaginabili…tanti aspetti che per un attimo sciolgono la nostra fredda razionalità, accendendo la fiamma della spiritualità…
Ma la fantasia umana è solo apparentemente illimitata: la geologia di quei luoghi, infatti, permette di fornire una spiegazione razionale ben più accurata del fenomeno che ha originato questa “impronta”.

Poggiando la propria mano sulla “Mano del Turco” ci si rende conto di quanto le dimensioni siano analoghe.

Gran parte del promontorio è infatti costituito da rocce calcaree mesozoiche e cenozoiche che hanno subito e subiscono ancora fenomeni carsici: basta osservare una cartina dell’area in questione per rendersi conto di come non sia presente un vero e proprio reticolo idrografico in quanto le acque sono perlopiù incanalate nelle fessurazioni delle rocce, sfruttando le faglie verticali come linee preferenziali entro cui scorrere, aggredendo le rocce carbonatiche e favorendo i processi dissolutivi tipici del carsismo. Ciò rimodella completamente il paesaggio, portando all’apertura di fessurazioni sempre più grandi e profonde che hanno dato vita agli imponenti solchi che caratterizzano la “Montagna Spaccata”. Quindi non c’è un’origine sismica alla base di questa particolare conformazione, bensì un’accurata commistione tra reazioni chimiche e fisiche.
Piccole fessurazioni sono inoltre originate, oltre che dai fenomeni sopracitati, anche alla dissoluzione dovuta alla presenza di Monetite, un Fosfato acido di Calcio localizzato solo in poche aree del promontorio che, con reazioni a freddo, può ulteriormente dissolvere i calcari e corrodere le falesie. Vere e proprie “micro erosioni” che, nel caso della “Mano del Turco”, sono avvenute in cinque differenti punti allineati e vicini tra loro, ma gli osservatori più attenti avranno notato che questi fori sono presenti anche in altri punti. Perché proprio cinque? Perché così ravvicinati? Perché quasi allineati? Qui si passerebbe nel campo delle pure speculazioni, quindi meglio non addentrarcisi…
E la roccia apparentemente liquefatta, invece, a cosa è dovuta? Qui la spiegazione è più banale: come avviene per molte statue presenti nelle chiese, con mani e piedi incredibilmente lisci a causa dell’usura provocata dal continuo sfregamento dei devoti come atto di fede, anche la roccia presente lungo le pareti del Monte Orlando è stata levigata involontariamente dalle migliaia e migliaia di pellegrini e turisti che ogni anno visitano quel luogo mistico. Decine di migliaia di mani che, per curiosità, per fede o semplicemente per una foto ricordo, mettono la loro mano nell’impronta del marinaio saraceno, la accarezzano, la sfiorano incuriositi, causando involontariamente un’erosione fisica che si aggiunge a quella chimica già in atto.

La roccia sottostante la “Mano del Turco” è levigata e apparentemente liquefatta (Ph. Alessandra Bassoli).

La Scienza è così in grado di trovare una spiegazione alla misteriosa leggenda che per secoli ha aleggiato lungo le scalinate che percorrono in lungo e in largo quel luogo ebbro di spiritualità, senza tuttavia scalfire il fascino di un mito che rimarrà vivo per sempre.


Andrea Bonifazi

Bibliografia

Amanti M., Aversa M., Cesi C., Di Manna P., Vittori E. (2007). Monitoring the rockfall hazard of the Montagna Spaccata, Gaeta, sea cliff. Geophysical Research Abstracts, 9, 11362.

Madonna A., Alwany M.A., Rabbito D., Trocchia S., Labar S., Abdel-Gawad F.K., D’Angelo R., Gallo A., Guerriero G., Ciarcia G. (2015). Caves Biodiversity in the Marine Area of Riviera d’Ulisse Regional Park, Italy: Grotta del Maresciallo Overview. Journal of Biodiversity & Endangered Species, 3(2), DOI: http://dx.doi.org/10.4172/2332-2543.10.4172/2332-2543.1000153

Rossetto P. (1675). Breve descrittione delle cose più notabili di Gaeta. Napoli: Roncagliolo per Castaldo.

Russo G.F. (2005). Indagine conoscitiva sui popolamenti bentonici delle Aree Marine d’Interesse del Parco Regionale Riviera d’Ulisse. Rapporto tecnico DISAm, pp. 102.

La vera storia del Brucaliffo…perché la Natura può essere più incredibile delle fiabe

Il Brucaliffo, uno dei personaggi delle fiabe più conosciuti in assoluto.
Inventato da Lewis Carroll, fa la sua prima apparizione nel 1862 in “Alice’s Adventures Underground”, per poi ricomparire nel 1865 in “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”.
Non è citata alcuna specie relativa a questo simpatico e istrionico personaggio e nel libro è riportata una sua descrizione fisica accurata, ma le sue fattezze possono essere intuite grazie alle bellissime illustrazioni di John Tenniel.

Il Brucaliffo nell’illustrazione del 1865 di Sir John Tenniel

Blu, liscio e privo di setole, alto (o lungo, che dir si voglia) circa 8 centimetri, fuma avidamente un narghilè seduto su un fungo.
Sullo sfondo dell’illustrazione si scorge anche un’infiorescenza costituita da fiori a 5 petali uniti in una lunga corolla…non vi ricorda nulla? Notevole è infatti la somiglianza con le infiorescenze di Nicotiana tabacum, la Solanacea dalle cui foglie essiccate si ottiene il tabacco, riproponendo così il tema del fumo.

Le delicate infiorescenze di Nicotiana tabacum, la celebre pianta del Tabacco (Ph. Joachim Müllerchen)

Sebbene sia una pianta non minacciata da molti Insetti pascolatori, avendo un gusto non molto gradevole, esiste una specie di Lepidottero le cui larve la apprezzano davvero notevolmente, tanto da essere comunemente chiamata “Sfinge del Tabacco” o “Tobacco Hornworm”: il Lepidottero Sfingide Manduca sexta.
Le larve di questa specie, diffusa nelle Americhe, compiono pasti così luculliani da causare gravi danni alle coltivazioni di Tabacco.
Ma com’è fatta la larva? Verde, liscia e priva di setole, alta (o lunga, che dir si voglia) circa 8 centimetri, divora avidamente le foglie di Nicotiana tabacum. Se avete una leggera sensazione di déjà vu è solo perché la sua descrizione coincide quasi interamente con quella del Brucaliffo, colore a parte.

La grossa larva di Manduca sexta (Ph. Dave Pape)

Non è solo l’aspetto fisico a ricordare il Brucaliffo, in comune con il personaggio ideato da Carroll presenta anche un’altra sensazionale peculiarità: fuma! O meglio, è in grado di rilasciare soffi di nicotina (estratta direttamente dalle foglie della sua pianta nutrice) dagli spiracoli disposti lateralmente al suo corpo in modo da tenere lontani gli eventuali predatori, perlopiù Ragni Licosidi. I ricercatori, che solo recentemente hanno realizzato tale scoperta, hanno ribattezzato il fenomeno “alitosi difensiva”.
Dettagliate osservazioni naturalistiche unite a coincidenze incredibili hanno fatto sì che ad oggi il Brucaliffo possa avere un nome: Manduca sexta!

Andrea Bonifazi

Bilbiografia

Kumar P. Pandit S.S., Steppuhn A., Baldwin I.T. (2013). Natural history-driven, plant-mediated RNAi-based study reveals CYP6B46’s role in a nicotine-mediated antipredator herbivore defense. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 111(4), 1245–1252.

Le specie che non ti saresti mai aspettato: quando la Tassonomia diventa “hot”

“In amore e in guerra tutto è lecito”, recita un vecchio proverbio.

Anche la Tassonomia non è da meno: non appena subentra una valida motivazione scientifica, molti autori si sbizzarriscono, descrivendo nuove specie con nomi assurdi, divertenti…e talvolta davvero imbarazzanti!
Quando un nuovo taxon viene descritto, il nome viene ispirato da determinati criteri, come una particolare caratteristica morfologica, uno strano comportamento o l’habitat di riferimento della specie, mentre in altri casi si decide di dedicare il nome a una persona cara o a un autore di particolare rilievo in quel settore. Un esempio immediato potrebbe essere la specie Apis mellifera: il perché del nome è davvero intuitivo, dato che si tratta della comune Ape europea, grazie alla quale si ottiene il miele. Un nome facile, quasi banale…due parole per descrivere in maniera univoca un animale.
Come già accennato, spesso i nomi vengono dati in base all’aspetto morfologico della specie in questione: piatto, largo, gigante, minuscolo, ornato, dipinto…e chi più ne ha, più ne metta. Ma i tassonomi non scelgono sempre la soluzione più “sobria”, ci sono circostanze in cui la morfologia è così palese da rendere quasi inevitabile la decisione di dare nomi…hot!
L’esempio forse più eclatante in tal senso è un Fungo Basidiomicete abbastanza comune in boschi misti, ma frequente anche nei giardini. Può un Fungo avere un nome scientifico ai limiti della censura? La risposta è ovvia: assolutamente sì! Questa specie si chiama Phallus impudicus…e non serve essere dei latinisti per comprenderne il motivo: letteralmente significa “Pene senza pudore”, sia genere che epiteto specifico dovuti alla particolare morfologia del gambo cilindrico e spugnoso sormontato da un cappello più scuro, quasi avvolgente l’apice della struttura basale.

Il curioso Fungo Phallus impudicus (Ph. Jean-Pol GRANDMONT)

Motivazioni analoghe sono alla base del nome dato ad un poco appariscente Tunicato Ascidiaceo molto diffuso anche in Mar Mediterraneo: Ascidia mentula.
Di aspetto sacciforme, ma abbastanza allungato, coriaceo al tatto, sovente di colore rosato, aperto apicalmente…già la descrizione che dovrebbe far intuire l’aspetto di questo simpatico filtratore sessile, ma il significato latino dell’epiteto specifico “mentula” toglie ogni dubbio residuo: altro non è che il sinonimo volgare di “pene”! “Phallus” in questo caso non era sufficiente, la morfologia era così esplicita che nessuna censura sarebbe servita!

Ascidia mentula, un Ascidiaceo comune anche in Mar Mediterraneo (Ph. http://www.natuurlijkmooi.net)

Come è giusto che sia, anche in tassonomia ci sono le quote rosa, quindi perché non lasciarsi ispirare anche dai…genitali femminili? In questo caso è bene menzionare una pianta, della quale basta ricordare l’esplicitissimo genere: Clitoria, le cui specie sono originare dell’Asia tropicale, ma successivamente introdotte anche in Africa, Australia e America…insomma, una pianta dal nome “hot” che ama ambienti caldi.
Anche in questo caso ulteriori delucidazioni sarebbero superflue in quanto l’etimologia latina è così affine al termine attuale da lasciare ben pochi dubbi: il nome del genere deriva dal latino “clitoris“, cioè “clitoride”, a sua volta derivante dal greco “kleitoris“, che significa “piccola collina”. I fiori, infatti, ricordano fortemente una vulva, con tanto di “petaloso clitoride” nella sua porzione superiore. Diverse specie appartenenti a questo genere potrebbero essere fonte di ulteriore vernacolare ludibrio, come Clitoria virginiana, C. brasiliana, C. fragrans o C. nana, ma il rischio di scadere nel trash è elevato, quindi è più opportuno cambiare discorso. Ora parliamo di merda.

Il bellissimo fiore di Clitoria ternatea, una delle specie più comuni del genere (Ph. Ton Rulkens from Mozambique)

La nostra è chiaramente una lingua neolatina, quindi non c’è bisogno di spiegare il significato di questa parola, identica sia in Latino che in Italiano. Tale termine è la radice dell’epiteto specifico dato ad una specie di Coleottero Crisomelide: Lilioceris merdigera, specie, originaria dell’Eurasia, particolarmente invasiva nelle colture delle zone temperate. Ennesimo caso in cui la cruda realtà è stata preferita alla meno esplicita fantasia: “merdigera” è una parola di origine latina che unisce i termini “merda” e “gero“, ovvero, e cito testualmente, “portatore di merda”. Una caratteristica delle larve di questa specie (comune tuttavia anche ad altre specie congeneriche) è infatti quella di creare un astuccio esterno formato dai suoi stessi escrementi, che, una volta seccati e solidificati, formano una calotta che ricorda vagamente delle feci di Uccello. Una strategia quasi estrema, ma fondamentale per tenere lontani gli eventuali predatori (sperando di non incontrare qualche coprofago). D’altronde alcuni animali, per difendersi, presentano adattamenti maestosi, appariscenti, variopinti, altri puntano su forme estreme di criptismo o di mimetizzazione, altri ancora…puntano tutto sulla cacca! Merdigera è peraltro il nome di un genere di Gasteropodi terrestri caratterizzati dalle medesime strategie di sopravvivenza ai limiti del feticismo più spinto.

Larva del congenerico Lilioceris lilii, anch’essa caratterizzata da un astuccio larvale formato da feci (Ph. Luis Miguel Bugallo Sánchez)

Questi sono solo alcuni isolati esempi scelti perché particolarmente eclatanti…ma sono centinaia le specie caratterizzate da un nome che, decontestualizzato dal nobile ambito scientifico, sarebbe potuto apparire volgare, imbarazzante e hot!

Andrea Bonifazi

Bilbiografia

Costa J.T. (2006). The Other Insect Societies. Hardard University Press, pp. 812.

Driessen G., Hemerik L., Van Alphen J.J.M. (1989). Drosophila Species, Breeding in the Stinkhorn (Phallus impudicus Pers.) and Their Larval Parasitoids. Netherlands Journal of Zoology, 40(3), 409-427.

Gomez S.M., Kalamani A. (2003). Butterfly pea (Clitoria ternatea): a nutritive multipurpose forage legume for the tropics: an overview. Pakistan Journal of Nutrition, 2(6): 374-379.

Kijashko P.V. (2006). A new species of the genus Merdigera Held, 1837 (Gastropoda: Pulmonata: Enidae) from Northwest Caucasus. Ruthenica, 16(1-2), 89-91.

Svane I. (1984). Observations on the long-term population dynamics of the perennial ascidian, Ascidia mentula O.F. Müller, on the Swedish west coast. Biological Bulletin, 167(3), 630-646.