Non servono grandi cifre per avere un bellissimo borsellino… basta una passeggiata in spiaggia!

Trovando una forchetta in mare, il Gabbiano Scuttle, associando a quel misterioso oggetto dalla strana forma ció che gli sembrava piú simile, ovvero un pettine per capelli, rivolgendosi verso la sirenetta Ariel, disse: “È un autentico arricciaspiccia! Gli umani usano questi gingillini per sistemarsi i capelli. Vedi, basta metterlo qui, farlo girare, dare uno strattone, tiro là… ed ecco in un batter d’occhio un’acconciatura alla moda, esteticamente graziosa, di cui le creature umane non possono fare a meno“.
E come dimenticare il “soffia bla-bla”?

Punti di vista e soggettività sono elementi ricorrenti in mare, soprattutto durante una passeggiata in spiaggia: cosí come le disneyane creature del mare interpretano fantasiosamente ció che da terra va a mare, noi diamo spiegazioni strambe e spesso poetiche a ció che da mare viene a terra.
É questo il caso del cosiddetto “borsellino delle Sirene”, una strana struttura circa rettangolare, generalmente scura, appiattita e caratterizzata da quattro filamenti apicali (chiamati “corna”) disposti ai suoi vertici, che da sempre incuriosisce e alimenta folkloristiche spiegazioni.
Oltre alla forma squadrata e alla presenza dei “manici”, anche la presenza di una precisa apertura in corrispondenza di uno dei due margini piú brevi concorre a darle l’aspetto di un’elegante pochette degna di Ariel.

Una capsula ovigera di Raja montagui ormai secca e vuota (Ph. gailhampshire from Cradley, Malvern, U.K) e una capsula di Raja sp. appena rinvenuta spiaggiata in cui è ancora visibile l’embrione (morto) al suo interno (Ph. Alessandra Pracchia)

Ma come per l’arricciaspiccia, spesso la fantasia vince sulla realtà, alimentando la poesia che ci fa tornare un po’ bambini. Eppure la spiegazione biologica non é meno affascinante: si tratta della capsula ovigera di alcune specie di Pesci cartilaginei ovipari. Nella maggior parte dei casi sono state deposte da Razze (Famiglia Rajidae), sebbene non siano rare neppure le piú chiare uova di Gattuccio (Famiglia Scyliorhinidae).
Generalmente le capsule ovigere che troviamo spiaggiate sono schiuse, con il piccolo embrione uscito proprio da quella geometrica fessura che tanto ci ha incuriositi.
La particolare morfologia permette alla madre di ancorare le uova a substrati duri (rocce, alghe o Gorgonie) tramite gli arricciamenti (o viticci) delle corna, mentre in altri casi vengono attaccate grazie a speciali fibre adesive che avvolgono il guscio. Durante la deposizione, la femmina inizia a girare intorno al substrato scelto, permettendo alla capsula di rimanere saldamente ancorata.
Basta una leggera mareggiata durante il periodo riproduttivo per far sì che se ne trovino a decine spiaggiate. Apparentemente molto simili tra loro, sono in realtà differenti a seconda della specie che le ha generate e riconoscere con certezza il taxon a cui apparteneva la “cartilaginea mamma” non è nè semplice nè intuitivo, ma esistono studi ad hoc che possono aiutarci in questa naturalistica impresa.

Un uovo deposto e abilmente ancorato al subtrato (Ph. Peter Southwood)

La nascita di una nuova Vita non é forse ancor piú meravigliosa della seppur fantasiosa e fiabesca spiegazione che si é soliti dare a queste strane e misteriose strutture?

L’adorabile bellezza di un esemplare di Raja clavata (Ph. Vassil)

Anni fa il New York Times recitava “Le borse sono i nuovi gioielli“… nulla a che vedere con i “borsellini delle Sirene”, non solo affascinanti gioielli naturali, ma anche portatori sani di una nuova Vita.

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Mancusi, C., & Serena, F. (2015). Diagnosi morfologica delle capsule ovigere dei condroitti mediterranei. Metodiche di studio, biologia e chiavi di determinazione specifica: 77 pp.

Alla scoperta di una nuova specie: intervista con il Tassonomo

È quasi un assioma: ormai è possibile scoprire specie nuove solo in luoghi inesplorati e inaccessibili all’uomo.

Eppure non sono necessari incontaminati paesaggi salgariani, basterebbe fare attenzione a ciò che si osserva e nuove specie possono essere scoperte anche in luoghi che definire antropizzati è riduttivo.
È questo il caso di Caulleriella mediterranea Lezzi, 2017, una nuova specie di Polichete Cirratulide scoperta nei mesi scorsi lungo le coste toscane dal Dottor Marco Lezzi. Nato vicino Lecce, dove si è laureato e dottorato, ma attualmente residente a Pisa, dove lavora in ARPA Toscana nell’ambito del monitoraggio marino, si sta affermando come uno dei massimi esperti mondiali di questa complicata ed eterogenea famiglia di vermi marini.

Alcune immagini relative a C. mediterranea presenti nell’articolo pubblicato sulla rivista The European Zoological Journal

In Mediterraneo godiamo di una biodiversità ricchissima, e tante ancora sono le specie da scoprire e descrivere… e magari, anche solo passeggiando sulla battigia, senza volerlo, calpestiamo degli autentici “tesori zoologici”!
È senza dubbio appagante e confortante sapere che specie sconosciute alla Scienza siano presenti ancora oggi in Italia, essendo ormai globalmente abituati solo a segnalazioni tanto di specie prossime all’estinzione, quanto di specie aliene ed invasive provenienti da ambienti completamente differenti…
Nonostante un “vermetto” non abbia lo stesso appeal e soprattutto lo stesso impatto mediatico che potrebbe avere una nuova specie di Uccello o di Mammifero, la notizia è stata battuta da diversi media, quali testate locali, numerosi siti, il Tg regionale e arrivando addirittura sulla prima pagina de Il Tirreno!

La prima pagina del quotidiano Il Tirreno e l’articolo di Valentina Landucci sul Dottor Lezzi uscito in edicola il 5 Agosto.

La scoperta, pubblicata a inizio Luglio sulla rivista internazionale The European Zoological Journal, ha fatto il giro del mondo in breve tempo; è quindi un onore aver potuto intervistare in esclusiva questo giovane Tassonomo, potendo conoscere meglio sia lui, sia la “setolosa star” che ha scoperto e descritto.
Di seguito l’interessante scambio di battute.

Ciao Marco, negli ultimi giorni non si fa altro che parlare di te a causa della tua straordinaria scoperta. Ma prima di parlare di Policheti, dicci qualcosa sul tuo conto.

Ciao Andrea, grazie per avermi dato l’opportunità di parlare di qualcosa di cui raramente su parla, ovvero la biodiversità ancora nascosta dei nostri mari. Che dire di me… sono un biologo Marino “cresciuto” nell’Università del Salento dove ho potuto studiare molteplici aspetti della biodiversità marina. Ad oggi lavoro presso l’ARPA Toscana, dove mi occupo di biomonitoraggio ambientale.

Ma arriviamo al dunque: Caulleriella mediterranea é la specie che hai descritto. L’epiteto specifico “mediterranea” manca un po’ di originalità: avevi inizialmente pensato di chiamarla diversamente o questa è sempre stata la tua idea? Ti sono arrivati altri suggerimenti?

Dare un nome alla specie non è mai facile. A mio avviso è sempre preferibile dare un nome legato alle sue caratteristiche o all’ambiente in cui vive. Caulleriella mediterranea è la prima specie del suo genere descritta per il Mar Mediterraneo… un epiteto che manca di originalità, ma che può essere facilmente ricordato da chi fa quotidianamente monitoraggio. Suggerimenti? Certo, sono arrivati, a volte molto scherzosi e divertenti… ma meglio un nome banale che un nome risibile.

Quando hai capito di avere sotto l’oculare del microscopio una specie mai descritta? Come hai reagito? Hai pianto di gioia o hai mantenuto la tua impeccabile serietà messapica?

Prima di capire di avere a che fare con una specie mai descritta di una nuova specie, è passato un po’ di tempo. Molti sono stati gli approfondimenti e le ricerche svolte: ad esempio, è stato necessario andare a ricercare e studiare tutte le descrizioni originali di organismi congenerici e scovarne le differenze. Spesso le descrizioni originali sono incomplete e scritte più di un secolo fa. Tutto questo complica l’andamento dello studio. È stato anche necessario anche analizzare una specie congenerica originaria del Mar del Nord (Caulleriella alata), con cui la nuova specie veniva probabilmente confusa. È un processo lungo e snervante descrivere un organismo di pochi millimetri. Dopodiché, l’ennesimo scoglio è far accettare alla comunità scientifica la nuova specie.

La passione per i Policheti è senza dubbio anomala… e te lo dice uno che alleva Insetti. Come è nata? Eri uno di quei bambini che scavava in giardino e mangiava i lombrichi?

È nata solo recentemente, e quasi per necessità di rafforzare l’interesse in quello che può esser considerato un lavoro noiosissimo, ovvero passare ore al microscopio per contare e dare il nome a organismi di pochi millimetri. Se si associa un’attività routinaria alla volontà di ricercare e cercare di dare un contributo alla conoscenza, può nascere una passione.
Tu sei uno dei massimi esperti mondiali della famiglia Cirratulidae.

Come hai scelto proprio questo taxon? É poco studiato e volevi colmare questa lacuna conoscitiva? O questo tuo “cirroso amore” è nato per caso?

Troppo facile quando si conosce qualcosa di un gruppo tassonomico ignorato da molti. Infatti pochissimi conoscono la diversità di questa famiglia… ovviamente lo studio di questo gruppo non è un caso. È presente una lacuna conoscitiva da colmare, in particolare nel bacino del Mediterraneo. Quando si avvertono condizioni simili ci si tolgono le migliori soddisfazioni.

La passione per animali così poco conosciuti e spesso vittime di pregiudizi fa sì che si venga percepiti come “strani”. Cosa vuoi dire a chi ci considera tali?

C’è molta ignoranza data da una cattiva educazione ambientale che il sistema offre. Fortunatamente negli ultimi anni, grazie alla rete, le informazioni possono essere cercate e non necessariamente imposte da terzi. Tendo a non considerare chi ha simili pregiudizi sebbene ritengo che chi percepisce questa stranezza, inizi ad avere la consapevolezza della moltitudine di organismi che esistono.

Ora il tuo nome sarà per sempre inciso a fuoco nella storia del benthos marino costiero. Pensi che questa sarà la prima di tante nuove specie che descriverai? O la botta di fortuna (e di virtuosa bravura) che hai avuto non credi si ripeterà più?

…non è la prima specie che ho descritto e spero che non sia l’ultima…qualcosa di nuovo ci sarà…

Ti senti il nuovo Linneo?

Linneo ha descritto 3000 specie… non aggiungo altro…Oggigiorno ci sono centinaia di Linneo che scoprono specie in ogni angolo del mondo.

La biodiversità mediterranea è molto ricca. Statisticamente, quante specie ritieni che siano state mediamente scoperte? E quale pensi sia il phylum che merita maggiori studi?

C’è ancora tantissimo da scoprire, soprattutto in ambienti poco conosciuti come gli quelli batiali. Infatti non esiste un phylum che necessiti maggiori attenzioni… esistono ambienti che necessitano maggiori attenzioni… Possono essere ancora centinaia le specie da descrivere soprattutto alla luce dell’apparato che la Biologia Molecolare offre alla Tassonomia. Il problema che si riscontra è la mancanza di specialisti. Senza di loro la ricchezza dei nostri mari non potrà mai essere apprezzata a pieno.

Grazie per il tempo che mi hai dedicato, ma soprattutto grazie a nome della Scienza.

Grazie a te e al notevole sforzo che fai per una divulgazione oggettiva che spesso manca in rete! Alla prossima!

Intervista a cura di Andrea Bonifazi

Bibliografia

Lezzi, M. (2017). Caulleriella mediterranea, a new species of polychaete (Annelida: Cirratulidae) from the central Mediterranean Sea. The European Zoological Journal, 84: 1-10. DOI: http://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/24750263.2017.1343397

Read, G. (2017). Caulleriella mediterranea Lezzi, 2017. In: Read, G.; Fauchald, K. (Ed.) (2017). World Polychaeta database. Accessed through: World Register of Marine Species at http://www.marinespecies.org/aphia.php?p=taxdetails&id=1023086 on 2017-08-25

Piante selvatiche commestibili. Come identificarle, raccoglierle e prepararle. Rudi Beiser. Ricca Editore.

La curiosità naturalistica é la base di tutto, non c’é alcun dubbio. Interrogarsi su ció che ci circonda é la cornice di ogni nostra escursione sia se questa sia finalizzata a studio o lavoro, sia se sia mossa da semplice scopo ricreativo. “Cos’é? Che specie é? É velenosa?” sono domande che alternativamente sono valide tanto per il regno animale che per quello vegetale, ma nel secondo caso viene aggiunto anche il dubbio amletico “é commestibile?“.
Quesiti che non sempre trovano immediata risposta, anzi, rimangono spesso insoluti soprattutto sul campo, quindi un buon manuale é basilare per trovare le giuste risposte.

Ed é qui che subentra “Piante selvatiche commestibili. Come identificarle, raccoglierle e prepararle” della Ricca Editore.
Noi siamo quello che mangiamo“, diceva il filosofo tedesco Ludwig Andreas Feuerbach. E dalla Germania provengono anche gli autori di questo fantastico manuale di riconoscimento botanico, ma che é deliziosamente arricchito da idee culinarie di sicuro successo e spunti storici e folkloristici semplicemente irresistibili. Il gusto che si prova nel mangiare ció che si é raccolto personalmente é indescrivibile, se la raccolta é una piacevole aggiunta a una nostra escursione naturalistica, il piacere é doppio. La massima “noi siamo quello che mangiamo” assume quindi una valenza differente e decisamente piú stimolante.
Nel testo sono presenti le schede di 150 piante selvatiche condite da oltre 620 foto a colori e tavole botaniche, con un’attenzione particolare al rigore botanico: sempre presente é infatti il nome latino della specie e la famiglia di appartenenza, oltre alle principali caratteristiche morfologiche che ci permettono un veloce riconoscimento, il periodo dell’anno in cui é possibile osservarla, l’habitat di riferimento e le specie simili con cui é possibile confonderla. Ogni scheda tecnica é condita da idee culinarie degne di chef stellati che prendono in considerazione qualsiasi parte della pianta, dalle radici ai petali, passando per foglie, frutti e semi. Ho personalmente provato un piatto di pasta con pomodorini e foglie di Portulaca oleracea insaporito da frutti di Daucus carota che ho raccolto durante una recente passeggiata e ancora mi lecco i baffi!

La copertina del testo

Ma c’é di più: per ogni specie sono presenti cenni storici e gustosi aneddoti che rendono ancor piú affascinante la pianta che stiamo raccogliendo. In aggiunta, sono riportati gli usi che queste specie venivano fatti nella medicina tradizionale e che ancora oggi potrebbero essere un buon aiuto (sebbene, come specificato nel testo, non sostituiscono i rimedi farmaceutici).
É oltretutto presente un’appendice in cui sono descritte le specie tossiche (talvolta mortali) in cui ci potremmo imbattere, d’altronde é lapalissiano specificare come sia di vitale importanza evitare di sbagliarci: confondere ad esempio un’infiorescenza di Carota selvatica con una di Cicuta é un errore che é facile commettere se non si ha molta dimestichezza con la Botanica, quindi, nel dubbio, meglio lasciare la pianta là dove é stata trovata.

La scheda relativa a Hippophae rhamnoides

Sia chiaro: non siamo moderni Attila e dove passiamo noi DEVE continuare a crescere l’erba, quindi, per evitare di emulare il simpatico re degli Unni, nel manuale sono riportati anche i quantitativi indicativi che é lecito raccogliere senza depredare il prato in cui stiamo passeggiando.

Pro: Se amate la Botanica questo testo fa per voi. Se amate le escursioni questo testo fa per voi. Se amate la storia e il folklore legati alla Natura questo testo fa per voi. Se amate i rimedi naturali e la cucina sana questo testo fa per voi, tanto se siete vegani quanto se siete carnivori.

Contro: Gli autori, provenendo dalla Germania, hanno tarato il testo piú che altro sulla flora del Nord Europa, quindi mancano alcune piante tipiche di macchia come il Ginepro, l’Alloro, il Corbezzolo o il Rosmarino, mentre sono presenti le schede di specie meno comuni alle nostre latitudini, come il Mirtillo. Ma non vi potrete trovare troppo spaesati se state passeggiando in piena macchia mediterranea, dato che molte delle specie riportate sono ubiquitarie e comuni tanto in Sicilia meridionale quanto in Trentino settentrionale.

Andrea Bonifazi

Morire di ignoranza e pregiudizi: i Serpenti italiani e le (numerose) leggi che li tutelano

Il Signore Dio disse alla donna:
«Che hai fatto?».
Rispose la donna:
«Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché tu hai fatto questo,
sii tu maledetto più di tutto il bestiame
e più di tutte le bestie selvatiche;
sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia tra te e la donna,
tra la tua stirpe
e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno»
.

L’affresco “Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre” di Michelangelo Buonarroti (1510 circa) facente parte della decorazione della volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma.

Così recita la Genesi, il primo libro della Bibbia. Pur essendo stata scritta secondo tradizione, circa 3000 anni fa, è ancora diffusissimo il timore che i serpenti possano “insidiare i nostri calcagni”, tanto che l’unica soluzione per risolvere il problema sembra sia “schiacciargli la testa”. Povero serpente: uno degli animali più anticamente diffusi nella simbologia mitologica, sia con accezioni positive che negative, viene ancora oggi identificato con il male assoluto e considerato come un’atroce fiera portatrice di morte e distruzione che deve essere sterminata. “«Bene e male sono i pregiudizi di Dio» disse il serpente“, recitava Friedrich Nietzsche in “La gaia scienza”. E come dargli torto, certe credenze sono profondamente radicate nell’uomo e spesso ci avvolgono con le loro spire di ignoranza, dimostrandosi ben più temibili del “mortale abbraccio” di un serpente…
Eppure oggi dovremmo avere le conoscenze necessarie per capire che luoghi comuni e falsi miti inerenti questi meravigliosi Rettili, fondamentali a livello ecosistemico, possono essere soppiantati da concezioni razionali e fondate su salde basi scientifiche.
Utopia? Forse. Speranza? Tanta. Tantissima.
Infatti i serpenti vengono troppo spesso neutralizzati con badilate in testa, con bastonate che gli frantumano le ossa, ma anche calpestati con robusti scarponi o investiti volontariamente, quasi fossero birilli da puntare e abbattere senza pietà. C’è un unico filo conduttore che motiva questi atavici e anacronistici gesti colmi di rabbia e timore: la paura che possano mordere con i loro “aguzzi e mortali denti veleniferi”. Paura essenzialmente infondata in Italia, vana giustificazione di una conoscenza davvero molto scarsa dell’erpetofauna nostrana e in generale della Natura che ci circonda. Morire ancora oggi a causa di ignoranza e pregiudizi è assurdamente anacronistico e fuori da ogni logica. “Non sapevo se fosse velenoso, nel dubbio l’ho ucciso!”, “Se avesse morso i bambini o il cane? Chi pensa ai bambini??” e “Non tutti siamo esperti di serpenti, a ognuno le sue conoscenze” sono le affermazioni che costituiscono solo l’apice di un iceberg di ignoranza naturalistica che cerca sempre la soluzione più facile e immediata, senza curarsi minimamente delle conseguenze o delle soluzioni alternative.

A prescindere da ciò che si pensa, siamo abituati bene in Italia: poche specie di serpenti strisciano nelle nostre campagne, circa 23, la maggior parte delle quali totalmente innocue (18), mentre le poche specie velenose, quasi tutte appartenenti al genere Vipera, sono decisamente poco comuni e soprattutto molto schive. Animali affascinanti, eleganti e fondamentali per l’ecosistema: essendo predatori attivi di piccoli animali talvolta invasivi, come topi e ratti, i serpenti riescono a controllarne le popolazioni, evitando che possano proliferare eccessivamente. Piccoli derattizzatori a costo zero, ma dal notevole impatto positivo che, in cambio, si accontentano esclusivamente di una succulenta cena. Il loro ruolo chiave sembrerebbe lampante anche a chi non mastica ecologia, così come evidenti sono le conseguenze che in linea teorica potrebbero scaturire da un freddo “serpenticidio”: effetti a cascata che porterebbero al nuovo incremento di popolazioni di animali, come alcuni roditori, che potenzialmente possono essere vettori di malattie e che in ogni caso sono in grado di sferrare duri colpi all’agricoltura. L’uomo, nella sua “furbizia”, prima uccide i serpenti, poi, per ovviare il problema, utilizza metodi cruenti (colle o trappole a scatto) spesso poco efficaci, quindi passa a quelli chimici, avvelenando i piccoli roditori e rendendoli prede potenzialmente tossiche o letali anche per altri animali che se ne cibano. Insomma, un continuum di rapporti causa-effetto a lungo termine che potrebbero essere generati dalla semplice uccisione di una paciosa e innocua biscia che striscia nel nostro terreno.

Odiati da molti, schifati da tanti… eppure il loro fascino e la loro eleganza sono indiscutibili e questa giovane femmina di Vipera ammodytes potrebbe esserne l’emblema (Ph. Matteo Di Nicola)

Come disse Giorgio Celli: “Delle tremila specie di serpenti presenti nel mondo, soltanto mille hanno in dotazione del veleno e solo duecento tra queste sono veramente pericolose per l’uomo. Non si dimentichi, poi, che i serpenti hanno una loro utilità, perché divorano le arvicole e altre specie dannose all’agricoltura e, dove sono spariti, gli svantaggi sono risultati spesso superiori ai benefici”.
Per molti troppo razionale, sensata e scientifica come spiegazione, non è un buon deterrente per salvare la vita a questi sinuosi rettili, meglio fidarsi di strambi e anacronistici luoghi comuni, come la convinzione che le Vipere vengano lanciate dagli elicotteri, che i serpenti partoriscano sugli alberi, cadendo in testa agli sfortunati passanti o che si attacchino alle mammelle delle vacche per berne il latte.
Deterrente forse più incisivo è il far comprendere che TUTTI i Rettili e gli Anfibi nostrani sono protetti per legge in quasi tutte le regioni d’Italia, quindi la loro uccisione costituisce un reato: laddove non arriva l’eco delle poco considerate motivazioni ecologiche, si dimostra più efficace il timore delle salate sanzioni amministrative.

Cosa dice la legge?

I Rettili sono inseriti nell’Allegato II della Convenzione di Berna (Convenzione sulla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa), datata 1979: si tratta di uno strumento giuridico internazionale vincolante in materia di conservazione della Natura, riguardante gran parte del patrimonio naturale del Continente Europeo e di alcuni Stati dell’Africa. Come obiettivi principali ha la conservazione della flora e della fauna selvatiche (serpenti compresi) e dei loro habitat naturali, oltre che la promozione della cooperazione europea in tale settore.
Così recita testualmente l’Articolo 6 di suddetta convenzione:

Ogni parte contraente adotterà necessarie e opportune leggi e regolamenti onde provvedere alla particolare salvaguardia delle specie di fauna selvatica enumerate all’allegato II. Sarà segnatamente vietato per queste specie:
a) qualsiasi forma di cattura intenzionale, di detenzione e di uccisione intenzionale;
b) il deterioramento o la distruzione intenzionali dei siti di riproduzione o di riposo;
c) il molestare intenzionalmente la fauna selvatica, specie nel periodo della riproduzione, dell’allevamento e dell’ibernazione, nella misura in cui tali molestie siano significative in relazione agli scopi della presente
convenzione;
d) la distruzione o la raccolta intenzionali di uova dall’ambiente naturale o la loro detenzione quand’anche vuote;
e) la detenzione ed il commercio interno di tali animali, vivi o morti, come pure imbalsamati, nonché di parti o prodotti facilmente identificabili ottenuti dall’animale, nella misura in cui il provvedimento contribuisce a dare efficacia alle disposizioni del presente articolo.

Quasi 40 anni sono abbastanza per capire che i serpenti sono protetti? No, sembra di no: è frequente sentire frasi del tipo “E che ne sapevo! Mica posso conoscere tutte le nuove leggi, eh!”.

Se le leggi internazionali sono troppo “esterofile”, forse le leggi regionali porteranno una ventata di patriottismo anche nei più conservatori. Di seguito la legislatura ad hoc più aggiornata regione per regione:

Abruzzo: Legge Regionale n. 50 del 07-09-1993
Basilicata: –
Bolzano, provincia Autonoma: Legge Provinciale n. 27 del 13-08-1973
Calabria: Legge Regionale n. 9 del 17-05-1996
Campania: –
Emilia Romagna: Legge Regionale n. 15 del 31-07-2006
Friuli Venezia Giulia: Legge Regionale n. 34 del 03-06-1981
Lazio: Legge Regionale n. 18 del 05-04-1988
Liguria: Legge Regionale n. 4 del 22-01-1992
Lombardia: Legge Regionale Nn. 10 del 31-03-2008
Marche: –
Molise: Legge Regionale n. 28 del 06-09-1996
Piemonte: Legge Regionale n. 32 del 02-11-1982
Puglia: –
Sardegna: Legge Regionale n. 23 del 29-07-1998
Sicilia: Legge Regionale n. 33 del 01-09-1997
Toscana: Legge Regionale n. 56 del 06-04-2000
Trento, provincia Autonoma: Legge Provinciale n. 16 del 25-07-1973
Umbria: –
Valle d’Aosta: Legge Regionale n. 22 del 01-04-1987
Veneto: Legge Regionale n. 53 del 15-11-1974

Bolzano è stata la prima provincia in Italia ad aver ratificato una legge (datata 1973) finalizzata alla tutela di 11 specie di Anfibi e 10 di Rettili, imponendo anche la protezione dei loro biotopi. Altre regioni hanno successivamente e fortunatamente deciso di seguire questa scia, dotandosi di normative di più ampio respiro a salvaguardia dell’erpetofauna locale (la Valle d’Aosta, ad esempio, con la L.R. n. 22 del 1987 recepisce interamente quanto indicato nella Convenzione di Berna, sebbene le specie di Vipera siano ancora tutelate esclusivamente nelle aree protette). Leggi regionali davvero innovative sono quelle della Regione Abruzzo e della Regione Toscana, tramite le quali sono tutelate tutte le specie di Anfibi e Rettili, sanzionando finalmente anche l’uccisione di Vipera aspis. Leggi di protezione assoluta dell’erpetofauna sono quindi rilevabili anche in Valle d’Aosta, Liguria e Calabria. Regioni purtroppo ancora sprovviste di un quadro legislativo che tuteli adeguatamente e specificatamente Rettili e Anfibi sono Basilicata, Campania, Puglia, Umbria e Marche, con quest’ultima che dovrebbe rispolverare un progetto ormai giacente da anni riguardante una proposta di legge per la tutela della “piccola fauna”.
Bisogna tuttavia tener presente che la legislatura è in continuo aggiornamento e nuove leggi sono dietro l’angolo. Nel dubbio, la soluzione migliore non è uccidere, ma tutelare… per il bene della Natura e nel rispetto della legge (qualora la prima argomentazione non fosse considerata adeguatamente convincente).
Ricordiamoci che non bisogna passare da un eccesso all’altro e così come non deve essere applicata l’extrema ratio sui Rettili nostrani, analogamente non possono essere neppure considerati come docili gattini da appartamento: i serpenti sono animali selvatici e per loro costituiamo un pericolo, quindi evitiamo di molestarli prendendoli in mano o inseguendoli, soprattutto se non abbiamo dimestichezza con l’erpetofauna… in questo caso un bel morso sarebbe più che comprensibile! Non tutte le specie reagiscono nello stesso modo: il Biacco (Hierophis viridiflavus), specie abbastanza mordace, ma non velenosa, non si tira certamente indietro nel caso in cui venga catturato, anche se il suo morso non è più doloroso di quello di un ramarro, mentre la Biscia dal collare (Natrix natrix) sceglie di andare in tanatosi, fingendosi morta con tanto di lingua penzolante in stile cartone giapponese, emettendo dalla cloaca una sostanza fluida e nera che definire nauseabonda è un eufemismo, permettendole così di stimolare tutti i sensi che vengono attivati ogni qualvolta ci troviamo davanti un animale in decomposizione (in questa circostanza solo apparente). Anche la Vipera, come difesa estrema, può mordere, ma gli effetti sono molto meno tragici di quel che si possa pensare: in 21 dei 36 paesi europei in cui è reperibile una bibliografia seria e aggiornata, si stima che dal 1870 ad oggi oltre 80mila persone siano state morse da serpenti viperidi, ma solo in un centinaio di casi questo è risultato fatale. Un dato statisticamente non molto rilevante se confrontato con le vittime causate da morsi di animali ben più “pucciosi” come i cani o dalle punture di api e vespe (il che, ovviamente, non deve scatenare una “fobia alternativa”), quasi ridicolo se rapportato alle vittime quotidiane di omicidi stradali.

Anche se travolti da un’irrazionale e irrefrenabile paura, facciamo un lungo respiro e cerchiamo di trovare la soluzione migliore quando ci imbattiamo in un serpente. E’ quasi lapalissiano ricordare che dobbiamo avere alcune accortezze che possano ridurre al minimo il rischio di uno spiacevole e squamoso cheek to cheek: sono buone regole l’evitare di camminare con parti delle gambe scoperte in luoghi sassosi, ben soleggiati, magari al margine di un bosco, o di mettere le mani nell’erba senza prima aver smosso l’ambiente con la punta di un bastone. Come scriveva Virgilio, “Latet anguis in herba” (cioè “La serpe si nasconde nell’erba“). Se l’inaspettato incontro avviene, per far fuggire l’animale spesso bastano un po’ di rumore e di vibrazioni ottenute battendo i piedi in terra, ma la soluzione migliore è sempre la più semplice, cioè cambiare sentiero. Non c’è bisogno di sfoderare il coltello da Rambo e il fucile da Tony Montana per rinvigorire il proprio ribollente ego e iniziare un duello senza esclusione di colpi: la scelta di una convivenza pacifica è forse la scelta più coraggiosa e sicuramente la più saggia. D’altronde già Voltaire, circa 250 anni fa, sosteneva che “i serpenti mordono, e anche gli scoiattoli, ma solo quando si fa loro del male”.

Vorrei concludere con un brano tratto da “Il Piccolo Principe” che, seppur brevemente, prova a stravolgere poeticamente il rapporto tra uomo e serpente:
«Dove sono gli uomini?» riprese dopo un po’ il piccolo principe. «Si è un po’ soli nel deserto… »
«Si è soli anche con gli uomini», disse il serpente.

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In quali specie potremmo imbatterci in Italia?

Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia”.
Imparare a riconoscere le specie più comuni e nello stesso tempo saper controllare le proprie reazioni è il primo passo da fare per iniziare un buon rapporto con l’erpetofauna italiana.
Di seguito, grazie alle fantastiche foto e ai preziosi consigli dei fotografi naturalisti Marco Colombo (questo il suo sito di riferimento: http://www.calosoma.it/) e Matteo Di Nicola (http://www.matteodinicola.it/), ecco le schede di alcune specie che potremmo incontrare durante le nostre passeggiate nel verde di campagne e montagne o addirittura nei parchi urbani, partendo dagli innocui Colubridi e arrivando ai Viperidi.

Famiglia Colubridae

Caratteristica comune: corpo allungato e longilineo, di dimensioni generalmente comprese tra 100 e 200 cm, capo formato da poche squame di grosse dimensioni, testa distinta da collo, pupille rotonde (ad eccezione di Telescopus fallax). In Italia questa famiglia annovera specie innocue e non velenose (o poco velenose, come nel caso di Malpolon spp.).

Nome scientifico: Hierophis viridiflavus (Lacépède, 1789)
Nome comune: “Biacco”, “Frustone”, “Colubro verde e giallo”

Come riconoscerlo: Specie diurna abbastanza vivace. Presenta generalmente colorazione nera con macchie giallo-verdognole (esiste anche la sottospecie Hierophis viridiflavus carbonarius totalmente nera, sebbene alcuni autori considerino Hierophis carbonarius specie a sé stante) sia sul capo che sul resto del corpo, mentre la coda presenta caratteristiche striature. La testa è lunga e dotata di grossi occhi con pupille rotonde. Arriva a 120-180 cm di lunghezza.
Dove trovarlo: Dalle zone pianeggianti a 1800 m di altitudine, tanto in habitat naturali come zone di macchia mediterranea o pendii secchi ricchi di vegetazione, quanto in aree urbane, come parchi, rovine e scarpate stradali. E’ diffuso in tutta Italia, isole comprese.

Esemplari giovanile e adulto di Hierophis viridiflavus e dettaglio del capo (Ph. Marco Colombo)

Nome scientifico: Elaphe quatorlineata (Bonnaterre, 1790)
Nome comune: “Cervone”

Come riconoscerlo: Specie abbastanza lenta. Gli adulti hanno una livrea da marrone a bruno-grigia caratterizzata da 4 bande longitudinali marrone scure che si dissolvono avvicinandosi alla punta della coda. I giovanili presentano bande e macchie marroni scure o nere sul corpo e sul capo, ben evidenziate dalla livrea più chiara del resto del corpo. Ha una testa grande e allungata con una striscia nera in corrispondenza degli occhi, questi aventi pupille rotonde. Può oscillare tra 130 e 220 cm di lunghezza, ma generalmente non supera i 180.
Dove trovarlo: Presente dalle pianure sino a 400 m di altitudine, è diffuso principalmente in habitat caldi e secchi, ma anche in foreste di latifoglie e su pendii montani ricchi di vegetazione. E’ diffuso nell’Italia centro-meridionale.

Esemplare adulto di Elaphe quatorlineata (Ph. Matteo di Nicola)

Nome scientifico: Zamenis longissimus (Laurenti, 1768)
Nome comune: “Saettone”, “Colubro di Esculapio”

Come riconoscerlo: Specie agile, è in grado di arrampicarsi sui cespugli. Presenta un corpo sinuoso, con la parte dorsale liscia e lucida, e un capo stretto con pupille rotonde. Il colore, abbastanza omogeneo, oscilla tra il bruno-nerastro e il bruno-giallastro. Ha dimensioni comprese tra 130 e 225 cm, ma difficilmente supera i 160 cm.
Dove trovarlo: Predilige ambienti caldi e umidi come le valli fluviali ricche di vegetazione, ma può essere presente anche in ambiente urbano. In Italia è presente nelle regioni centro-settentrionali, mentre nel meridione è presente prevalentemente la specie simile Zamenis lineatus. Molto più raro è Zamenis situla, il “Colubro leopardino”, con vivaci macchie rosse su fondo grigio.

Zamenis longissimus nell’erba e su un arbusto (Ph. Marco Colombo – Matteo Di Nicola)

Nome scientifico: Coronella austriaca Laurenti, 1768
Nome comune: “Colubro liscio”

Come riconoscerlo: Specie che può essere osservata primariamente in prima mattinata o in tarda serata. La colorazione del dorso può essere grigio chiara, rossiccia, marrone chiaro o bruno nerastro, ornata da macchie scure più marcate nella parte anteriore del corpo; sul capo ha macchie scure che formano un disegno “a corona” (da cui il genere) e una striscia nera che si estende dal collo alla narice. La testa è allungata e le pupille sono rotonde. Ha dimensioni che variano tra 50 e 90 cm.
Dove trovarlo: Soprattutto in terreni soleggiati ricchi di nascondigli come vigneti, cave di pietra o pascoli. Diffuso in tutta Italia, tranne che nelle isole.

Coronella austriaca e dettaglio del capo (Ph. Marco Colombo)

Nome scientifico: Coronella girondica (Daudin, 1803)
Nome comune: “Colubro di Ricciòli”

Come riconoscerlo: Specie diurna. Morfologicamente è simile alla congenerica C. austriaca, ma è di dimensioni inferiori (40-80 cm) e sul capo presenta una macchia scura “a ferro di cavallo” e una striscia nera che si estende dal collo all’occhio.
Dove trovarlo: In ambienti detritici assolati e ricchi di vegetazione, ma anche in vigneti e in terreni agricoli. Diffuso nelle regioni occidentali dell’Italia centro-settentrionale.

Coronella girondica e dettaglio del capo (Ph. Marco Colombo)

Nome scientifico: Malpolon monspessulanus (Hermann, 1804)
Nome comune: “Colubro lacertino”, “Colubro di Montpellier”

Come riconoscerlo: A seconda dell’età e del sesso, possono avere una colorazione grigiastra abbastanza omogenea o costellata di marcati puntini neri. Il capo, morfologicamente simile a quello di una lucertola, è corto e poco distinto dal tronco, con grandi occhi sormontati da arcate sopraorbitali molto evidenti che gli conferiscono uno sguardo “da aquila”. Può mordere ed è dotato di un veleno neurotossico che, tuttavia, ha scarsi effetti sull’essere umano. Può oscillare tra 120 e 200 cm, ma generalmente ha dimensioni inferiori.
Dove trovarlo: Predilige ambienti caldi, secchi e ricchi di vegetazione, ma può essere presente anche in valli fluviali e in prossimità di muri a secco. In Italia è presente solo nelle regioni nord-occidentali. Specie simile è Malpolon insignitus, segnalato solo a Lampedusa.

Malpolon monspessulanus e dettaglio del capo (Ph. Marco Colombo)

Appartenenti a questa famiglia, ma poco diffuse sul nostro territorio, sono le specie Hemorrhois hippocrepis (“Colubro ferro di cavallo”), vagamente somigliante a Coronella girondica e diffusa solo a Pantelleria e nella Sardegna centro-meridionale, il piccolo Macroprotodon cucullatus (“Colubro dal cappuccio”), specie che solitamente non supera i 45 cm segnalata solo a Lampedusa, e Telescopus fallax (“Serpente Gatto europeo”), presente solo nel Nord-Est dell’Italia.

Dettaglio del capo di Telescopus fallax in cui sono evidenti le pupille a fessura (Ph. Matteo Di Nicola)

Famiglia Natricidae

Caratteristica comune: corpo allungato e longilineo, ma più tozzo rispetto a quello dei Colubridi, di dimensioni generalmente comprese tra 60 e 150 cm, capo formato da poche squame di grosse dimensioni, testa distinta da collo, pupille rotonde. In Italia questa famiglia annovera tutte specie innocue e non velenose.

Nome scientifico: Natrix natrix Linnaeus, 1758
Nome comune: “Biscia dal collare”, “Biscia d’acqua”, “Natrice dal collare”

Come riconoscerlo: Specie perlopiù diurna. Ha un colore di fondo grigio, verde scuro o bruno, con macchie nere di dimensioni variabili, con un collare giallo e nero posto subito dietro la grossa testa dotata di occhi con pupille rotonde. Ha dimensioni comprese tra 60 e 160 cm, con le femmine che raggiungono le dimensioni maggiori.
Dove trovarlo: Vive principalmente in ambienti umidi, in prossimità di corsi d’acqua, laghi o stagni, ma è possibile trovarla anche in prossimità di valli fluviali, boschi misti e giardini urbani. In Italia è diffusa ovunque, isola comprese. Irregolarmente distribuita in Sardegna è la sottospecie Natrix natrix cetti, anche se secondo alcuni autori N. cetti è considerata specie a sé stante.

Natrix natrix e dettaglio del capo (Ph. Marco Colombo)

Nome scientifico: Natrix tessellata Laurenti, 1768
Nome comune: “Biscia tessellata”, “Natrice tessellata”

Come riconoscerlo: Specie diurna. Il pattern è costituito da macchie scure a scacchiera che spesso si intersecano con bande trasversali più chiare distribuite su un colore di fondo grigio, olivastro o marrone. Il capo, allungato e leggermente triangolare, presenta occhi e narici rivolte verso l’alto che le sono di ausilio quando nuota; può rimanere immersa anche 30 minuti. Raggiunge i 130 cm, ma mediamente non supera i 100. Specie non aggressiva che, se minacciata, si finge morta come N. natrix, emettendo una sostanza maleodorante dalla cloaca.
Dove trovarlo: Analogamente alle altre specie congeneriche, vive in aree umide in prossimità di corsi d’acqua, laghi o stagni, ma talvolta la si può ritrovare in ambienti salmastri o salati. In Italia è diffusa ovunque, tranne che sulle isole e nelle regioni più meridionali.

Natrix tessellata durante la predazione di un Barbo e dettaglio del capo (Ph. Marco Colmbo)

Nome scientifico: Natrix maura Linnaeus, 1758
Nome comune: “Natrice viperina”

Come riconoscerlo: Specie perlopiù diurna. Il nome comune deriva dalla colorazione che ricorda molto quella delle vipere: presenta infatti marcature scure a zig-zag su base grigiastra, bruna o olivastra, con una fila di macchie scure lungo i fianchi. Essendo un’abile nuotatrice, ha occhi e narici rivolti verso l’alto, caratteristica che le permette di nuotare e contemporaneamente respirare. Generalmente non supera gli 80 cm, ma in alcuni casi può arrivare ai 100 cm di lunghezza.
Dove trovarlo: Vive in ambienti analoghi a quelli in cui è possibile osservare N. natrix, sovente a quote basse o intermedie. In Italia è diffusa in Sardegna e nelle regioni nord-occidentali.

Natrix maura e dettaglio del capo (Ph. Matteo Di Nicola – Marco Colmbo)

Famiglia Viperidae

Caratteristica comune: corpo in proporzione più corto e tozzo rispetto alle specie delle altre famiglie diffuse in Italia (in genere sono lunghe circa 90 cm), con coda nettamente distinta, testa triangolare con squame piccole e numerose, pupilla ellittica verticale, squame carenate.

Nome scientifico: Vipera ammodytes (Linnaeus, 1758)
Nome comune: “Vipera dal corno”

Come riconoscerlo: Specie attiva principalmente di giorno e al crepuscolo. Il colore di fondo è grigio chiaro, grigio scuro, bianco, giallastro, bruno, arancione o rossastro, caratteristicamente solcato da una spessa e scura banda a zig-zag che forma una serie di rombi dorsali, ma macchie scure possono essere presenti anche sui fianchi. Il capo è triangolare e nettamente distinto dal resto del corpo (così come la coda), l’apice del muso presenta un “corno” ricoperto di squame e le pupille sono a fessura verticale. Si tratta di uno dei viperidi più grandi, arrivando al metro di lunghezza. Specie che morde raramente, ma dotata di un veleno potente anche per l’uomo, raramente letale.
Dove trovarlo: Abita primariamente ambienti rocciosi o con cespugli bassi, ma anche letti di ruscelli prosciugati e boschi radi. In Italia è diffusa solo nelle regioni a Nord-Est.

Vipera ammodytes e dettaglio del capo (Ph. Marco Colmbo – Matteo Di Nicola)

Nome scientifico: Vipera aspis (Linnaeus, 1758)
Nome comune: “Vipera”, “Aspide”

Come riconoscerlo: Specie diurna. Il colore di fondo è grigio chiaro, argento, giallastro, bruno, arancione o rossastro e dorsalmente è solcato da due file di macchie nere talvolta fuse in un’unica banda ondulata o a zig-zag. Macchie scure sono presenti anche sui fianchi. Il capo è triangolare e nettamente distinto dal resto del corpo (così come la coda), l’apice del muso è rivolto verso l’alto e gli occhi hanno una pupilla a fessura verticale. Specie di medie dimensioni, generalmente misura 60-75 cm. Si tratta di un animale schivo che morde solo se minacciato, ma in quel caso potrebbe essere letale anche per noi se non si agisce in fretta.
Dove trovarlo: Predilige ambienti detritici particolarmente assolati, valli fluviali, pendii ricoperti di vegetazione o prati secchi aperti. In Italia è distribuita su tutto il territorio tranne che in Sardegna. Sono segnalate le sottospecie Vipera aspis aspis (= Vipera aspis atra) nell’Italia settentrionale, Vipera aspis francisciredi nell’Italia centrale e Vipera aspis hugyi nell’Italia meridionale.

Le 3 sottospecie di Vipera aspis: V. aspis aspis, V. aspis francisciredi e V. aspis hugyi (Ph. Marco Colmbo – Matteo Di Nicola)
Dettaglio del capo di un esemplare melanotico di Vipera aspis aspis (Ph. Matteo Di Nicola)

Nome scientifico: Vipera berus (Linnaeus, 1758)
Nome comune: “Marasso”

Come riconoscerlo: Specie diurna. Ha colorazione molto variabile, con livrea di fondo generalmente grigia, marrone o nera, più raramente arancione, olivastra o color rame. Il dorso è solitamente solcato da una banda scura a zig-zag, mentre lateralmente presenta delle macchie o punti scuri. La testa, abbastanza stretta e poco distinta dal corpo (a differenza della coda), è caratterizzata da una macchia scura posteriore a forma di X o di V. Il muso è arrotondato e non rivolto verso l’alto e le pupille sono a fessura verticale. Non mordace, è tuttavia dotata di un morso velenoso pericoloso, ma raramente letale per l’uomo.
Dove trovarlo: Abita principalmente ambienti freschi aperti, molto umidi e con forti escursioni termiche. In Italia è presente solo nelle regioni nord-orientali.

Vipera berus, con in evidenza la variabilità intraspecifica, e dettaglio del capo (Ph. Marco Colombo)

Nome scientifico: Vipera ursinii (Bonaparte, 1835)
Nome comune: “Vipera dell’Orsini”

Come riconoscerlo: Specie diurna. Con pattern simile a quello di V. ammodytes, ha colore di fondo grigio chiaro, giallognolo o marrone chiaro e dorsalmente è attraversata da una banda scura a zig-zag con distinti bordi neri. La testa è stretta ed è poco distinta dal corpo, il muso non è rivolto verso l’alto e le pupille sono a fessura verticale. Si tratta della specie nostrana più piccola, raggiungendo raramente i 50 cm. Molto schiva, morde raramente ed è dotata di un veleno che provoca forti dolori, ma non è letale per l’essere umano.
Dove trovarlo: Vive in ambienti aperti e soleggiati, spesso intervallati da cespugli. In Italia è sporadicamente presente solo nelle regioni centrali.

Vipera ursinii e dettaglio del capo (Ph. Matteo Di Nicola – Marco Colombo)

Nome scientifico: Vipera walser Ghielmi, Menegon, Marsden, Laddaga, Ursenbacher, 2016
Nome comune: “Vipera dei Walser”

Come riconoscerlo: A un primo sguardo è quasi inconfondibile da Vipera berus, ma si differenzia da questa se si osserva attentamente la diversa disposizione delle placche craniali. Si sa ancora poco circa le sue abitudini essendo una specie descritta molto recentemente.
Dove trovarlo: Attualmente è stata rinvenuta solo nelle Alpi occidentali italiane, con due popolazioni individuate nel Piemonte orientale e distribuite in una zona di appena 500 km² totali.

Vipera walser (Ph. Marco Colombo)

Famiglia Boidae

Caratteristica comune: essendo Eryx jaculus l’unica specie presente sul territorio comune, le caratteristiche generali della famiglia sono poco rilevanti.

Nome scientifico: Eryx jaculus (Linnaeus, 1758)
Nome comune: “Boa delle sabbie”

Come riconoscerlo: Specie perlopiù notturna. Ha un colore di base rossastro, grigio o bruno attraversato da un pattern costituito da macchie nere e chiare che formano un motivo reticolato. Macchie scure sono presenti anche sui fianchi. La testa è piccola e non distinta dal resto del corpo. Ha dimensioni ridotte, comprese tra 30 e 60 cm. Non è velenoso, ma cattura le sue prede avvolgendole tra le sue spire.
Dove trovarlo: Generalmente presente in valli fluviali e in ambienti ciottolosi pianeggianti, trova spesso riparo sotto terra, sotto i sassi e in tane preesistenti o da lui scavate. Probabilmente introdotta dagli antichi Greci, in Italia la specie è stata recentemente segnalata solo nella parte meridionale della Sicilia.

Eryx jaculus tipicamente in ambiente sabbioso (Ph. Matteo Di Nicola)

Meritano una menzione anche Anguis veronensis, o “Orbettino”, e Chalcides chalcides, conosciuto come “Luscengola”, spesso assimilati ai serpenti, avendo un corpo allungato e relativamente sottile. Nonostante l’aspetto “serpentiforme”, in realtà sono lucertole! Li si distingue facilmente sia per la lunghezza del corpo, che generalmente non supera i pochi decimetri, che per le piccolissime zampette ridottissime o del tutto atrofizzate, mai presenti nei serpenti. In comune con le lucertole è anche la capacità di perdere la coda in caso di pericolo imminente (autotomia). Parafrasando liberamente Donatella Rettore, “l’Orbettino non è un serpente, ma un Rettile frequente confuso erroneamente, l’Orbettino non è una Biscia, ma una Lucertola che striscia quando vede te!“.

Anguis veronensis a primo impatto potrebbe ricordare un serpente (Ph. Marco Colombo)

Se dopo queste foto ancora ritenete che i serpenti siano “immondi animali schifosi”, questo brano umoristico tratto da un testo di Giobbe Covatta potrebbe fornire una visione ironica (ma verosimile) diametralmente opposta:
“Eva si trovava vicino a un albero; a un tratto si girò e vide un serpente. E disse: «Che schifo! » «Sei bella tu!» rispose il serpente, che era permaloso”.

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Alonzi, A., Ercole, S., & Piccini, C. (2006). La protezione delle specie della flora e della fauna selvatica: quadro di riferimento legislativo regionale. APAT Rapporti, 75(2006), 258.

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Corti, C., Capula, M., Luiselli, L., Razzetti, E., Sindaco R. (2010). Fauna d’Italia, Reptilia. Calderini, Bologna.

Kwet, A. (2016). Rettili e Anfibi d’Europa. Roma, Ricca Editore, pp. 352.

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Schweiger, M. (2017). www.vipersgarden.at/

Scoccianti, C. (2001). Amphibia: aspetti di ecologia della conservazione. Guido Persichino Grafica.

David Bowie è vivo… ma ha 8 zampe ed è velenoso!

Ho sempre avuto un bisogno ripugnante di essere qualcosa di più che umano”, diceva il camaleontico Duca Bianco David Bowie in un’intervista rilasciata a Rolling Stones nel Febbraio 1976.
Dopo 32 anni è stato accontentato ed ora non è solo in grado di far commuovere e ballare con le sue splendide e poetiche canzoni ora è in grado di… terrorizzare! Ma anche di mordere, arrampicarsi sui muri, cacciare Insetti… no, non si tratta di una rivisitazione splatter de “L’alba dei morti viventi” con influenze fumettistiche di “Spider Man”: ora Sir David è ricordato in ambito zoologico per aver ispirato l’epiteto specifico di un Ragno, appunto Heteropoda davidbowie!

Una fantasiosa tavola zoologica…in cui spicca il Duca Bianco! (© Andrea Bonifazi)

La nuova e inedita fama donata al grandissimo cantante britannico è da attribuire all’aracnologo tedesco Peter Jäger, ricercatore presso l’Istituto di Ricerca Senckenberg a Francoforte, che ha descritto questa nuova specie nel 2008. La mistica ispirazione zoologico-canora affonda le sue radici nell’album di Bowie che ne ha sancito il successo universale: “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”. Pubblicato nel 1972, è considerato da più parti come uno dei più grandiosi e innovativi album della storia e grazie a un continuum di testi e musiche che possono essere un manifesto degli anni ’70, sono narrate le vicende dell’irreale band di Ziggy Stardust, di fatto l’alter ego di David. Come lui stesso affermò in un’intervista radiofonica rilasciata a ridosso dell’uscita dell’album, “ciò che troverete sull’album, quando finalmente uscirà, è una storia che non si svolge realmente. Sono solo alcune piccole scene tratte dalla vita di una band chiamata Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, che potrebbe essere l’ultimo gruppo sulla Terra perché stiamo vivendo gli ultimi cinque anni del pianeta”.
Quasi profetico, il buon Bowie. Sebbene eccessivamente pessimista, il suo mondo di fantasia è prossimo all’apocalisse, alla distruzione totale senza possibilità di ritorno. Argomenti che ora tornano decisamente di moda se rapportati alle tematiche ecologiche e soprattutto alla conservazione di specie prossime all’estinzione, per molte delle quali 5 anni sembrano essere anche troppi.

David Bowie nel 1987 durante il “Glass Spider Tour” (Ph. Elmar J. Lordemann )

Ragni marziani, apocalisse, conservazione delle specie, un cantante di fama mondiale apprezzato da tutti… argomenti legati da un sottile filo di seta che potevano essere unificati e sfruttati come importante spunto di riflessione. A cogliere al volo quest’occasione è stato proprio l’aracnologo Peter Jäger, che, lasciandosi trasportare dalla fama del Duca Bianco, ha deciso di dedicargli questa nuova specie, rendendo così celebre anche al grande pubblico un animale che probabilmente sarebbe stato ricordato da pochi. Il fine ultimo di tale dedica sembra essere appunto la sensibilizzazione globale sulle tematiche ambientali più spinose e attuali… e il Tedesco sembra proprio aver colto nel segno! D’altronde a chi mai verrebbe in mente l’idea di distruggere un ambiente naturale in cui vive niente poco di meno che David Bowie???

Il bellissimo Heteropoda davidbowie nel suo ambiente naturale a Singapore (Ph. Seshadri.K.S)

L’areale in cui è distribuito si trova infatti in quella parte di pianeta in cui la Natura è stata particolarmente generosa, avendogli donato una biodiversità elevatissima, paesaggi incredibili ed estremamente eterogenei e un clima favorevole: il Sud-Est Asiatico. Tutto bello, direte voi… no, come troppo spesso accade, la mano dell’uomo si fa sentire in modo particolarmente marcato in queste terre, sfruttandole in maniera decisamente poco sostenibile. Rinvenuto nel Cameron Highlands District, in Malesia, questo Ragno è infatti attualmente segnalato anche a Singapore e Sumatra, ma sembra sia presente anche nel Sud della Tailandia. H. davidbowie è caratterizzato da una fitta peluria giallo-arancio nelle femmine, con una marcata linea rossa nella metà posteriore del corpo, mentre i maschi presentano una colorazione generale tendente al rossiccio/marrone; i pedipalpi sono neri in entrambi i sessi. Il dimorfismo sessuale è riscontrabile anche nelle dimensioni dell’animale, che oscillano tra 15,3 e 18,2 mm nei maschi e tra 21,3 e 25,3 mm nelle più grosse femmine. Gli adulti non sono rari sulla corteccia degli alberi, mentre i giovanili preferiscono nascondersi tra le foglie della lettiera o su piccoli arbusti. Come la stragrande maggioranza degli Sparassidi, famiglia a cui appartiene il genere Heteropoda, si tratta di un ragno cacciatore che insegue attivamente le sue prede.
Un aspetto davvero punk e psichedelico, quasi spaziale… sì, sembrerebbe proprio essere uno dei famosi “Spider from Mars”. Più che un Aracnide… un “Arocknide”!
Morfologia e colorazione non sono tuttavia inedite in quanto riconducibili anche alla simile specie Thelcticopis modesta… ma si sa, se ci si chiama “modesta” si perde in partenza confrontandosi con un “davidbowie” e la fama viene calamitata esclusivamente dal secondo, anche se il primo può accontentarsi della celebrità che ha tra gli allevatori di Ragni, essendo un apprezzatissimo “pet”.

Primo piano del ragno dedicato a Bowie (Ph. Zleng)

Le motivazioni che possono portare uno tassonomo a dedicare una nuova specie ad una celebrità sono molteplici, passando dalla sensibilizzazione verso una determinata tematica, arrivando a peculiarità comportamentali o morfologiche. Sono infatti moltissimi i taxa ispirati dai vip, tra cui possiamo citare Coleotteri dedicati a Hitler (Anophthalmus hitleri), a Schwarzenegger (Agra schwarzeneggeri), a Obama (Desmopachria barackobamai) o a Che Guevara (Cheguevaria spp.), Imenotteri dedicati a Brad Pitt (Conobregma bradpitti) o a Leonardo da Vinci (Davincia spp.), Pesci dedicati a diversi Presidenti degli U.S.A. (Etheostoma clinton, E. gore, E. jimmycarter, E. obama e E. teddyroosevelt), Piante dedicate a Lady Gaga (Gaga spp.) o ai Green Day (Macrocarpaea dies-viridis) e Dinosauri dedicati a Mark Knopfler (Masiakasaurus knopfleri) e, quasi banalmente, a Michael Crichton, il “papà” di Jurassic Park (Crichtonsaurus spp.).

Il successo e il potere sono spesso a scadenza… ma la fama che può regalare la Tassonomia è senza tempo!
D’altronde… “We can be heroes, forever and ever. What’d you say?

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Jäger P. (2008). Revision of the huntsman spider genus Heteropoda Latreille 1804: species with exceptional male palpal conformations from southeast Asia and Australia (Arachnida, Araneae: Sparassidae: Heteropodinae). Senckenbergiana Biologica, 88, 239-310.

Nasir D.M., Su S., Mohamed Z., Yusoff, N.C. (2014). New distributional records of spiders (Arachnida: Araneae) from the west coast of peninsular Malaysia. Pakistan Journal of Zoology, 46(6), 1573-1584.

World Spider Catalog (2017). World Spider Catalog. Natural History Museum Bern, online at http://wsc.nmbe.ch, version 18.0

Dalla Morte alla Vita Eterna: tutorial per lavorare un cranio da usare come preparato zoologico

“Nella Vita c’è la Morte, nella Morte c’è la Vita.”, diceva il filosofo francese Edouard Schuré.
Un concetto lapalissiano che tuttavia può essere tranquillamente ricondotto anche a un’affascinante branca delle Scienze Naturali: l’Anatomia. Non solo l’Anatomia che, un po’ freddamente, studiamo sui libri, ma soprattutto quella che viene studiata sul campo e può estrinsecarsi anche con la preparazione degli scheletri e con la Tassidermia. Si tratta di pratiche antiche che da sempre hanno affascinato l’uomo: dalle mummie egizie alle teste tsantas, arrivando alle “Macchine anatomiche” di Giuseppe Salerno fino ai lavori del contemporaneo Gunther Von Hagens. Religione, Anatomia, Zoologia, riti pagani… le motivazioni che hanno spinto l’essere umano a conservare i corpi degli animali, uomo compreso, sono molteplici ed eterogenei, in alcuni casi dettate da un’atavica voglia di Eternità e di preservazione della Vita oltre la Morte. A prescindere dalle finalità, queste pratiche, ormai portate avanti principalmente per studio o ricerca, sono in generale mal viste da chi non ha affinità con questi settori e magari reputa decisamente schifoso il raccogliere una carcassa… ma si sa, noi Naturalisti siamo lungimiranti e, in un corpo putrefatto e dall’odore nauseabondo, non vediamo solo la carne marcescente, ma idealizziamo il preparato zoologico che può esserne ricavato. Ribrezzo e possibile impopolarità che rischiamo di suscitare nei “normali” passano in secondo piano e sovente il risultato finale ripaga abbondantemente la stoica resistenza agli inevitabili conati.
E’ sottointeso che per ottenere un risultato soddisfacente sia necessaria la pratica, imparando anche dai propri errori… errori in cui io stesso mi sono imbattuto più volte, arrivando tuttavia a ottenere modesti risultati dopo diversi tentativi. Qualche consiglio potrebbe essere importante per chi si avventura per la prima volta nel candido e duro mondo della preparazione dei crani!

Il prima e il dopo la fase di preparazione di un cranio di Myocastor coypus (“Nutria”) (Ph. Andrea Bonifazi)

In questo articolo cercherò quindi di illustrare le metodiche che utilizzate per pulire il cranio di un giovane esemplare di Larus michahellis , il comune ed ormai ubiquitario “gabbiano reale zampegialle”, che venne trovato morto ed in avanzato stato di decomposizione in spiaggia ad Ostia (Roma), un veloce tutorial che, in pieno “stile Zangheri” che potrà tornare utile a chiunque desideri conservare gelosamente un tesoro che in molti considerano mera spazzatura. Il reperto in questione, sebbene parzialmente decomposto e in grado di emanare una puzza quasi indescrivibile, possedeva una bellezza pressoché immutata. Un “dono di Madre Natura” che in pochi avrebbero inizialmente apprezzato, ma che in tantissimi hanno potuto ammirare a lavoro ultimato. E’ doveroso specificare che l’iniziare da un cranio particolarmente delicato come quello di un Uccello è probabilmente una strategia vincente: riuscire a lavorare su qualcosa di più complesso spiana la strada per operazioni decisamente più agevoli, come la preparazione dei più grossi e robusti crani di animali come cinghiali o pecore.
Prima di iniziare, è doveroso ricordare che, come recita la Legge 11 febbraio 1992, n. 157, “La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunita’ nazionale ed internazionale“, quindi la detenzione di crani e trofei è disciplinata, per cui il loro rinvenimento deve essere denunciato alle autorità.

La prima fase è la più cruda e inquietante: a meno che non si voglia lavorare sull’intera carcassa, è necessario staccare la testa da un animale in avanzato stato di decomposizione, operazione decisamente complicata soprattutto se non si hanno a disposizione guanti o coltellini, materiale che sarebbe opportuno avere sé durante le nostre escursioni! Qui la soggettività prevale su qualsiasi consiglio: si può tirare vigorosamente la testa o torcerla ripetutamente o si può usare un lama rimediata da un bastone affilato o da un sasso appuntito; se il fine giustifica i mezzi, in poco tempo avremo tra le mani la nostra sudata “materia prima”.
Ottenuto il nostro tesoro, possiamo iniziare la prima fase di pulitura. Se si dispone di uno spazio verde, la carcassa può essere offerta in comodato d’uso gratuito a numerosi invertebrati saprofagi e decompositori: coleotteri dermestidi, formiche, isopodi, ditteri, sono tanti gli abili operai in grado di aiutarci a ripulire naturalmente le ossa che vogliamo preparare. Questa pratica, tuttavia, ha dei contro: oltre a dover sopportare i mefitici miasmi che inevitabilmente impregneranno il nostro giardino per numerosi giorni, bisogna stare attenti che animali di maggiori dimensioni non ci sottraggano il nostro bottino, così come bisogna fare attenzione alle ossa più piccole e fragili, non di rado “rosicchiate” da questi nostri voraci amici. Se non si vuole correre alcun pericolo, questa fase può essere superata grazie alla bollitura del cranio, processo che rende la carne molle e facilmente asportabile. Si tratta di un processo semplice, ma che necessita di più attenzione di quanto non si possa immaginare: è doveroso fare attenzione che l’acqua non evapori eccessivamente ed evitare che il cranio possa lesionarsi urtando ripetutamente contro il pentolone; per gli animali dotati di denti o di altre strutture ossee che possono staccarsi durante questa fase, si consiglia di inserire il cranio all’interno di una calza di nylon onde evitare di perdere fondamentali tasselli di questo nostro puzzle anatomico.

Il cranio del Gabbiano subito dopo la bollitura (Ph. Andrea Bonifazi)

Il processo di lavorazione immediatamente successivo necessita di un personalissimo spoiler per i deboli di stomaco: Dario Argento impallidirebbe durante questa lavorazione, quindi, se siete impressionabili, fatevi aiutare da qualcuno. La carne residua, infatti, deve essere ora rimossa meccanicamente, cercando di lasciare il cranio quanto più possibile privo di parti molli. Possiamo aiutarci con spilli, pinzette, uncini o altri strumenti che ci permettano di asportare anche le parti più piccole senza danneggiare le ossa. Avere nei paraggi una bacinella con dell’acqua è importante soprattutto per le fasi intermedie di lavaggio, potendo così staccare anche i brandelli di carne che si insinuano nelle cavità più difficilmente raggiungibili e nelle porzioni ossee più fragili (in tal senso, la rimozione del cervello è una delle fasi più lunghe e noiose).
Lo step seguente è il più delicato, sebbene fondamentale per poter eliminare i residui organici che non siamo riusciti a rimuovere meccanicamente: il bagno in candeggina. La criticità di questa fase risiede nella possibilità che le ossa e soprattutto i denti possano letteralmente dissolversi, processo decisamente velocizzato per le ossa più fragili e sottili come quelle di animali giovani o, appunto, degli Uccelli. Per ovviare a questo irrecuperabile inconveniente è opportuno monitorare l’intero processo, tirando fuori il cranio dall’ammollo ogni 4/5 minuti e controllandone le condizioni: se osserviamo porzioni eccessivamente assottigliate o precocemente danneggiate, è bene lavare subito ed accuratamente con acqua e far asciugare il tutto. Un ulteriore accorgimento è necessario proprio per gli Uccelli: quando possibile, la ranfoteca deve essere rimossa dal becco per evitare irreparabili danni; potrà essere posta nuovamente sul cranio in un secondo momento.

Lo stesso cranio dopo il lavaggio in candeggina (e con la ranfoteca erroneamente, ma solo temporaneamente, montata al contrario) (Ph. Andrea Bonifazi)

Sebbene il lavaggio in candeggina dovrebbe aver ripulito quasi interamente il nostro cranio, un ulteriore lavaggio, questa volta in acqua ossigenata, completa il 90% della preparazione. C’è chi si consiglia il perossido di Idrogeno a concentrazioni molto elevate, ma personalmente ritengo sia sufficiente l’acqua ossigenata che comunemente possiamo trovare al supermercato o in farmacia: è meno tossica, più facile da monitorare e meno aggressiva nei confronti delle ossa. Anche questa fase necessita, tuttavia, di attenzione, rimuovendo periodicamente il cranio dal recipiente in cui l’abbiamo immerso per controllarne lo stato di conservazione. Questo processo dovrebbe donare al preparato una deliziosa e candida colorazione degna di un preparato museale.
Asportati gli ultimi residui di carne, non resta altro da fare che far asciugare il nostro gioiellino, quindi apportare le ultime migliorie, come la smaltatura della ranfoteca per conferirle lucentezza e resistenza (un normalissimo smalto per unghie trasparente è più che sufficiente).

Il lavoro ultimato, dopo l’asciugatura del cranio e la smaltatura della ranfoteca (Ph. Andrea Bonifazi)

Il nostro candido cranio è terminato e il risultato finale ripaga decisamente la puzza iniziale, regalandoci un preparato zoologico di livello a costo zero, frutto di attenzione e passione. Chi era inizialmente reticente, non potrà far altro che chinare il capo dinnanzi una simile perfezione anatomica dall’immensa valenza didattica.

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Zangheri P. (1981). Il naturalista esploratore, raccoglitore, preparatore, imbalsamatore. Hoepli Editore, pp. 508.

Per ammirare il ricamo della Vita basta una passeggiata in spiaggia: le ovature dei Gasteropodi Naticidi

Qualcuno diceva che l’Arte non è altro che imitazione della Natura. Quadri, affreschi, sculture o gioielli da sempre traggono ispirazione nelle bellezze naturali, è risaputo, ma la Natura la si può riscontrare anche nei delicati e ricercati pizzi e merletti.
Non è inconsueto, infatti, il rinvenimento in spiaggia di fragili nastri semicircolari, basalmente ondulati, costituiti da
sabbia agglutinata. Non passano certo inosservati e suscitano la curiosità di molti, stimolandone la fantasia e generando
spiegazioni puramente speculative: fango rimasto sotto gli scarponi, sabbia secca, alghe, foglie, plastica, cartone…
Ma la loro vera natura è probabilmente più spettacolare di qualsiasi ipotesi: sono ovature di un Mollusco Gasteropode,
complesse e artistiche meraviglie portatrici di vita!

La somiglianza tra un prezioso merletto e le ovature di Neverita josephinia è incredibile. Il delicato ricamo è un Colletto di Venezia di fine XVII, inizio XVIII secolo proveniente dalla Collezione Adele Fornoni Bisacco, mentre il Gasteropode proviene dalla collezione Andrea Bonifazi.

L’abile artista che lungo le nostre coste realizza tali prodigiosi intarsi è primariamente Neverita josephinia, un Gasteropode Naticide che molto comunemente possiamo osservare spiaggiato: morfologicamente molto simile a una chiocciola terrestre, è caratterizzato da una conchiglia leggermente appiattita, globosa e liscia, tinteggiata da un delicato rosa pallido e c’è chi, a causa di questa particolare morfologia, la chiama più comunemente “Natica”. Più poetico, quasi leopardiano, è il corrispettivo nome anglosassone, sempre ispirato dalla deliziosa rotondità di questi Molluschi: “Moon Snails”, cioè “Chiocciole della Luna”.
Questi simpatici invertebrati vivono infossati nella sabbia, dove scavano lunghi tunnel profondi pochi centimetri,
comportamento favorito dal mantello che ricopre quasi interamente la conchiglia e dalle sue abbondanti secrezioni di muco,
adattamenti che impediscono alla sabbia di danneggiare il Mollusco.
Strutture analoghe sono riscontrabili anche in altre specie appartenenti alla medesima famiglia, quali Naticarius hebraeus, N. stercusmuscarum, Cochlis vittata o Euspira nitida.

Neverita josephinia con il mantello espanso parzialmente infossato nella sabbia (Ph. Roberto Pillon)

Tra Aprile e Giugno, dopo aver incubato le uova nella porzione posteriore del corpo, producono la loro inconfondibile ovatura: gli ammassi di uova, unistratificati, sono disposti all’interno di un nastro semicircolare lungo circa 6 cm e largo 3, dotato di un margine inferiore ondulato, costituito da sabbia medio-fine agglutinata grazie a un muco secreto dall’animale stesso.
Le uova non sono facilmente distinguibili soprattutto se l’ovatura, ormai spiaggiata, appare secca e disidratata…ma basta
osservarla in controluce per scorgere le centinaia di piccole cellette! Osservandone più dettagliatamente con la
lente di ingrandimento una sezione, è anche possibile scorgere delle piccolissime e meravigliose protoconche (la prima conchiglia che ha l’animale subito dopo la schiusa). Se nuovamente bagnato, questo fragilissimo nastro sabbioso torna ad
essere incredibilmente elastico e malleabile, palesando la presenza del “mucoso cemento”, fino a quel momento essiccato.
Questi affascinanti Gasteropodi, apparentemente anonimi e dai pattern poco appariscenti, sono in realtà i padroni delle
sabbie infralitorali: è infatti opera loro anche il forellino perfetto che spesso è possibile osservare sulle valve di
molti Bivalvi spiaggiati, che rappresenta i resti della predazione degli infallibili Naticidi!

A sinistra le cellette visibili all’interno dell’ovatura, a destra la sua sezione con una protoconca ben visibile (Ph. Andrea Bonifazi)

Una semplice passeggiata sulla spiaggia è quindi scandita dalla presenza silenziosa di questi Gasteropodi, instancabili dispensatori di Vita e di Morte in un affascinante uroboro zoologico su cui troppo spesso non ragioniamo adeguatamente…una delle tante forme di Arte vivente che trova nelle ovature un eclatante esempio.

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Antit M., Daoulatli A., Urra J., Rueda J. L. Gofas, S., Salas, C. (2016). Seasonality and trophic diversity in molluscan assemblages from the Bay of Tunis (southern Mediterranean Sea). Mediterranean Marine Science, 17(3), 692-707.

Giglioli M. E. C. (1955). The egg masses of the Naticidae (Gastropoda). Journal of the Fisheries Board of Canada, 12(2), 287-327.

Huelsken T., Marek C., Schreiber S., Schmidt I., Hollmann M. (2008). The Naticidae (Mollusca: Gastropoda) of Giglio Island (Tuscany, Italy): Shell characters, live animals, and a molecular analysis of egg masses. Zootaxa, 1770, 1-40.