Celle solari organiche più efficienti

celle-solariStudiando le proprietà del fullerene, si potrebbe arrivare ad un nuovo tipo di celle solari organiche, di maggior efficienza e, fattore sempre decisivo, economicamente più convenienti.

La nascita delle celle solari organiche risale infatti a circa 20 anni, ma il componente principale, il fullerene, è rimasto lo stesso e la tecnologia organica non ha avuto grandi sviluppi negli ultimi anni.

Un gruppo di scienziati dell’Università di Warwick ha pubblicato uno studio, ancora in fase iniziale, sulla rivista Advanced Materials.

Lo studio si concentra su una proprietà fino ad oggi poco considerata dei fullereni, ovvero la disponibilità di stati elettronici di accettazione aggiuntivi che potrebbe essere d’aiuto per creare una classe di imitatori del fullerene.

Una cella solare organica, infatti, è una cella solare realizzata con polimeri, molecole di grandi dimensioni con una struttura dotata di unità ripetitive. La struttura polimerica delle celle solari organiche rende flessibile il “tessuto” della cella, che può quindi essere prodotta a film sottile.

L’elettricità viene prodotta tramite effetto fotovoltaico, proprio utilizzando i pattern ripetitivi delle grandi molecole polimeriche che però sono in grado attualmente di produrre solo un terzo della resa data dai normali pannelli fotovoltaici.

In più, i polimeri tendono a degradare nel tempo e perdono via via la capacità di produrre energia elettrica e, seppure sottili, leggerissime, flessibili e poco costose da fabbricare, questo degrado unito alla minor resa non le rendono al momento una soluzione economicamente appetibile, pur se, essendo quasi completamente biodegradabili, hanno sia un minor impatto ambientale, sia un minor costo di smaltimento.

La ricerca di una alternativa ai fullereni non è nuova, ma solo oggi il gruppo guidato dal professor Alessandro Troisi, del Dipartimento di Chimica dell’Università di Warwick, ha scoperto il fullerene può accettare elettroni non solo nel suo stato anioco, ma anche in alcuni stati di eccitazione.

Questa possibilità di accettare elettroni anche in caso di eccitazione, rende ovviamente più veloce la cattura degli elettroni, migliorando di fatto il processo di separazione della carica.

E’ proprio la mancata conoscenza di questa proprietà che, secondo il professor Troisi, ha fino ad oggi impedito di trovare valide alternative al fullerene che, sempre secondo il professore, adesso sarà più facile vista la facilità della progettazione di una nuova classe di accettatori molecolari che il gruppo guidato dal professor Troisi ha già dimostrato di poter progettare e di cui hanno già depositato il brevetto.

Giulia Orlando
20 dicembre 2012

Acqua e conflitti

acquaComplice il cambiamento climatico ma non solo, la carenza d’acqua che si prevede nel futuro rischia di diventare una vera e propria minaccia per l’umanità.

A Cipro, i ricercatoli internazionali che studiano il problema, provenienti da 14 diverse istituzioni, hanno presentato i nuovi risultati delle ricerche riguardanti clima, acqua, conflitti e sicurezza.

Il cambiamento climatico e la sua relazione con la sicurezza dell’umanità sono al centro del Progetto CUCO,  Climate Change Hidro Conflict, il cui obiettivo è stato quello di mettere a fuoco con precisione le relazioni di causa-effetto tra il cambio del clima ed i conflitti, sociali e bellici, che hanno l’acqua come cardine fondamentale o che ne utilizzino la gestione in modo bellico.

Un ruolo importante all’interno di questo complesso quadro internazionale è di sicuro quello degli enti di Cooperazione Internazionale, che non sono stati solo oggetto di studio ma sono anch’essi fra i destinatari delle raccomandazioni e dei risultati di questa ricerca, presentati durante la conferenza finale del CUCO, a Nicosa, il 10 ed 11 dicembre.

Il progetto, finanziato dall’ Unione Europea, ha studiato le relazioni fra clima, scarsità di acqua, conflitti e Cooperazione Internazionale in 35 Paesi in diverse parti del mondo. Per l’Italia, l’oggetto di studio è stato il bacino del fiume Sarno.

I risultati dello studio forniscono gli strumenti per adottare, in futuro, le soluzioni politiche adeguate ad una maggior tutela e sicurezza delle popolazioni, proponendo anche nuove idee su politiche pubbliche e sulla gestione e strutturazione dei meccanismi  istituzionali coinvolti nella gestione del problema, a partire dalle reti di distribuzione.

Lo scopo dello studio è ampiamente illustrato proprio nei risultati presentati alla conferenza di chiusura: promuovere la sicurezza delle popolazioni anche in condizioni di instabilità climatiche, idrogeologiche, belliche e sociali e di promuovere una maggior partecipazione delle fasce più deboli delle popolazioni ai processi decisionali, per promuovere la maggior stabilità necessaria ad affrontare al meglio anche eventi climatici drammatici come siccità od inondazioni.

Giulia Orlando
17 dicembre 2012

Succede in Antartide

DDD
Osservatorio in Antartide

Che l’Osservatore alteri la realtà è un principio fondamentale della scienza. Che in Antartide l’osservatore non solo alteri, ma che rischi addirittura di distruggere la realtà che sta osservando è una cosa abbastanza inaspettata.

I risultati di uno studio italiano pubblicato nell’ottobre scorso parlano chiaro:  in Antartide le ricerche minacciano gli ecosistemi ed alterano il campo magnetico.

Fatto che potrebbe sembrare paradossale, i principali responsabili di tale alterazione sono proprio le 53 stazioni di ricerca presenti in Antartide che producono, con le loro apparecchiature, una alterazione al campo elettromagnetico ed un danno ai delicati ecosistemi presenti in Antartide.

Fin dal 1959 esiste un accordo internazionale, il Trattato Antartico, che regolamenta le attività svolte in Antartide, proprio per proteggerne gli ecosistemi.

E’ provato fin dagli anni 70, e noto da molto prima, che le variazioni nei campi magnetici provocano alterazioni nelle funzioni biologiche degli esseri viventi, alterazioni che, in caso di ecosistemi ed organismi dal fragile equilibrio come quelli presenti in Antartide, possono rivelarsi fatali.

Attorno alle 53 stazioni di ricerca presenti in Antartide, l’alterazione del campo elettromagnetico è fortissima, causata dalle apparecchiature utilizzate dai ricercatori, dalle telecomunicazioni, dalle apparecchiature elettroniche in generale.

L’alterazione rilevata è di intensità pari al 4% circa del campo elettromagnetico terrestre e anche se la alterazione non è ancora preoccupante per la salute umana, è però sufficiente a causare alterazioni nel funzionamento di alcuni organi, in primis il fegato.

Ovviamente questa alterazione causa anche squilibri elettrochimici all’interno della flora e della fauna che gli scienziati cercano di studiare e di tutelare finendo per essere loro stessi una delle cause che potrebbero mettere a rischio il già delicato equilibrio biologico di una zona che si poggia, per l’assoluta delicatezza dei suoi ecosistemi, su un equilibrio che deve restare perfetto.

Giulia Orlando 
15 dicembre 2012

Alberi secolari: tasso di morte in aumento

Spesso ce ne dimentichiamo, ma anche gli alberi hanno un ciclo di vita proprio e possono ammalarsi e morire esattamente come tutti gli altri organismi viventi.

Vale per le piante di casa, ma vale anche per i grandi alberi secolari che, nel mondo, stanno sempre più perdendo forza e vigore.

Organismi immensi, tra i più grandi del pianeta, i grandi alberi secolari non sono solo un polmone per la terra, ma sono anche dimora e rifugio di moltissimi animali selvatici.

Una ricerca diretta dal professor David Lindenmayer dell’ ARC CEED, Centre of Excellence for Environmental Decisions dell’Australian National University, evidenzia come sia in aumento in tutto il mondo e nelle maggiori foreste il tasso di morte di questi giganteschi organismi, che fungono a loro volta da equilibrati ecosistemi locali.

La morte degli alberi secolari che hanno tra i cento ed i trecento anni di vita, è in continuo aumento in tutto il mondo ed in tutte le situazioni. Non solo foreste, ma anche giardini, boschi, foreste, zone di allevamento.

L’identificazione e la comprensione delle cause della morte è ovviamente il primo, fondamentale passo per gestire al meglio questa che è letteralmente una moria dei grandi alberi, che inevitabilmente comporta la scomparsa dell’equilibrio di molti ecosistemi, in un effetto domino da bloccare il prima possibile.

La ricerca effettuata dal professor Lindenmayer ha portato alla luce un dato davvero sorprendente e per molti versi inaspettato.

Gli Eucalyptus regnans australiani, la cui morte mette a rischio l’esistenza del Panda, l’animale simbolo della tutela della biodiversità, non muoiono in grande numero solo in caso di incendi, ma muoiono anche negli anni senza incendi ad una velocità dieci volte superiore alla velocità normale.

Le cause di morte sono siccità, alte temperature, tagli e altre cause non ancora conosciute ma su cui si deve far luce il più velocemente possibile per poter praticare politiche di tutela di questi che non solo sono i polmoni della terra, ma sono veri e propri mondi abitati essi stessi.

Giulia Orlando
13 dicembre 2012

Stoccare la CO2 nelle miniere

L’ingegnere minerario e geologo Michael Hitch della British Columbia University ritiene sia il momento di sfruttare il grande potenziale economico che, a suo parere, avrebbero i rifiuti delle miniere.

Secondo l’ingegnere minerario, infatti, sarà presto possibile intrappolare CO2 all’interno delle miniere attraverso gli scarti di produzione.

Le rocce studiate dall’ingegner Hitch, che sono rocce di scarto delle operazioni minerarie, hanno infatti la capacità di assorbire CO2.

Le stesse operazioni minerarie sono tra i produttori di CO2 extra emessa nell’atmosfera: gli studi sulle rocce di scarto sono mirati alla particolare capacità delle rocce di scarto di assorbire CO2, compensando le emissioni prodotte dalle operazioni di estrazione.

Le rocce, denominate “rocce SP”, sono secondo l’ingegner Hitch il futuro “stoccaggio” di tutte le emissioni di CO2 delle miniere canadesi. Queste rocce sono infatti ricche di silicato di magnesio, che fissa la CO2 trasformandola in carbonato di magnesio: con qualche procedimento ancora da mettere a punto, la capacità “assorbente” di queste rocce può essere ulteriormente aumentata fino a raggiungere valori che vanno da 5 a dieci volte le emissioni di CO2, il gas responsabile dell’ effetto serra,  prodotte dalle lavorazioni minerarie.

Tutte le miniere potrebbero essere coinvolte: nichel, diamanti, platino, rame, cromite, talco, palladio la cui lavorazione produce sia CO2 che rocce di scarto ad alto potere assorbente.

Successivamente, le rocce SP potranno essere trasformate in crediti di CO2 ed il Canada potrebbe arrivare, grazie all’ utilizzo di tali rocce, a vendere crediti di emissione ai paesi che immettono CO2 extra nell’ atmosfera terrestre.

Secondo Hitch si potrebbero inoltre applicare i risultati di questa ricerca anche a progetti di incameramento di CO2 nei bacini sotterranei e marini aiutando quindi a ridurre la presenza diCO2 in eccesso nell’atmosfera trasformando in questo in questo modo un rifiuto in una vera e propria ricchezza, sia economica che ecologica.

Giulia Orlando
11 dicembre 2012

Nuovi tessuti: fibre ottiche che funzionano come celle solari

Flessibile, funzionante come una cella solare, a base di silicio: è la nuova fibra prodotta da un team internazionale di ricercatori alla Penn State University.

Chimici, fisici ed ingegneri al lavoro su uno stesso progetto: la possibilità di tessere fili in silicio, per la produzione di tessuti solari flessibili, hanno pubblicato i loro studi su Advanced Materials, in anteprima nella edizione online della rivista del 6 dicembre 2012.

L’unione di fibre ottiche e di circuiti integrati a base di silicio ha permesso al team di ricercatori di trovare il modo per creare un nuovo tipo di fibra ottica, con un microchip integrato.

Le applicazioni di questa nuova fibra, che integrano la componente elettronica ad un materiale flessibile, sono principalmente pensate per la creazione di celle solari, le applicazioni di immagazzinamento di energia, il rilevamento chimico, i dispositivi biomedicali.

La possibilità di tessere come fosse un normale tessuto una fibra che è in realtà un vero e proprio circuito elettronico, ha un campo di applicazione talmente vasto e ricco di potenziale da poter spaziare letteralmente in tutti i rami in cui viene utilizzata la microelettronica.

Batterie solari, ad esempio, create con questo tessuto, potrebbero costituire un nuovo e performante modo di gestire le apparecchiature portatili che necessitano di batteria. Una cella solare oggi viene infatti creata utilizzando un reattore PECVD, costosissimo e rigido: il nuovo tessuto permette di abbattere notevolmente i costi oltre a rendere possibile la creazione di celle solari perfettamente adattabili a qualunque tipo di configurazione.

Dalla ricarica delle batterie a veri e propri apparati con fonte energetica integrata con cui preparare veri e propri indumenti da indossare, applicazione che ha creato un forte interesse negli apparati militari.

Fibre per cellule solari flessibili, con circuiteria perfettamente integrata e quindi dotati di enorme reattività: uno scorcio di futuro che potrebbe portare la fantascienza prima nella batteria del nostro iPad, poi forse nel nostro guardaroba.

Giulia Orlando
10 dicembre 2012 

Africa: la scomparsa dei Leoni

La progressiva scomparsa delle savane ha oramai ridotto gli habitat del felino del 75 % ed il numero di leoni selvatici è in rapida diminuzione.

La massiccia conversione del territorio per lo sfruttamento agricolo, unita alla desertificazione ed alla siccità in continuo aumento, ha progressivamente ridotto la popolazione di leoni in tutto il continente.

Il coordinatore del Lion Program Survey di Pathera, l’Associazione che sin dal 2006 si occupa della salvaguardia dei grandi felini e del loro habitat naturale, il dott. Philip Henschel, assieme ad un gruppo di ricercatori della Duke Univerity, ha pubblicato la relazione sullo stato di salute del leone selvatico africano: sono ridotte a sole 67 le zone in cui il leone può restare indisturbato per lunghi periodi di tempo e di queste 67, solo 15 sono le aree con una popolazione di leoni che arriva almeno a 500 esemplari.

Nonostante i leoni, specie nell’Africa occidentale, siano oggetti di incentivi governativi disposti per la tutela e la salvaguardia di questa specie, sono oramai entrati nella categoria delle specie a rischio.

In altre zone dell’Africa, invece, il traffico turistico attirato dalla attrazione rappresentata dai leoni selvatici, porta miliardi di dollari di entrata,  e non solo spinge i governi a tutelarne la presenza sul territorio, ma pone allo stesso tempo le condizioni per cui tale tutela venga effettivamente attutata.

Viene quindi auspicata, anche tramite accordi di collaborazione internazionale con altri entri ed altre associazioni, una maggior tutela dell’habitat naturale dei grandi felini, al fine di porre le condizioni per limitare una ulteriore espansione delle zone che vengono dedicate in modo sempre più diffuso alla agricoltura intensiva e trasformare i leoni selvatici in una entrata per i paesi poveri, che consenta loro di trarre beneficio dalla presenza di questi splendidi felini sul loro territorio ed, al contempo, di ottenere le risorse economiche necessarie per tutelarne l’habitat che non è minacciato dalla sola espansione della attività agricola degli uomini.

Giulia Orlando
7 dicembre 2012