La terra dei Maasai minacciata dal Land Grabbing

terra-masai-land-grabbingIl Land Grabbing può essere considerato la nuova, triste frontiera del colonialismo attuato in Africa e nei paesi in via di sviluppo, che ha avuto una crescita esponenziale nell’ultimo decennio. Questo fenomeno riguarda l’accaparramento di terre nei paesi del terzo mondo ad opera di grandi multinazionali straniere, per produrre colture alimentari destinate all’esportazione oppure a fini meramente speculativi. In questo modo la terra viene considerata una merce di scambio tra governi accondiscendenti e gruppi privati senza scrupoli che non riconoscono l’importanza socio-culturale e ambientale del territorio di cui si impadroniscono. Gli accordi tra queste due parti in causa spesso sono poco trasparenti, agli investitori non vengono imposti vincoli sull’uso del terreno ed i canoni di affitto sono mantenuti bassi per attirare nuovi investimenti esteri. Tutto ciò è possibile perché in molti stati africani non esistono vere e proprie leggi sulla proprietà privata, e la terra viene considerata una proprietà pubblica, così i governi hanno il diritto di gestirla e venderla a discapito di chi in quei luoghi vive da generazioni.
Un recente rapporto di Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) sostiene che in soli dieci anni, la compravendita di terreni ha coinvolto un’area grande circa sette volte l’Italia e, si stima che in Africa circa 24 milioni di ettari siano attualmente oggetto del Land Grabbing.
Questo triste fenomeno è tornato all’attenzione della stampa internazionale dopo che  il governo della Tanzania ha annunciato la creazione di una nuova area per la “conservazione”, nella terra del popolo Maasai, il villaggio di Lolindolo, situato nel Distretto di Ngorongoro nel nord del paese, vicino al confine con il Kenya.
Il Ministro del Turismo locale, Khamis Kagasheki, afferma di voler istituire un “corridoio verde” di 1.500 km quadrati, che faciliterebbe il passaggio degli animali selvatici tra il Parco Nazionale del Serengeti in Tanzania e quello del Maasai Mara in Kenya. In realtà l’area è stata ceduta in affitto dal 1992 ad una società che organizza safari di caccia grossa, la Ortello Business Corporation (OBC). Questa società ha legami con le famiglie reali degli Emirati Arabi Uniti e detiene l’esclusiva dei safari e dei diritti di caccia a Loliondo. Recentemente a questa società è stato attribuito lo status diplomatico, rendendo così impossibile il controllo sullo spazio in cui opera.
Quest’area è la terra tradizionale dei Maasai, ma le battute di caccia grossa hanno gravemente compromesso l’accesso della popolazione ai pascoli per il bestiame e al loro approvvigionamento alimentare, provocando crescenti tensioni tra le comunità e la OBC.
Da anni i gruppi delle comunità locali si oppongono alla svendita della loro terra. Nel marzo 2013, per l’ennesima volta è stato intimato ai Maasai di abbandonare le loro case e di andarsene con il loro bestiame. Tutto questo nel nome di una millantata conservazione che invece sembra celare gli interessi di pochi ricchi stranieri, appassionati di una crudele pratica ancora erroneamente definita sport, la caccia da trofeo, costoso massacro in termini economici e sopratutto ecologici!!

Già nel 2009 il Presidente della Tanzania in persona, Jakaya Kikwete, emanò un ordine di sfratto nei confronti dei Maasai della zona. Ci furono forti scontri e la comunità locale venne allontanata dalle autorità per far spazio alle battute di caccia grossa. I villaggi furono rasi al suolo, il bestiame disperso, e molte donne denunciarono ai mass media locali i soprusi e le violenze subite. In quell’occasione circa 200 abitazioni vennero incendiate e quasi 20 mila Maasai vennero travolti dalle violenze e lasciati senza cibo né un luogo in cui abitare.
Oggi la decisione del Ministro del Turismo tanzano mette a rischio la vita di circa 30 mila persone che da decenni conducono attività di pascolo all’interno dei 44 mila km quadrati del distretto di Loliondo. A questa gente verrebbe negato persino il passaggio attraverso il cosiddetto “corridoio verde”, poiché la OBC sarebbe l’unica autorizzata ad utilizzarlo per trasportare i turisti – cacciatori. Per giustificare la sua decisione, il Ministro Kagasheki dichiara che le attività di pascolo delle popolazioni residenti, avrebbero un impatto ecologico  negativo sull’area, che invece dovrebbe essere tutelata.  A tali motivazioni risponde Samwel Nangiria, portavoce di un gruppo costituito da diverse Ong locali, sostenendo invece che lo stile di vita Maasai sarebbe in piena armonia con la natura e che in realtà il governo non apprezzerebbe l’eccessiva libertà di cui gode la comunità, giudicata poco produttiva per l’economia del paese.
L’ordine di sfratto emanato dal Presidente Kikwete nel 2009, venne ritirato dopo che la comunità internazionale si mobilitò con una petizione firmata da circa un milione di persone, dimostrando che l’opinione pubblica ha ancora un ruolo importante nelle decisioni dei governi locali. Oggi sembra che la situazione sia più complessa, perché il tentativo del governo è quello di motivare le sue scelte cavalcando l’onda della conservazione e della tutela delle risorse naturali nel sud del mondo.

Per cercare di fermare questo ennesimo sopruso ai danni delle popolazioni locali e degli animali selvatici, l’opinione pubblica internazionale ha deciso di mobilitarsi nuovamente, organizzando una raccolta firme diffusa da Avaaz.org .  La petizione ha già raccolto circa un milione e mezzo di adesioni, ma non bastano.
Dai il  tuo contributo aderendo a questa importante iniziativa, ed aggiungendo la tua firma alla lista.
E’ un’operazione che richiede pochi secondi ma che ha già dimostrato in passato di poter fare la differenza, per rendere dignità e diritti al popolo Maasai e all’ecosistema della Tanzania.

https://secure.avaaz.org/it/stand_with_the_maasai_loc/?bTtyNab&v=23519

Elisabetta Carlin
17 aprile 2013

 

Confermato il referendum sulla caccia in Piemonte

Fringuello morto, ucciso dalla caccia.
Fringuello deceduto, vittima della caccia.

Il referendum che si svolgerà in Piemontenella primavera 2012, è atteso da ben 24 anni, da quel lontano 1987 in cui un comitato che riuniva associazioni ambientaliste ed animaliste, raccolse le 60.000 firme necessarie a favore dell’ abrogazione di alcuni articoli della normativa allora vigente sulla caccia. Da quel momento le complicazioni burocratiche ed una continua opposizione di varie associazioni a favore dell’attività venatoria, hanno impedito questo voto popolare, ricorrendo a ben 9 tribunali affinchè i cacciatori potessero continuare a svolgere quell’attività che alcuni di loro definiscono “passione”, altri “sport” ma che rimane una delle pratiche più barbare ed ingiustificate del nostro paese. Il 23 novembre 2011 il Tar del Piemonte ha definitivamente chiesto alla Regione di indire il tanto atteso referendum, in una data compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno 2012. Se non lo farà entro il 25 gennaio dell’anno che sta per iniziare, verrà nominato un commissario ad acta dal Tar stesso, che deciderà autonomamente la data.

Nonostante questo importante risultato raggiunto, non si deve dimenticare che il dialogo tra le associazioni animaliste e la politica non ha dato buoni risultati in questi anni. Infatti sembra che le due parti siano ancora lontane dal trovare un accordo che accolga le richieste dei cittadini, come dimostra la proposta fatta nel 2010 dall’Assessore Regionale alla Caccia Claudio Sacchetto (Lega Nord), che riguarda l’aumento delle specie cacciabili, la caccia nei parchi, l’allungamento della stagione venatoria, l’introduzione dell’arco tra i mezzi di caccia, e soprattutto la proposta sconcertante e a tratti delirante di autorizzare la caccia alle specie protette dalle norme internazionali. E’ quindi fondamentale il lavoro che molte associazioni (Associazione Radicale, Circolo Darwin, Circolo Nuclei Operativi Ecologici, Club Alpino Italiano – Commissione Tutela Ambiente Montano, Club Protezione Animali, Comitato regionale Democrazia Proletaria, Italia Nostra, Lega per l’Ambiente, Lega Antivivisezione, LAC Lega per l’abolizione della caccia, Lega Italiana Protezione Uccelli, Lista Verde, Lista Verde Civica, Pro Natura, Telefono Verde Piemonte, World Wildlife Found) hanno fatto e continuano a fare, cercando un punto di intesa con le istituzioni affinché la democrazia diretta riesca a svolgere il suo ruolo, permettendo a tutti i cittadini coinvolti nelle vicende del proprio territorio, di esprimere il loro parere riguardo un tema così importante e controverso.

Chi ha condotto e conduce questa battaglia a favore della consultazione popolare, non reclama l’abolizione della caccia (che nel 1987 era regolata da leggi nazionali e non regionali), ma sente come necessaria una regolamentazione più severa dell’attività venatoria. Il quesito del referendum chiederà ai cittadini se sono favorevoli a ridurre drasticamente la caccia attraverso le seguenti azioni:

a) protezione per 25 specie selvatiche oggi cacciabili (17 specie di uccelli e 8 specie di mammiferi),

b) divieto di caccia sul terreno innevato

c) abolizione delle deroghe ai limiti di carniere per le aziende faunistiche private

d) divieto di caccia la domenica.

Per maggiori informazioni potete consultare il sito della LAC (Lega per l’Abolizione della Caccia), sezione Piemonte: http://piemonte.abolizionecaccia.it

 

Elisabetta Carlin

 

Il global warming rimpicciolisce piante ed animali

Piante ed animali in tutto il mondo stanno rispondendo all’innalzamento globale delle temperature attraverso un rimpicciolimento delle proprie dimensioni corporee.pecore scozzesi Questo è ciò che sostengono le ricerche svolte da Jennifer Sheridan dell’Università dell’Alabama e David Bickford della National University di Singapore (Nis). Tali cambiamenti  potrebbero avere un impatto importante anche sugli esseri umani che si cibano di questi organismi, sconvolgendo così l’intera catena alimentare e portando all’estinzione di alcune specie.

Dobbiamo considerare che negli ultimi 55 milioni di anni, alcuni organismi vegetali ed animali, si sono ridimensionati man mano che la Terra si riscaldava, con un aumento medio delle temperature dal 3 al 7%  mentre le precipitazioni diminuivano significativamente. La conseguenza di ciò è stata la perdita della biodiversità che è andata ad incidere sulle risorse alimentari. Si potrebbe pensare che questo sia un processo naturale ed inevitabile, invece a causa dei recenti cambiamenti climatici, tale fenomeno è più veloce rispetto al passato e impedisce a molti organismi di innescare le risposte più adeguate e rapide, necessarie alla loro sopravivenza.

Gli scienziati hanno analizzato le dimensioni medie della flora e della fauna, partendo dai resti fossili, ed hanno così rilevato che i frutti tendono a diminuire dal 3 al 17% per ogni grado Celsius in più. Invece invertebrati marini e salamandre riducono le proprie dimensioni corporee dallo 0,5 al 4% , mentre i pesci hanno perso fino al 22% delle dimensioni complessive. Proprio questa contrazione della taglia di crostacei e pesci, potrebbe influire negativamente sui regimi alimentari e sulla sussistenza economica di quasi un miliardo di persone che vivono soprattutto nelle aree più povere e rurali del mondo. Si prevede che le condizioni più calde e secche porteranno ad un aumento della siccità e alla riduzione delle dimensioni di alcune piante, mentre l’acidificazione degli oceani causerà gli stessi danni anche su alghe e plancton, che sono alla base della catena alimentare, generando scompensi molto gravi. A tal proposito, Bickford del Nis sottolinea che “la riduzione dei nutrienti, della disponibilità di cibo e di acqua avrà contrazioni negative sull’intero ecosistema”.

Un esempio evidente di questo fenomeno è la diminuzione della corporatura della pecora Soay (nella foto), una specie che vive nelle Highlands scozzesi e che è stata studiata per un quarto di secolo da un team di ricercatori dell’Imperial College di Londra. Queste pecore sono state pesate e misurate tra il 1985 ed il 2007, riscontrando una perdita di peso ed una considerevole diminuzione della taglia corporea fino al 5%. Ciò sarebbe stato causato proprio dagli inverni più caldi registrati nella regione, nella quale in passato sopravvivevano solo le pecore più grandi e in buone condizioni fisiche, che permettevano loro di superare i rigidi inverni. Adesso invece, a causa del cambiamento climatico in atto, le temperature sono più miti e consentono una copertura erbosa maggiore che viene distribuita in un intervallo di tempo più ampio. In questo modo anche le pecore di taglia piccola riescono a sopravvivere e a riprodursi con successo.

Da questo esempio possiamo dedurre che, l’innalzamento globale delle temperature modifica i parametri con cui abbiamo studiato e cercato di comprendere il mondo naturale fino ad ora, costringendoci quindi a ridefinirne alcuni. Tra questi c’è uno dei principi fondanti della zoologia, ovvero la regola eco-geografica di Bergman, secondo la quale, nell’ambito di una stessa specie, la massa corporea è direttamente proporzionale alla latitudine ed è inversamente proporzionale alla temperatura. Ciò significa semplicemente che gli animali più grandi hanno un rapporto superficie/volume minore rispetto a quelli di taglia più piccola, quindi riescono a disperdere il calore più lentamente e sono adattati a climi più temperati, mentre gli animali di piccole dimensioni sopravvivono meglio in climi più caldi e secchi, grazie proprio alla loro capacità di disperdere il calore più velocemente (ciò non è sempre valido, si pensi ad esempio all’elefante africano, un animale di grosse dimensioni che riesce comunque a disperdere il calore corporeo grazie alla modificazione evolutiva delle enormi orecchie, molto vascolarizzate).

Secondo Sheridan e Bickford, la riduzione delle dimensioni corporee sarà più evidente nelle aree in cui l’innalzamento delle temperature provocherà una diminuzione delle precipitazioni e quindi un aumento della siccità. Tutto ciò si andrà ad aggiungere alle modifiche del territorio che hanno ridotto drasticamente gli habitat naturali in cui piante,animali e uomini dovranno combattere e trovare strategie per sopravvivere. Dunque, oggi più che mai, è importante studiare tali fenomeni per poterli prevedere e prepararci ai cambiamenti che subiremo, per essere in grado di mitigarne i possibili e drammatici effetti nel futuro.

Elisabetta Carlin

Il Delta del Niger : dove il petrolio inquina la natura e calpesta i diritti umani.

Fino al 1956 lungo il Delta del fiume Niger si estendeva un’oasi incontaminata. Le foreste di mangrovie formavano intricati  labirinti nei quali si sviluppava un delicato ecosistema in cui le popolazioni locali vivevano in equilibrio con nigeriala natura, traendo da essa il loro sostentamento quotidiano.  In quell’anno, nel delta vennero scoperti i primi giacimenti petroliferi che hanno trasformato quell’oasi  in un inferno che ancora oggi continua a bruciare. Da allora le compagnie petrolifere, in particolare la Shell che controlla circa la metà del greggio complessivo, la Total, la Chevron e l’italiana Eni,  hanno colonizzato il territorio, appoggiate da governi militari deboli e corrotti, che nel corso degli ultimi 50 anni hanno svenduto le risorse naturali del loro paese in cambio di mazzette e profitti illeciti, ed hanno messo a tacere le ingiustizie che le popolazioni locali sono costrette a subire giornalmente. Nel Delta del Niger (una regione di circa 70.000 kmq con 27 milioni di abitanti), si produce la maggior parte del petrolio nigeriano, circa 2,4 milioni di barili al giorno.

L’inquinamento criminale viene causato dalla perdita del greggio che fuoriesce da tubature vecchie ed usurate dal tempo che si estendono nel territorio per centinaia di chilometri, riversando così il petrolio nell’acqua del fiume e lungo le sue sponde. Le persone che vivono in questo luogo respirano aria inquinata, mangiano pesce contaminato e bevono acqua mista a petrolio.   Sono 36 mila i  km² di mangrovie, corsi d’acqua e lagune invasi dalla melma nera; per rifornirsi di acqua potabile, le popolazioni locali sono costrette a scavare nel sottosuolo fino a 50 metri di profondità, causando instabilità del terreno e ponendo la zona a rischio di frane.

 Il recente rapporto del PNUE, cioè il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, denuncia apertamente questa catastrofe ambientale. Sono stati esaminati più di 4mila campioni estratti dai 780 pozzi della zona. Il risultato è sconcertante: le popolazioni bevono, cucinano e si lavano con acqua proveniente da pozzi contaminati dal benzene, in cui i livelli di tossicità sono 900 volte superiori a quanto consentito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità(OMS).

Anche l’aria viene contaminata dai gas, sottoprodotti delle estrazioni petrolifere, che vengono bruciati a cielo aperto dal 1985, pratica definita “gas flaring” (gas esplosivo) che fa sprecare ogni anno una quantità di gas pari al 30% del fabbisogno europeo.  Questo gas potrebbe essere reinserito nel sottosuolo oppure utilizzato per i fabbisogni energetici della Nigeria. Invece viene bruciato dalle multinazionali perché  ciò rende l’estrazione del petrolio molto più veloce, abbassando così i costi di gestione e di produzione.

Il solo inquinamento ambientale prodotto dal “gas flaring” nel mondo, diventa pari alle emissioni di 77 milioni di auto o di 125 centrali a carbone.  Le fiammate ardono continuamente di giorno ed illuminano la notte, rendendo irrespirabile l’aria, facendo aumentare considerevolmente la temperatura attorno alle trivellazioni e causando problemi respiratori, malattie della pelle e degli occhi, disturbi gastrointestinali, leucemie e cancro.  La legge nigeriana vieta la pratica del “gas flaring” perché viene ritenuta pericolosa per l’ambiente e per la salute umana, ma i governi non sono mai riusciti ad imporre la soluzione del problema. I vertici dello stato nigeriano dovrebbero rafforzare la regolamentazione circa l’estrazione del petrolio, in modo da obbligare le aziende petrolifere a rispondere dell’inquinamento ambientale, prevenendo così ulteriori abusi.

 Oltre ai problemi di salute e quelli ambientali, la popolazione deve anche subire l’ingiustizia sociale: nonostante l’immenso valore economico dei 606 pozzi petroliferi, dopo circa 50 anni di estrazioni che ogni anno creano l’80% del Pil nazionale, la Nigeria resta uno tra i più poveri paesi africani. L’aspettativa di vita dei 27 milioni di persone che abitano il delta del Niger – delle quali il 60% sopravvive grazie alle attività direttamente collegate all’ecosistema – arriva a poco più di 40 anni. La distribuzione delle risorse non è equa. Il tasso di disoccupazione varia tra il 75 e il 95%, perché a lavorare nei pozzi petroliferi è soprattutto manodopera specializzata proveniente dall’estero. Gli unici ad arricchirsi con il petrolio sono le multinazionali ed i politici locali corrotti. Negli ultimi decenni però queste disuguaglianze hanno esasperato la popolazione che, attraverso proteste e mobilitazioni, subendo repressioni violente da parte dello Stato e dagli agenti della sicurezza privata delle multinazionali,  è arrivata a rivendicare la fine del saccheggio indiscriminato del territorio, chiedendo la bonifica dei corsi d’acqua e dei terreni, una più equa distribuzione dei proventi del petrolio, nonché il risarcimento del debito ecologico.

Nel 2005 è stato anche costituito un gruppo armato, il MEND (Movimento di Emancipazione del Delta del Niger) che ha compiuto numerose operazioni di sabotaggio dei pozzi,  delle condutture e si è reso responsabile del rapimento di alcuni lavoratori delle multinazionali. Il movimento dichiara di combattere per il controllo del petrolio in tutto il Delta del Niger e per consentire alle persone di trarre dei benefici dalle estrazioni.

La popolazione cerca di sopravvivere riprendendosi il proprio territorio saccheggiato e devastato dalle logiche imperialistiche, che mietono vittime e sacrificano gli equilibri naturali in tutto il mondo, non solo in Africa, non solo in quello che un tempo era un paradiso ed oggi è solo l’opaco ricordo di una natura violentata. La Nigeria cerca di rialzarsi, ma l’opinione pubblica  internazionale sembra non appoggiare concretamente questa lotta a cui non concede neppure il giusto risalto mediatico.

Elisabetta Carlin

Liberato un cucciolo di gorilla rapito dai bracconieri in Congo

Grazie ad una delicata operazione sotto copertura, le guardie del Parco Virunga sono riuscite a trarre in salvo il cucciolo di un anno e mezzo e ad arrestare 3 bracconieri, che detenevano il piccolo dentro uno zaino.baby gorilla Era chiuso dentro un sacco, teso e spaventato, stringendosi le braccia intorno al corpo per ricordare ancora una volta la stretta materna che gli dava sicurezza e lo proteggeva dai pericoli del mondo esterno. Ma il piccolo Shamavu – come è stato ribattezzato in onore del suo salvatore, la guardia forestale Christian Shamavu, del Virunga Gorilla Park in Congo – conserva negli occhi  il ricordo indelebile della morte di sua madre e degli altri componenti del nucleo familiare, uccisi dai bracconieri,  poiché essendo animali sociali hanno tentato di difendere il piccolo fino alla morte.  La guardia Christian Shamavu racconta che questo è già il quarto gorilla strappato dalle mani insanguinate del mercato nero dall’inizio del 2011: “Abbiamo salvato cuccioli che avevano ferite da arma da fuoco, polmonite, o tagli profondi provocati dalle corde con cui erano legati”.

I cuccioli così giovani, come Shamavu, dipendono totalmente dalla madre e passano il loro tempo aggrappati alla sua schiena. In seguito alla separazione  subiscono un forte trauma. Ecco perché per lui sarà difficile abituarsi alla sua mancanza e il bisogno del contatto fisico materno sarà un tormento  costante. I veterinari del parco Virunga sostengono che sia molto improbabile una veloce reintroduzione  in natura del piccolo gorilla, poiché i giovani, strappati precocemente alla madre, raramente sopravvivono.

I gorilla di montagna sono strettamente protetti in Congo, poiché sono tra le specie più vulnerabili ed è severamente vietato ucciderli o rapirli: la pena è di 10 anni di prigione e questa si inasprisce se per rapire il piccolo viene uccisa la madre o altri gorilla. Il problema più grande è riuscire a dimostrare queste uccisioni. I compratori sono zoo e privati collezionisti senza scrupoli e, purtroppo fin’ora, i ranger non sono riusciti ad arrestare neanche un compratore.  Le guardie sono quotidianamente impegnate per la salvaguardia di questi animali, con pattuglie anti-bracconaggio che disinnescano trappole, compiono rischiose azioni sotto copertura, cercano di sensibilizzare le comunità locali e subiscono attacchi dei bracconieri, spesso rimettendoci la vita, come è successo quest’anno ad 11 guardie del Parco Virunga.

La foresta incontaminata in cui la famosa primatologa Dian Fossey compiva i suoi studi sulle ultime popolazioni di gorilla di montagna e in cui è stata uccisa dai bracconieri nel 1985, è diventata oggi un campo di battaglia nel quale, a causa dell’assenza di concreti aiuti governativi, i ranger si trovano da soli a dover combattere contro bracconieri, banditi e anche contro la milizia dei ribelli ruandesi hutu, la FDLR (Forces démocratiques pour la libération du Ruanda, responsabile del genocidio del Ruanda nel 1994) . La FDLR infatti da anni sfrutta la fitta foresta delle montagne Virunga per alimentare il traffico di carbonella e per la coltivazione della marijuana: la carbonella viene prodotta tagliando illegalmente gli alberi del parco e facendo bruciare lentamente la legna per sei giorni in un forno artigianale ricoperto di terriccio. Il prodotto finale viene poi rivenduto sul mercato nero o scambiato con armi e proiettili. Una volta venduta la carbonella, la FDRL disbosca l’area e pianta la  marijuana, che verrà poi raccolta, trattata chimicamente e rivenduta o barattata con armi, proiettili ed uniformi.

Il Parco Virunga è situato tra Ruanda Congo ed Uganda, tre paesi che a lungo hanno subito sanguinose guerre civili e povertà. Oggi si richiede ai governi di questi paesi uno sforzo congiunto contro i  traffici illeciti di materie prime, di animali e contro lo sfruttamento della loro importantissima risorsa naturale ed economica che è il parco stesso, senza il quale il turismo e gli introiti economici che da esso derivano, non esisterebbero più.

In questo luogo anche i gorilla, come il resto dell’habitat, sono esposti ad un continuo e serio pericolo. Il mercato nero fissa il prezzo della vita di questi animali: 40.000 dollari  è la cifra a cui può essere venduto un piccolo gorilla, che da quel momento diventa un animaletto da compagnia, fin quando non raggiunge l’età adulta e l’ingombrante peso di 180 km. A quel punto diventa incontrollabile e la sua sorte è segnata: finisce in gabbia o viene soppresso.

Il piccolo Shamavu è stato salvato da questa triste sorte. Ora sta meglio, è nelle mani sicure di una équipe di veterinari che si occupa di lui ogni giorno e tenta di assicurargli un futuro migliore, ma il reinserimento in natura è lontano: ha perso ciò che rappresentava tutto il suo mondo,  la sua famiglia e la foresta. Gli ci vorrà del tempo per rassegnarsi alla nuova realtà a cui, individui avidi e senza scrupoli, lo hanno irrimediabilmente condannato.

Elisabetta Carlin

baby gorilla
Fotografia per gentile concessione LuAnne Cadd, Virunga Gorilla Park

 

Allarme Rinoceronte: il commercio illegale del suo corno lo sta portando sull’orlo dell’estinzione.

Nel 2011 l’Organizzazione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) lancia l’allarme e parla di serio rischio di estinzione che minaccia tutte e 5 le specie di rinoceronte rimanentirinoceronte al mondo. Le specie di Java e Sumatra sono criticamente minacciate, mentre il rinoceronte nero e quello bianco, presenti in Africa, stanno subendo il più grave attacco di bracconaggio della loro storia (dai 13 esemplari uccisi nel 2007 ai 333 esemplari morti nel 2010).

La causa di ciò è ovviamente la richiesta sempre maggiore del corno di questi animali, costituito da semplice cheratina, la stessa sostanza di cui sono composte le nostre unghie ed i nostri capelli, che viene usato nella medicina tradizionale asiatica e sul mercato ha un valore di 10.000 dollari al kilo. L’Interpol stima che il commercio illegale di animali o di parti di essi è il terzo business più redditizio al mondo, preceduto solo dal traffico di armi e di droga.

I numeri del massacro dei rinoceronti sono impressionanti ma spiegano perfettamente il problema: nel 1970 la popolazione di questi pachidermi africani ammontava a 70.000 esemplari. Nel 2007 questo numero è sceso drasticamente a quota 11.000. Quest’anno sono già stati uccisi 225 esemplari, ma questo numero sconcertante è in continua crescita, anche a causa dei mezzi sofisticati, come elicotteri, armi automatiche e binocoli infrarossi usati dai bracconieri per ucciderli. Per far fronte a questo sterminio incontrollato, le autorità sudafricane hanno impiegato anche le forze militari, ma purtroppo i dati confermano una crescita esponenziale del triste fenomeno, anche a causa delle scarse risorse finanziarie ed umane delle riserve naturali e, della corruzione di coloro che dovrebbero proteggere e pattugliare queste aree.

Il governo sudafricano è arrivato addirittura a pensare di legalizzare la vendita del corno di rinoceronte, poiché crede che ciò diminuirebbe drasticamente le possibilità di guadagno sul mercato nero, rendendo meno conveniente l’attività di bracconaggio. Anche in Italia il problema della mattanza dei rinoceronti è particolarmente sentita e proprio in questi giorni si svolge in tutto il paese un ciclo di conferenze organizzate dal Parco Natura Viva di Verona, in collaborazione con l’A.I.E.A. (Associazione Italiana Esperti d’Africa) e con l’ IAPF – (International Anti Poaching Foundation), per sensibilizzare il mondo scientifico riguardo il rischio di estinzione di questo meraviglioso animale, ma anche per far conoscere gli sforzi che si stanno compiendo in Sud Africa per la sua salvaguardia e le strategie di gestione che vengono impiegate giornalmente per la lotta contro questo sterminio.

(Le date delle conferenze sono: 13/10/2011 Torino, Museo di Scienze Naturali; 14/10/2011 Genova Acquario; 15/10/2011 Milano, Museo di Storia Naturale; 16/10/2011 Verona,Parco Natura Viva; 17/10/2011 Firenze, Museo della Specola; 18/10/2011 Roma, Museo Civico di Zoologia. Per maggiori informazioni: www.espertiafrica.it e www.parconaturaviva.it ).

Poiché la natura è un equilibrio perfetto, costituito da più componenti che convivono e si sostentano a vicenda, la scomparsa del rinoceronte comprometterebbe la vita di molte altre specie presenti sul territorio africano, senza contare che avrebbe ripercussioni anche sulla risorsa economica e di sviluppo sociale più importante del continente nero: il turismo ecologico. E’quindi fondamentale agire finchè si è ancora in tempo per scongiurarne l’estinzione.

Elisabetta Carlin