SLA: a che punto siamo?

Ci sono patologie che trasformano la biologia del corpo umano in una gabbia per l’intelligenza emotiva e cognitiva: sebbene il cervello sia ancora attivo, le funzioni vitali subiscono un cortocircuito e il sistema collaudato di apparati vitali si trasforma in una interazione sempre meno efficiente, portando così la percezione del dolore a prendere le fattezze di un incubo inesprimibile.

Questa è la storia di un malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA): un uomo affetto da patologia neurodegenerativa progressiva, che vede pian piano spegnersi i neuroni motori corticali del tronco encefalico e delle corna anteriori del midollo, fino alla atrofia dei muscoli volontari, al deficit deambulatorio e alla compromissione, in ultimo, delle funzioni vitali; per uscire su una sedia a rotelle si ha bisogno di due mani che la spingano, per rimanere nel letto tutto il giorno è necessario che qualcuno cambi le lenzuola, per alimentarsi serve qualcuno che imbocchi, per aspirare la tracheotomia o per pulire la peg non possono mancare esperti che lo sappiano fare.

«Per questo tipo di patologia non ci sono cure vere e proprie», spiegano dall’associazione ConSlancio, «ma si prescrivono integratori, a volte probiotici, e l’unico farmaco in commercio rimane, da oltre 20 anni, il Riluzolo, che avrebbe l’intento di ritardare la tracheotomia, allungando così la vita di soli tre mesi. Alcuni centri specializzati nel trattamento di questa patologia a volte reclutano pazienti per delle sperimentazioni in doppio cieco, ma finora nulla di concreto è stato pubblicato dai nostri ricercatori italiani».

Nel 1995 venne, infatti, approvato dalla Food and Drug Administration il Riluzolo quale farmaco capace di ridurre l’azione del glutammato (uno dei 23 aminoacidi naturali, il cui tasso elevato nei malati di SLA determina una iperattività nociva per il corretto funzionamento del corpo umano) e, dunque, di rallentare moderatamente la degenerazione motoria, conseguenza tipica di questa patologia. Attualmente, essendo ancora sconosciute le cause che provocano la SLA (idiopatica, cioè non dovuta a cause esterne note, per la maggioranza dei casi ed ereditaria per un modesto 10%), non esistono cure che possano sconfiggerla, ma solo trattamenti per renderne meno gravi i sintomi e tentare così di migliorare la qualità della vita dei pazienti, la cui sopravvivenza si aggira tra i 2 e i 4 anni dal momento della diagnosi (variabile a seconda dei vari fenotipi in cui può presentarsi la malattia).

Ma questa è anche la storia di un nuovo farmaco portato in Italia grazie a un malato coraggioso, Andrea Zicchieri, volato fino in Giappone per sperimentare sulla propria pelle l’Edavarone (o Radicut se si considera il nome commerciale), medicinale che, nel paese nipponico, era a disposizione già dal 2015. «Non sembrava vero che dopo 20 anni di nulla arrivasse finalmente la notizia di un nuovo farmaco, che avrebbe davvero rallentato la malattia» raccontano da ConSlancio, associazione di cui lo stesso Zicchieri è presidente. «Arrivò fino in Giappone per provare questo farmaco e al rientro ne raccontò i benefici al presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLA), iniziando così tutta la trafila burocratica per far sì che anche i malati italiani potessero beneficiare del farmaco».

Inizialmente furono 75 i malati che cominciarono ad acquistare il farmaco direttamente dal Giappone, ma vista l’esperienza molto positiva di Andrea Zicchieri e la sua battaglia insieme con l’AISLA, a luglio scorso l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) accolse la richiesta di inserimento del Radicut nella lista dei farmaci erogabili dal Servizio Sanitario Nazionale, secondo quanto previsto dalla legge 648 del 1996, e cioè l’assenza di alternative terapeutiche valide. Caso unico in Europa, dato che, dopo il Giappone e gli Stati Uniti, che lo hanno legalizzato a maggio 2017, l’Italia si piazza al terzo posto nel mondo per utilizzo del Radicut nelle terapie a favore dei malati di SLA. «Alcuni lo considerano miracoloso», ha dichiarato Zicchieri sulle pagine di Vanity Fair pochi giorni dopo l’approvazione da parte dell’AIFA. «Io credo che non faccia prodigi, ma sono certo che aiuti molto, se usato con costanza: in tanti hanno riacquistato piccole funzioni che avevano perso, e io, rispetto ad alcune persone che si sono ammalate insieme a me, sto meglio».

Messo a punto per il trattamento degli ictus, il Radicut è stato oggetto negli anni di ripetuti studi sui suoi possibili effetti sulla SLA. Nonostante i primi risultati non proprio incoraggianti, i dati mostrarono una risposta interessante in alcuni pazienti, sui quali si sono concentrate poi le successive sperimentazioni. A confermarlo uno studio statunitense, uscito a maggio scorso sulla rivista scientifica The Lancet Neurology, nel quale si presentavano le prove di un significativo decremento del punteggio ALSFRS-R, cioè una scala di 12 funzioni (dal linguaggio fino all’insufficienza respiratoria) che permette di tenere sotto controllo l’evoluzione della malattia assegnando a ciascun item un voto da 0 a 4. Sebbene il farmaco abbia un meccanismo d’azione non ancora noto, la sua attività influisce positivamente sullo stress ossidativo, rallentando di molto il peggioramento funzionale in pazienti con determinate caratteristiche, quali una buona attività respiratoria, una discreta capacità deambulatoria, SLA definita o probabile da massimo due anni.

«L’euforia iniziale dei 6000 malati italiani venne velocemente offuscata dalla legge 648/96, che impone dei ristrettissimi criteri di inclusione affinché un farmaco possa essere somministrato gratuitamente dal SSN (in questo caso i risultati emersi dallo studio americano). I pazienti “fortunati” scendono così a 1400 circa, riducendo di molto le reali possibilità di tutti pazienti ad accedere a una terapia innovativa dopo più di vent’anni di stasi».

Intanto, si continua a portare avanti ricerche per offrire sempre più alternative valide alla cura dei malati di SLA, come lo studio Promise, nato dal dipartimento di Neuroscienze Cliniche della Fondazione IRCCS-Istituto Neurologico “Carlo Besta” di Milano, che conta già un partenariato di 24 centri di ricerca su tutto il territorio italiano. Designata per testare l’efficacia di un nuovo farmaco, Guanabenz, la sperimentazione clinica ha come obiettivo valutare le potenzialità del farmaco nel contrastare l’accumulo patologico di proteine e tentare così di rallentare il decorso della malattia.

Ciò rappresenta sicuramente motivo di speranza, seppur piccolo, per i molti malati sia in Italia che nel mondo. Stando ai dati pubblicati dal Ministero della Salute nel 2013 in Europa si registrano ogni anno tra gli 1,5 e 2,5 nuovi casi ogni 100.000 persone, mentre in Italia, secondo le stime 2012 di Eurals, vi sarebbe una maggiore prevalenza di malati e nuove diagnosi in tre regioni: Lombardia, Campania e Lazio. Nel mondo, invece, stando a una proiezione italo-americana pubblicata lo scorso anno dalla rivista Nature, si parla di circa 200mila malati nel 2015, che saliranno a 370mila nel 2040, con un aumento del 20% in Europa e del 35%negli Stati Uniti, fino a picchi del 50% in Cina e del 100% in Africa. Un dato allarmante, quindi, non soltanto per la sua incidenza futura in paesi finora poco coinvolti, ma soprattutto per i costi terapeutici elevati che rischiano di sottolineare ancora di più il divario tra nazioni ricche e continenti poveri.

Elisa Scaringi

Morire di antibiotici

25mila decessi ogni anno soltanto nell’Unione Europea. Più di 5000 in Italia. Oltre 10 milioni in tutto il mondo entro il 2050. Ecco i numeri preoccupanti delle morti causate da infezioni per antibiotico-resistenza. Quella che potremmo definire la nuova epidemia del XXI secolo. E dalla quale il sistema politico sembra ancora preoccuparsi troppo poco. Perché non sono soltanto le cattive abitudini individuali a determinarne l’insorgere: ciò che più sembra fuori controllo è l’abuso di antibiotici ad uso veterinario somministrati anche (e soprattutto) in assenza di patologie. Potremmo dire che l’eccesso di prevenzione dovuta al benessere generale stia avendo un effetto boomerang. Tra gli animali, imbottiti di medicinali per salvaguardarne la salute all’interno degli allevamenti intensivi, e tra i consumatori, ignaro della presenza “invisibile” nella carne che mangiano di dosi eccessive di medicinali. Un circolo vizioso, quindi, alimentato dai grandi produttori (che ne abusano per mantenere alte le prestazioni), dai consumatori (spesso ignari e male informati), dalla politica (che pochissimo sta facendo in materia di educazione e contrasto all’abuso di antibiotici, almeno in Italia). Ma andiamo con ordine.

È notizia recente di un sondaggio condotto dall’EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, su un campione di 3000 consumatori di 12 paesi dell’UE, sui rischi per la salute umana connessi all’antibiotico-resistenza negli animali da produzione alimentare. Il 68% dichiara di non saperne abbastanza e solo il 13% ha acquisito informazioni sull’argomento negli ultimi 12 mesi. Il 71% pensa che non si faccia abbastanza per controllare o prevenire l’abuso di antibiotici nel bestiame da allevamento, sebbene soltanto il 16% ha cercato notizie in merito al tema nell’ultimo anno. Dati, dunque, preoccupanti se si pensa all’aumento delle percentuali di resistenza alle cefalosporine di terza generazione, ai fluorochinoloni e agli aminoglicosidi, con fenomeni che, se combinati tra loro, generano batteri multi-resistenti molto aggressivi. Quelli capaci di vincere anche contro i carbapenemi, gli antibiotici creati appositamente per trattare infezioni da farmaco-resistenza.

Una situazione ai limiti della fantascienza. Aggravata ancora di più nel nostro paese, che si piazza tra i primi posti in Europa per uso e abuso di antibiotici, con una dose giornaliera ogni 1000 abitanti di 27,5, contro i 22,4 della media europea e i soli 10,7 della meritevolissima Olanda. Stando ai dati dell’EFSA, elaborati in collaborazione con l’ECDC (European Centre for Desease Prevention and Control), in Italia sarebbero già tre gli antibiotici ad uso umano che avrebbero visto dimezzare il loro effetto: ampicillina (54,9%), tetracline (50,7%), sulfametossazolo (49,7%). Arriva addirittura al 10% la percentuale di cittadini italiani che accusano antibiotico-resistenza contro i ceppi della salmonella, mentre tra gli animali sono soprattutto i suini a subirne le conseguenze.

Intanto l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare punta non solo alla riduzione delle DDD (Dose Definita Giornaliera ogni 1000 abitanti), ma soprattutto al ripensamento del sistema di produzione del bestiame, prevedendo la riduzione e la sostituzione degli antibiotici. Presso il Ministero della Salute è stato, invece, istituito un gruppo di lavoro per la stesura di un Piano Nazionale da attuarsi nel triennio 2017-2020, con la realizzazione di una piattaforma on-line sull’argomento, consultabile sia dai pazienti che dagli addetti ai lavori quali medici e veterinari. Molto c’è però ancora da fare. E con urgenza. Per scongiurare quei 10 milioni di decessi previsti per il 2050.

Elisa Scaringi

Italia: un futuro da anziani e malati cronici

In Italia si mangia meglio che in qualunque altro paese del mondo. A dirlo è il Bloomberg Global Health Index, dopo aver passato in rassegna le abitudini alimentari di 163 paesi. Vegetali, frutta, carne e pesce, il tutto condito con olio d’oliva, rappresenterebbero la ricetta migliore per assicurare ai giovani una salute di ferro. Un primato questo, che ci consentirebbe di poter vivere ben 28 anni in più rispetto ai nostri coetanei della Sierra Leone. Ma le apparenze ingannano.

Se l’aspettativa di vita nel bel paese è di oltre 80 anni suonati, lo stato generale della nostra salute non è certamente dei migliori. Stando al rapporto Osservasalute, tra gli italiani sono in aumento i malati cronici, gli anziani e l’incidenza della sanità pubblica sul Prodotto Interno Lordo. Complice soprattutto l’invecchiamento della popolazione, nel 2060 il valore delle spese sanitarie rispetto al PIL sarà pari all’8,3%, con quote del 3,3% per l’assistenza di lungo periodo agli anziani non autosufficienti. Dati non proprio lusinghieri per il Servizio Sanitario Nazionale, che potrebbe vedere a rischio la propria sostenibilità. Se si pensa, ad esempio, all’aumento delle malattie croniche, che, nel 2015, si presentavano nel 39,4% della popolazione, con una quota considerevole (23,7%) di coloro che soffrivano contemporaneamente di due o più condizioni croniche (i cosiddetti multicronici), il cui peso sul SSN si attestava al 55%.

Sempre nel 2015, anno di riferimento del rapporto Osservasalute, sono aumentati anche i decessi (49.000 in più rispetto al 2014), con valori superiori alla media nei mesi di gennaio, febbraio, marzo e luglio, con un rallentamento nell’aspettativa di vita dello 0,2 per gli uomini e dello 0,4 per le donne. Il trend di crescita delle percentuali ha coinvolto anche i dati relativi al consumo di antidepressivi  (39,6 dosi giornaliere per mille abitanti rispetto alle 38,5 del biennio 2011-2012) e al tasso annuo di mortalità per suicidio (8.310 casi tra i residenti con età superiore ai 15 anni, di cui la stragrande maggioranza è rappresentata dal sesso maschile, che si attesta al 77,6%).

Se la dieta mediterranea, dunque, ci aiuta a essere più longevi e a combattere meglio patologie come la pressione alta o il colesterolo, l’invecchiamento massiccio della popolazione non potrà essere sostenibile per una società con un tasso di natalità (8 per mille) tra i più bassi d’Europa e un numero di decessi che supera di gran lunga quello delle nascite. Il futuro del Servizio Sanitario Nazionale si giocherà, allora, sulla capacità di attuare e sostenere efficaci interventi di prevenzione primaria e secondaria, per non dover soccombere all’invecchiamento progressivo di fette sempre maggiori di popolazione.

Elisa Scaringi

Epilessia: cura possibile dalla cannabis

Mario è un giovane ragazzo affetto da encefalopatia epilettica. Il suo corpo è tormentato da un eccesso di energia: decine di attacchi quotidiani gli impediscono di condurre una vita normale. Come Howard, il protagonista del Pulitzer 2010 L’ultimo inverno. Per lui l’attacco epilettico è come un lampo: tra il freddo iniziale e i brividi postumi, il sangue va in ebollizione e il cervello frigge nella padella cranica. Nel momento in cui il fulmine entra in contatto con la carne, il corpo si trasforma in energia allo stato puro, e la morte viene invertita di segno. “Se morendo si precipita oltre il limite più basso dell’umanità, gli attacchi lo portavano al di là di quello stesso limite, ma verso l’alto, come l’esplosione di un razzo”.

Photo Credit: Jurassic Blueberries - Flickr via
Photo Credit: Jurassic Blueberries – Flickr via

Anche Mario percepisce le stesse sensazioni. Ma la rabbia sembra essere, a volte, più forte di quel lampo che lo attraversa. Perché la sua è una encefalopatia epilettica farmaco-resistente: le decine di crisi giornaliere non sono arginabili con nessun tipo di terapia. Nemmeno l’asportazione chirurgica del focus epilettogeno ha avuto gli effetti sperati.

Mario continua a soffrire. E i suoi genitori con lui. Tanto che, alla fine, l’autoterapia rappresenta l’ultima speranza in fondo al tunnel: Mario comincia a bere tisane a base di cannabis. Nel giro di soli quattro giorni le crisi epilettiche diminuiscono e la performance cognitiva migliora. Mario diventa allora un caso da laboratorio, e una speranza per i molti nella sua stessa drammatica situazione.

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Nel reparto di epilettologia del Policlinico Umberto I di Roma i test rilevano un cannabinoide ancora poco studiato, la cannabidivarina. Comincia così la fase sperimentale (tutta italiana): studiare l’interazione tra farmaci antiepilettici e fitocannabinoidi per la cura delle epilessie farmaco resistenti, partendo proprio da quella cannabidivarina presente in grandi quantità nel corpo di Mario.

All’estero, già a inizio 2016 uno studio realizzato da alcuni centri pediatrici israeliani dimostrò la stessa teoria: il 90% dei bambini affetti da epilessia farmaco resistente, dopo aver assunto cannabis ad alto valore di CBD (un cannabidiolo metabolita della cannabis indica), ha registrato una diminuzione delle crisi epilettiche. Così come negli Stati Uniti, dove già a partire dal 2015 molti studi hanno confermato l’efficacia e la sicurezza del CBD come cura efficace per le forme epilettiche più rare e resistenti a qualsiasi farmaco. Tanto che molti stati nordamericani hanno già legiferato a favore dei fitocannabinoidi.

Photo Credit: grantdaws - Flickr via
Photo Credit: grantdaws – Flickr via

In Italia, invece, la proposta di legge rimane ancora al palo. Così come l’auto coltivazione a fini terapeutici e la possibilità di prescrivere farmaci a base di cannabis. Per ora ancora non se ne parla di una legalizzazione intelligente: sono, infatti, molti coloro che pensano solo ai possibili danni derivanti dalla liberalizzazione. Anche se molteplici sarebbero gli effetti positivi: non solo in termini di lotta alla criminalità, ma anche per dare nuova speranza a tutti quei malati che, proprio grazie ai fitocannabinoidi, potrebbero migliorare la qualità della propria vita.

Elisa Scarlingi

L’arte che anticipa la scienza medica

Dipingere una patologia e non saperlo. È accaduto nella seconda metà del 1400 ad Andrea Mantegna. Nel suo quadro “La camera degli sposi” è rappresentata, infatti, la neurofibromatosi di tipo 1. Dipinta circa ottantasei anni prima della sua scoperta, avvenuta nel 1592, da parte del medico e naturalista Andrea Aldrovandi. A rivelarlo, sulle pagine della rivista inglese “The Lancet Neurology”, i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica dell’Università di Torino.

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L’arte conferma così le sue doti di osservazione e descrizione della realtà, in questo caso fondamentale anche per lo sviluppo della scienza medica. La fantesca dipinta, infatti, sul lato destro della tela presenta tutti i caratteri tipici della neurofibromatosi di tipo 1, nota anche come malattia di Von Recklinghausen. Sul viso cinque neurofibromi (tumori della guaina dei nervi periferici che si presentano sotto forma di lesioni cutanee, sottocutanee o plessiformi), sulle guance almeno cinque macchie caffè-latte, nell’iride destra e sinistra svariati noduli di Lish, oltra a un marcata riduzione della statura sconfinante in un nanismo ipofisari. Tratti tipici questi di una patologia ereditaria, che colpisce le cellule nervose e muco-cutanee con numerosi tumori benigni della pelle e del tessuto nervoso, e la cui prevalenza è stimata in un caso ogni 4.000-5.000 persone.

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L’arte non è nuova alla rappresentazione della scienza medica. Sono molti i casi di patologie, soprattutto dermatologiche, chiaramente riconoscibili nelle tele. Il Ghirlandaio, nel suo “Ritratto di vecchio e nipote”, traccia i segni di un rinofima, evidente malformazione del naso conseguenza ultima di una probabile acne rosacea. Frida Kahlo, invece, non disdegnava di esporre nei dipinti il suo famoso irsutismo, dato da una presenza abbondante di peluria sul viso, soprattutto tra le due sopracciglia e sopra il labbro superiore. Famosa è ancora la misteriosa dermatosi di Jean Paul Marat, rappresentato da Jacques-Louis David nella vasca dove passava gran parte delle sue giornate per lenire il prurito provocatogli da una malattia della pelle ancora oggi sconosciuta.

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L’arte, dunque, come osservatrice della realtà, è riuscita a tramandare patologie e segni della pelle di un’epoca altrimenti a noi sconosciuta. Tracce che, pur manipolate dall’estro creativo di artisti e pittori, hanno mantenuto la loro oggettività realistica.

Elisa Scarlingi

Vecchi farmaci per nuove patologie

Si chiama drug repurposing. Ed è la nuova frontiera della ricerca farmacologica. Una sorta di riciclo delle vecchie molecole messe in soffitta. Rispolverando, infatti, il vecchio arsenale di farmaci già disponibili, molti dei principi attivi potrebbero essere ricollocati per un diverso uso clinico. Con un enorme guadagno in fattore di tempo, in quanto gli effetti collaterali sono già noti, nonché di risparmio economico, visto che spesso la copertura brevettuale è già scaduta.

Enzymlogic ©
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Ciò sta accadendo per un vecchio farmaco impiegato per la cura della schizofrenia. Utilizzato attualmente solo su cavie affette da tumore al pancreas, i ricercatori della McGill University e del German Cancer Research Center ne hanno visto gli effetti nettamente positivi. Il farmaco, infatti, inibendo un recettore della dopamina, il gene DRD2, ha permesso ai modelli animali trattati di sviluppare tumori più piccoli e con un numero di metastasi inferiore. Nuove speranze, quindi, per la sperimentazione umana su pazienti affetti da tumore al pancreas, partendo proprio dall’uso di conoscenze e strumenti, come i farmaci inibitori della dopamina, già noti a partire dagli anni Sessanta.

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Sempre in campo oncologico, un grande successo nell’ambito del riciclo di vecchi farmaci si è avuto con il talidomide. Famoso negli anni Sessanta per i gravissimi effetti collaterali sui nascituri, oggi viene utilizzato con grande successo nella terapia contro il mieloma multiplo. Ma anche la comune aspirina può essere considerata un caso di drug repurposing, se solo si pensa ai risultati positivi nella prevenzione del carcinoma del colon.

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In un tempo come il nostro, nel quale le aziende farmaceutiche hanno progressivamente preferito gli antitumorali agli antibiotici (passando dai sedici nuovi brevetti del quinquennio 1983-1987 ai cinque del 2003-2007), il riciclo delle molecole già usate non può che essere uno strumento irrinunciabile. Soprattutto se si pensa all’allarme, lanciato recentemente, del proliferare di batteri resistenti ai medicinali. L’abuso dei pazienti e l’inappropriatezza nella somministrazione ne hanno certamente acuito la drammaticità. Ma la lungaggine nella sperimentazione di nuove molecole non aiuterebbe di certo la rapida risoluzione del problema. Il drug repurposing, invece, potrebbe rappresentare una valida opportunità alla lotta contro i superbatteri, oltre che permettere ai pazienti di avere sul mercato, e in brevissimo tempo, nuovi farmaci, economici e (per così dire) ecologici.

Elisa Scarlingi

Zero plastica, più latte

Plastica da imballaggio addio. In arrivo, entro tre anni, la pellicola ottenuta dalle proteine del latte (soprattutto caseina). Prodotto di ultimissima generazione, permetterà di eliminare tonnellate di rifiuti non biodegradabili, oltre a consentire una riduzione dell’ossigeno a contatto con i cibi di ben 500 volte rispetto agli attuali imballaggi.

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La notizia “green” arriva dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. Una prima linea di produzione partirà da una piccola azienda del Texas, ma molti si dicono già interessati a un imballaggio dalle doti altamente ecologiche: biodegradabile, commestibile e molto più efficace nella conservazione dei cibi rispetto alle pellicole “bio” finora ottenute dall’amido delle patate.

Quindi, per il futuro sarà possibile un consumo alimentare a impatto “zero”. Tutto potrà essere recuperato, e addirittura mangiato: attualmente non gradevole al sapore, con l’aggiunta di aromi, vitamine, probiotici e nutraceutici, la nuova pellicola derivata dal latte sarà commestibile, e potrà essere anche spruzzata sotto forma di spray per conservare cibi come i cereali in fiocchi o in barrette, così maggiormente impermeabili una volta immersi nel latte.

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Addio dunque alla spazzatura non biodegradabile. Secondo uno studio condotto in Europa da The European House Ambrosetti, nel solo 2011, sono stati generati 25 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica, di cui solo il 60% recuperato dalla filiera del riciclo. Una quota considerevole del totale, ben il 63%, è rappresentata dagli imballaggi. E nonostante dal 1998 la raccolta a recupero abbia avuto una crescita annua del 14%, ancora molto c’è da fare per la salvaguardia dell’ambiente. Soprattutto se si pensa all’obiettivo europeo di eliminare dalle discariche UE i rifiuti in plastica entro il 2020.

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Guardando all’Italia, dei 3,3 milioni di tonnellate di rifiuti urbani plastici prodotti, solo il 50,9% è stato destinato alla filiera del riciclo e del riutilizzo a fini energetici, mentre il restate 49,1% è stato stoccato in discarica. Molto è dovuto alla forte disomogeneità nella fase di raccolta: nel solo 2012, se al Nord si sono raccolti 19,3 kg di plastica per abitante, al Sud ci si è fermati a soli 8,9 kg. Ma molto è imputabile anche alla percezione negativa dell’opinione pubblica rispetto all’incenerimento della plastica per la produzione di energia. Per quanto riguarda, invece, la produzione nostrana di imballaggi, assestatasi nel 2014 a 14.589 tonnellate, il decremento della plastica (-2,6%) contrasta con l’aumento di altre tipologie di imballaggi, quali l’acciaio (3%), l’alluminio (6,8%) e i poliaccoppiati flessibili da converter (3,9%).

Che si stia già pensando a un cambiamento di rotta nella salvaguardia dell’ambiente? Lo speriamo. Intanto, l’obiettivo “plastica zero” sembra più vicino.

Elisa Scarlingi