Il tè verde aiuta a dimagrire

Che il tè verde sia noto per la sua attività antiossidante è risaputo, ma adesso sembra che abbia anche la capacità di bruciare i grassi, limitandone l’assorbimento soprattutto dopo aver fatto una dieta molto squilibrata. I ricercatori della Penn State University Park (USA) hanno scoperto che il tè verde ha la capicità di  ridurre l’assorbimento dei grassi, aumentandone il potere di bruciarli e rallentare così il possibile recupero o aumento di peso. Lo studio è stato condotto su un modello animale, mostrando come una delle sostanze contenute nel tè verde, nota con il nome di epigallocatechina-3-gallato (EGCG), sia in grado di agire sui grassi, senza modificare l’appetito. Durante lo studio, gli scienziate, hanno diviso in due gruppi i topi che poi sono stati nutriti con una dieta ricca di grassi, gli appartenenti al primo gruppo però è stata somministrata anche l’epigallocatechina-3-gallato-, mentre gli altri hanno fatto gruppo di confronto e controllo. I risultati hanno portato in evidenza che il primo gruppo ha guadagnato peso per il 45 % più lentamente dei topi del gruppo di controllo, ed inoltre i topi del primo gruppo hanno mostrato un aumento di lipidi nelle feci del 30 %, quindi una riduzione dell’assorbimento dei grassi da parte dell’organismo. Per ottenere questi stessi risultati su una persona bisognerebbe bere 10 tazze di tè al giorno, anche se i ricercatori affermano che con i dati in loro possesso, riferito alla controparte umana, già bevendo una o più tazze al giorno, si possono vedere degli effetti sul peso. Ovviamente il tè non è un rimedio alla cattiva alimentazione o la cura contro l’obesità, sta sempre alla nostra coscienza mangiare in modo corretto e fare la giusta attività fisica. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Obesity, coordinato dal dottor Joshua Lamber.

Ottimismo: favorisce l’obesità e la morte precoce

Molte sono le persone che sostengono che essere ottimisti renda la vita più lunga, ma è davvero così? Diversi studi condotti negli ultimi tempi hanno portato all’evidenza ottimismoche chi è più ottimista tende ad ingrassare di più e a morire prima. Quali sarebbero i motivi di questa evidenza?

Alcuni studiosi della University of Nottingham e della Curtin University hanno sostenuto che l’ottimismo potrebbe essere una delle cause dell’innalzamento del peso corporeo. Martin Hagger, curatore dello studio, sostiene che la personalità di ogni essere umano sia associata ad una interrelazione specifica tra geni ed ambiente.

Dei ricercatori della Doshisha University, in Giappone, hanno effettuato un esperimento su uomini e donne obesi sottoponendoli a un preciso programma di dimagrimento di circa sei mesi, associando alla dieta consulenze e attività fisica. Gli studiosi hanno riscontrato che proprio le persone ottimiste erano quelle che non diminuivano quasi per nulla di peso; costoro cercando sempre di guardare al positivo delle situazioni non dimostravano una gran voglia di prendersi cura di se stessi e erano più facili a cedere alle tentazioni rispetto a coloro che avevano una visione più negativa della vita.

Sono stati diversi gli studi ad esaminare le influenze della positività sulla vita degli individui ed uno di questi, effettuato dall’Università della California, ha mostrato come l’essere ottimisti induceva gli individui a vivere una vita più rischiosa, oltre che a non notare le difficoltà, così portando queste persone ad una morte precoce rispetto a molte altre. Il Dr. Howard S. dopo aver esaminato dati rilevati su più di 1.500 bambini, dai dieci anni in su, ha evidenziato che coloro che erano dotati di maggior senso dell’umorismo sin da piccoli vivevano di meno rispetto agli altri.

Ma ciò cosa vorrebbe dire? Che vivere una vita priva di ottimismo sarebbe meglio che viverla sorridendo? Apparentemente sarebbe così: gli individui positivi prendono più peso e hanno più difficoltà a perderlo, sono più incuranti del pericolo e muoiono prima.Questi studi però non hanno considerato la qualità della vita di queste persone che nonostante abbiano vissuto meno hanno vissuto comunque una vita intensa, a testa alta, senza farsi problemi sulla ricerca eccessiva della bellezza e della magrezza che al giorno d’oggi risulta una questione importante nella società che ha causato tanti malesseri gravi quanto l’obesità, se non di più. Forse è meglio vivere nell’ottimismo e morire prima, che sopravvivere nella paura e vivere qualche anno in più. Bisognerebbe trovare il giusto mezzo in ogni cosa e regolarsi, ma quanto male può davvero fare la felicità?

Quante specie esistono al mondo?

Già nei secoli a dietro l’uomo ha cercato di creare una classificazione tassonomica delle specie esistenti al mondo. Linneo, medico e naturalista svedese, provò già nel XVIII secolo a sviluppare una precisa tassonomia animalidella vita sulla terra elaborando la nomenclatura binomiale e certo non è stato l’unico nel corso del tempo. Oggi possiamo dire che esistono 8.700.000 specie calcolando una possibile variazione di 1.300.000 specie che siano in più o in meno. Il progetto che ha portato a questi risultati è stato curato dal Census of Marnine Life ed ha avuto luogo nel corso di dieci anni; il gruppo di ricercatori, appartenenti ad ottanta nazioni diverse, si era proposto di classificare e quantificare le diverse forme di vita marine. Il 25% delle specie esistenti vivono appunto negli oceani e sono circa 2,2 milioni.

Fino a non molto tempo fa il numero delle specie esistenti sulla terra risultava non ben individuabile e oscillava tra i 3 e i 100 milioni. Era molto difficile fare una stima, anche se approssimativa, più precisa.

Lo studio è stato pubblicato su Plos Biology  e guidato da Camilo Mora dell’Università delle Hawaii e Boris Worm della Dalhousie University di Halifax.

I ricercatori hanno trovato un modo per stabilire il numero di specie esistenti. Sarebbe possibile individuare questo  numero partendo dai gruppi più elevati del sistema di classificazione tassonomica che divide gli organismi viventi in modo gerarchico secondo una piramide individuando specie, genere, famiglie, ordine, classe, tipo, regno e dominio. Questo modello è stato utilizzato prima con i gruppi di specie già studiati in modo specifico ed esaustivo quali mammiferi, pesci ed uccelli.

Esisterebbero, applicando il modello sopra-evidenziato  ai cinque regni degli organismi eucarioti, 7.770 mila specie di animali, 298.000 specie di piante, 611.000 specie di funghi, 36.400 specie di protozoi e 27.500 specie di Chromista. Nonostante diverse di queste specie siano state studiate molte altre rimangono ancora sconosciute, l’86% delle specie viventi approssimativamente. Esempio lampante sono le specie marine, sono state stimate in numero di 2,2 milioni ma la nostra conoscenza è pari all’11% di queste, circa 250.000 sono le specie conosciute.
Quante specie popolano il nostro pianeta?  E soprattutto perché questo interrogativo risulta così fondamentale? Worm, curatore dello studio, commenta così: “Conoscere il numero delle specie che vivono sulla Terra è oggi più importante che mai, dal momento che numerose attività umane stanno accelerando notevolmente i tempi di estinzione e noi potremmo trovarci a perdere numerose specie prima ancora di sapere della loro esistenza e del loro potenziale contributo al miglioramento e al benessere umano”.

Un alto livello di stress induce ad assumere comportamenti estremi

Molte donne oggi sono sempre più stressate e riescono difficilmente a smaltirlo, spesso si rifugiano in scelte rischiose con la speranza di trovare una scorciatoia per sfuggire al peso delle regole naturali e sociali. Ne possono essere un esempio i bravi ragazzi che rompono la quotidianità e la noia, bevendo e correndo instress auto, che fumano e si drogano, quelli che mangiano bulimicamente, chi si lancia appeso da un corda da altezze impossibili, chi va in cerca di sesso a pagamento, chi non mangia per risparmiare e dedicarsi al gioco d’azzardo, e chi va di proposito in luoghi pericolosi.

Tutte queste persone hanno in comune uno stato psicologico che li allontana dalla prudenza e li rende disponibili all’ignoto. Alcuni pensano che si tratti di ingenuità e accondiscendenza, ma la psicologia insegna che la mente normale non si presta facilmente a queste cose. La causa fondamentale di queste scelte imprudenti risiederebbe nello stress a cui è sottoposta una persona; lo stress, oltre una soglia di sopportabilità personale, indurrebbe a rischiare senza avere paura. Lo stress è sempre in agguato contro tutti  e spesso cresce all’interno della mente con le sole aspettative, ansie, insoddisfazioni o divertimenti; pertanto non sempre dipende dalla fatica vera e propria.

Bisogna quindi fare attenzione alle tensioni interne stressanti, come novità, spostamento dei pasti, sonno, orari, progetti, e notare da soli o con l’aiuto di uno psicologo se queste tensioni spingono verso scelte strane ed inusuali. A sostegno di ciò , basta pensare anche ai soli fatti di cronaca, dove gente ricca o professionisti validi sul piano professionale, culturale e sociale, sottoposti ad uno stress molto elevato, assumo comportamenti estremi diventando insensibili al controllo e alle leggi. Quindi per il nostro bene, sarebbe meglio non abbassare la guardia sulla stanchezza che il nostro corpo e la nostra mente possono sentire, facendo un ricorso preventivo verso l’orientamento psicologico al fine di evitare effetti spiacevoli e prevenire incidenti irreparabili.

Le perdita di memoria a breve termine prodromo dell’Alzheimer

È stato pubblicato su Archives of General Psychiatry uno studio che suppone esista una correlazione tra i casi di perdita di memoria a breve termine e la malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno ipotizzato alzheimerche la perdita di memoria a breve termine possa essere un prodromo dell’Alzheimer.

Per questo studio, condotto dal Centro de Investigation Biomedica en Red de Salud Mental di Barcellona, sono stati inserite 517 persone nella sperimentazione. L’esperimento è stato realizzato per stimare in quale modo la perdita della memoria potesse predire lo sviluppo o la progressione del declino cognitivo dovuto a demenza degenerativa primaria.

I soggetti erano divisi a seconda della gravità o dell’insorgenza della malattia di Alzheimer: 116 soffrivano di una perdita cognitiva lieve (MCI-Mild Cognitive Impairment) ma loro fu diagnosticato l’Alzheimer entro due anni; 204 erano affetti da decadimento cognitivo lieve ma non avevano sviluppato la malattia mentre altri 197 non avevano alcun tipo di problema a livello cognitivo.

Il gruppo sperimentale è stato sottoposto a diverse serie di esami e test, tra cui anche test biomaker, che poi sono state valutate dai ricercatori che hanno evidenziato che i marcatori cognitivi erano in grado di prevedere la variazione nell’insorgere o meno della malattia. Ai biomarcatori cognitivi è dovuta il cinquanta per cento della varianza.

La situazione di perdita di memoria, dovuta ad una live alterazione cognitiva all’inizio dello studio, è risultato un fattore predittivo e molto più marcato dell’Alzheimer rispetto al resto dei biomarcatori; questo è stato concluso dai ricercatori.

Sarebbe quindi doveroso prendere in considerazione e con maggiore accuratezza quella che sembrerebbe una semplice perdita di memoria poiché potrebbe portare poi allo sviluppo della forma più comune di demenza degenerativa invalidante ad esordio prevalentemente senile.

 

Il mistero delle impronte digitali racchiuso in una parte di DNA

Uno studio pubblicato sull’American Journal of Human Genetics potrebbe portare a risultati inaspettati. È stato infatti individuato dal gruppo di ricerca diretto da Eli Sprecher della Tel Aviv dnaUniversity il gene che definisce la formazione e l’esistenza delle impronte digitali. Le impronte digitali sono ciò che ci rende in un certo qual modo riconoscibili e “visibili” al resto del mondo. Sarebbe quindi teoricamente possibile bloccare questo tratto di Dna e diventare irriconoscibili quantomeno ai controlli della polizia o degli addetti alla sicurezza negli aeroporti.

La scoperta dell’esistenza di questo tratto di Dna è dovuta al caso, per serendipità, poiché nel 2007 una donna svizzera risultò non possedere impronte digitali una volta in procinto di atterrare negli Stati Uniti. La polizia rimase alquanto basita e la comunità medica in seguito a questo avvenimento si mobilitò ricercando le origini e motivazione di questa bizzarria. Le ricerche portarono a scoprire l’esistenza della adermatoglifia che porta l’assenza sia di impronte digitali, sia l’inesistenza delle creste e dei solchi, anche detti dermatoglifi, sui palmi delle mani, sulle piante dei piedi e sulle dita dei piedi. I casi di adermaroglifia documentati sono molto pochi, infatti sono solo quattro le famiglie che ne sono affette  conosciute; queste persone hanno anche una quantità minore di ghiandole sudoripare senza però avere alcun effetto sulla salute.

I ricercatori non sono a conoscenza degli svariati fattori che controllerebbero lo sviluppo delle impronte digitali ma sappiamo che si formano entro le 24 settimane successive alla fecondazione. Sprecher ed il suo gruppo per scoprire le componenti che guidano lo sviluppo delle impronte hanno portato avanti un’analisi genetica accurata sui membri di una famiglia svizzara che aveva nove componenti senza impronte. I ricercatori hanno confrontato i differenti profili genetici e hanno ritrovato che le persone affette da adermatoglifia avevano, all’interno del Dna delle cellule dermatologiche, un numero inferiore di copie del gene SMARCAD1.

È stato scoperto che questo gene può essere presente in forme leggermente diverse e che queste si manifestato in diverse parti del corpo. Secondo lo studio la forma di SMARCAD1 attiva nella pelle regolerebbe la formazione delle impronte digitali nello sviluppo del feto.

Logicamente la ricerca continuerà così da permettere la comprensione di come sia possibile la formazione delle impronte.

Le piume e la loro evoluzione: ritrovati dei fossili nell’ambra

Sono state ritrovate, in Canada, a Grassy Lake dei fossili di ambra che celano diverse piume risalenti a 70-85 milioni di anni fa; in questa ambra risultano conservati anche i pigmenti delle piume che risultano quindi colorate. I ricercatori dell’Università di Alberta hanno ambradefinito questi fossili “un’istantanea a colori della vita nel Tardo Cretaceo” periodo in cui il nostro pianeta era popolato solo da dinosauri col pelo ed da primissimi uccelli. Il ritrovamento di queste ambre ha portato a pensare che i dinosauri di quel tempo fossero molto più ricchi di colore di quanto si sia mai pensato, si pensa ci fossero diverse gradazione del marrone passando dai toni più chiari a quelli meno chiari.

Le proto-piume ritrovate sono incastonate in ben undici pezzi di ambra; sono frammenti molto piccoli con una lunghezza che varia dai due agli otto millimetri, ma il tutto è conservato perfettamente. Questi fossili sembrano ripercorrere l’evoluzione ed i vari passaggi delle piume. I ricercatori, guidati da Ryan Mc Kellar, sostengono che alcune delle piume ritrovate siano appartenute a dei dinosauri mentre altre a dei proto-uccelli che avevano un piumaggio simile a quello degli uccelli attuali. Alcune parti di piume di entrambi gli animali si sarebbero conservate grazie alla resina caduta dagli alberi che l’avrebbe intrappolate. La resina una volta fossilizzatasi avrebbe fatto sì che le piume si mantenessero intatte come sono state poi ritrovate.

“I fossili mostrano una grande varietà morfologica, da piume primitive a moderne, e ci hanno permesso di individuare quattro distinte tappe dell’evoluzione. Le più semplici comprendono proto-piume a filamento singolo, mentre le più sviluppate ricordano quelle degli uccelli acquatici odierni”, questo il commento dei ricercatori. Le proto-piume di questi animali ormai estinti sarebbero stati dei filamenti molto esili che possono somigliare ai peli di altri animali ma prive di squame e molto più sottili. È cosa non improbabile che queste proto-piume fossero disposte come una pelliccia sugli animali mentre su altri come ciocche che servivano a mantenere il corpo dei dinosauri più caldi aumentando la temperatura. La colorazione delle piume, come già detto, varia dal marrone chiaro a quello scuro così supportando l’ipotesi già avanzata in seguito al ritrovamento di altri fossili in Cina.

Il piumaggio dei primi uccelli ricordano, invece, quello degli uccelli che vivono ancora nei nostri tempi. Molte di queste piume si sarebbero sviluppate per favorire il volo di questi animali e ciò consolida l’ipotesi che stabilisce la capacità di volare per gli animali ancor prima di 80 milioni di anni or sono. Alcune piume, a dispetto di altre, sono ricurve su se stesse e ciò poteva essere utili per assorbire e ritenere l’acqua. Gli attuali uccelli appartenenti all’ordine dei Podicipediformes  posseggono piume simile a quelle appena descritte che favoriscono la loro immersione in acqua e potrebbero essere un’evoluzione di quel piumaggio dalla forma arrotolata.

Da questi rinvenimenti sarebbe chiara la presenza sulla terra sia di animali con piume primitive sia con piume più avanzate nello stesso momento. Questa ipotesi era già stata proposta tempo fa ma è solo grazie a questi rinvenimenti e alle capacità conservative della resina e dell’ambra che si ha una prova tangibile, la prima.