Cellule staminali contro le malattie respiratorie

Finalmente una possibile soluzione alle malattie respiratorie che danneggiano i polmoni, le cellule staminali. Grazie a degli studi effettuati sui topi infettati con una variante del virus H1N1, si è scoperto come le cellule abbiano rapidamente ricostruito il tessuto degli alveoli. Le cellule staminali, infatti, si moltiplicano rapidamente, creando centinaia di volte il loro numero originale entro una settimana, e riparano i tessuti danneggiati rigenerandoli. Il dottor McKeon ha isolato cellule simili a quelle che si trovano nel tessuto polmonare umano e ha scoperto che sono in grado di comportarsi nella stessa maniera: “questi studi” afferma “possono rappresentare una speranza per il trattamento di malattie respiratorie, ora è necessario arrivare all’identificazione delle molecole chiave del meccanismo che permette alle cellule di moltiplicarsi velocemente e di migrare ad altri parti danneggiate”. Ciò significa che, se dovesse funzionare velocemente anche negli esseri umani, in futuro si potrebbero guarire persone con danni polmonari acuti e cronici; le staminali, infatti,  sarebbero in grado di porre rimedio ai danni prodotti su tutte le componenti dell’organo, ovvero i bronchioli, i vasi sanguigni e gli alveoli. Un ricercatore italiano, Piero Anversa, ha dimostrato come, sempre grazie alle cellule staminali, ricavate però dal midollo osseo, è possibile riparare il cuore tramite la generazione di tessuto miocardico e di nuovi vasi sanguigno; i ricercatori, in pratica, hanno ricavato le cellule da alcuni campioni di tessuto umano sottoposto a test in vitro, per poi trapiantarle nei topi da laboratorio. Come risultato le cellule si sono integrate al tessuto polmonare degli animali malati, rigenerandolo e riparandolo. Ciò che distingue infatti le staminali da quelle normali è proprio la capacità di moltiplicarsi velocemente, generando tessuto in vari elementi. A questo punto non resta che procedere con una sperimentazione umana che potrebbero portare alla scoperta di nuove possibilità terapeutiche per le varie malattie respiratorie croniche che affliggono milioni di persone.

Le persone obese hanno più rischio di prendere l’influenza

Gli studi di alcuni scienziati  dell’University of North Caroline (USA) hanno dimostrato come, le persone in sovrappeso o obese, hanno più probabilità rispetto alle altre di sviluppare forme influenzali. Il sistema immunitario, infatti, pare che lavori meno bene a causa dei chili di troppo, il che rende l’organismo più vulnerabile ai virus. Conclusioni ottenute grazie all’arrivo dell’influenza A (virus H1N1) nel 2009; i ricercatori osservarono che, le persone obese, erano quelle maggiormente colpite dall’influenza, ma per poterne studiare e capire meglio lo sviluppo della malattia, somministrarono il vaccino anti-influenzare a tre tipi di pazienti: obesi, sovrappeso, e in peso forma. Dopo alcuni mesi i soggetti sono stati sottoposti ad un controllo di anticorpi per monitorarne lo sviluppo dopo il contatto con il virus, e ad un controllo del sistema immunitario, più in particolare la capacità delle cellule T, fondamentali per la risposta immunitaria, di rpodurre gli interferoni che sono proteine in grado di tenere sotto controllo le infezioni causate da agenti esterni all’organismo. Comparando i risultati ottenuti, i ricercatori, sono giunti alla conclusione che, col passare del tempo, i livelli di anticorpi sviluppati con la vaccinazione calano molto più rapidamente nei pazienti obesi o sovrappeso rispetto a quelli in peso forma. Soprattutto, ad undici mesi di distanza dalla somministrazione del vaccino, in oltre la metà dei pazienti obesi, la quantità di anticorpi presenti nell’organismo era quattro volte inferiore rispetto a quella registrata nel primo mese; e soltanto il sistema immunitario del venticinque per cento di queste persone produceva interferoni capaci di bloccare il virus. Questo vorrebbe dire che, se i livelli di anticorpi non vengono mantenuti nel tempo e la funzionalità delle cellule T è compromessa, il sistema immunitario non può fare altro che limitare i danni e la gravità della malattia, cercando di farla progredire più lentamente possibile.

Il virus killer Rotavirus può essere fermato

Si chiama Rotavirus il responsabile della morte di 453.000 bambini sotto i cinque anni. Si tratta di un virus che attacca l’apparato gastrointestinale, provocando diarrea e, di conseguenza, disidratazione che, se perotavirusr i paesi occidentali può sembrare una piccola infezione curabile, può risultare fatale in paesi come il Congo, l’Etiopia, l’India, la Nigeria e il Pakistan, dove le condizione igienico sanitarie sono precarie.

La docente Elisabetta Franco, ordinario di Igiene dell’Università di Roma Tor Vergata, spiega: “Il rotavirus aderisce all’apparato gastrointestinale, infetta la superficie delle cellule dei villi nell’intestino tenue e successivamente si diffonde lungo l’intero intestino, la diarrea è la conseguenza della perdita di superficie di assorbimento e del flusso di acqua e di elettroliti nella zona danneggiata.

Il danno è reversibile, ma la diarrea non si arresta fino alla rigenerazione dei villi”. Fattori che rendono la disidratazione, altamente pericolosa in un organismo piccolo: “la percentuale di acqua nel bambino è molto più alta e in poche ore si può disidratare andando incontro a gravi complicanze”, aggiunge la Franco. Il virus è molto contagioso e può sopravvivere a lungo nell’ambiente e su 3,6 milioni di episodi da rotavirus, 87mila bambini devono essere ricoverati e 231 muoiono.

“Attualmente sono due i vaccini a nostra disposizione, da somministrare in due o tre dosi a seconda del vaccino”, spiega ancora Franco. “A differenze degli altri che sono iniettivi, questi vaccini si assumono per via orale. Il loro profilo di sicurezza è alto e nei trial hanno dimostrato un’efficacia di oltre il 90% contro i casi più gravi di gastroenterite da rotavirus”. Il vaccino, però, è stato adottato ed è disponibile per la maggior parte nelle zone  industrializzate, come sottolinea l’articolo su Lancet Infectious Diseases, mentre le campagne vaccinali sono ancora poco presenti nei paesi in via di sviluppo.

Il ritorno all’ora legale può portare insonnia

L’ora legale porta con sé insonnia e panico! Sì perché il passaggio all’ora legale è come se fosse una centrifuga per il nostro orologio biologico, che impazzisce come i pc con il millennium bug  e provoca una serie di disturbi del sonno, con la quale nervosismo, cattivo umore, mal di testa, dolori articolari, cervicali e muscolari vanno a nozze. Il consiglio degli esperti è quello di non costringersi a dormire con l’aiuto di farmaci, o affogando il sonno nell’alcool perché, con aiuti esterni, si rischierebbe di finire in una lotta ansia-sonno-paura dell’insonnia che non farà altro che peggiorare la situazione. Una cosa sana da fare è cercare rilassarsi prima di andare a letto, assumendo una postura corretta e respirando profondamente, perché la respirazione aiuta moltissimo il fisico e la mente. Una postura contratta e respiro corto, infatti, possono essere motivo di stati d’animo agitati e tutt’altro che rilassati che non faranno latro che peggiorare l’insonnia. La dott.ssa Paola Vinciguerra, presidente dell’Eurodap, ha affermato: “Per persone che presentano problemi psico-fisici o che già soffrono di ansia o depressione, il cambiamento di orario può acutizzare i disturbi, ma superato l’adattamento potranno godere dei benefici della stimolazione della luce. Ci sentiremo più attivi e ci sarà una risposta di vitalità perché, riportare indietro gli orologi di un’ora, fa sì che faccia giorno ancor prima che la maggior parte delle persone si sveglino per dare inizio alla loro giornata”. L’ora legale, però, non fa male solo alla salute, anzi provoca numerosi sprechi di energia e aumenta l’inquinamento. Gli studi del Dottor Mayer Hillman, Senior Fellow Emeritus del Policy Studies Institute (PSI), dimostrano infatti come, riportare gli orologi indietro di un’ora quando sta per iniziare l’inverno, sia dannoso per l’ambiente e che porre fine a questa pratica nelle aree più a nord del pianeta comporterebbe notevoli benefici.

L’aspirina in aiuto contro il cancro

Che l’aspirina fosse uno dei farmaci più efficaci lo sapevamo già, anche in aiuto delle prevenzione contro l’infarto e l’ictus, ma questo farmaco non smette di regalarci sorprese risultando sempre più utili a molteplici scopi. Sembra, sia stato dimostrato che l’aspirina sia in grado di ridurre la possibilità di sviluppare il cancro, tale ipotesi era da tempo nell’aria ma ora grazie ad uno studio pubblicato su Lancet firmato dal team dei ricercatori della London School of Hygiene & Tropical Medicine, sembra essere diventata una realtà provata. Secondo Peter Rothwell del John Radcliffe Hospital, 75 milligrammi al giorno del farmaco sarebbero in grado di proteggere dall’insorgenza di diverse neoplasie , tra cui quella all’esofago, al polmone, allo stomaco, al pancreas e al cervello, in una percentuale compresa tra il 20 e il 30%. I benefici ottenuti risultano essere collegati ad una dose ben precisa del farmaco che deve assunto per almeno 5 anni. Sempre gli stessi ricercatori due mesi prima avevo pubblicato su Lancet uno studio che dimostrava come l’aspirina riusciva a ridurre il rischio del tumore al colon,  su un campione di 14000 persone. La ricerca durata 18 anni ha dimostrato come chi avesse assunto una piccola dose giornaliera di aspirina aveva diminuito del 24% il rischio di sviluppare il cancro al colon e il 35% di morire a causa del tumore.“In chi prende aspirina per 5-10 anni i risultati sono molto chiari – precisa Patrick Morrison della Queen’s University di Belfast (Irlanda), coautore dello studio -. Ora vogliamo determinare il dosaggio più efficace per la prevenzione dei tumori ereditari”.Questa nuova scoperta non deve comunque indurre ad usare di più l’aspirina in quanto è un medicinale che contiene numerose controindicazioni, spesso mortali, quindi si consiglia l’utilizzo sempre e solo sotto controllo medico

La musicoterapia può combattere la depressione

La depressione può essere combattuta con la musica. E’ quanto viene affermato da una ricerca dell’Università di Jyvaskyla, in Finlandia, pubblicata sul British Journal of Psychiatry. Sotto il coordinamento di Jaakko Erkkila, i ricercatori hanno esaminato 79 soggetti tra i 18 ed i 50 anni affetti da depressione. Di questi, 33 hanno seguito le terapie tradizionali affiancandole alla musicoterapia nel corso del quale hanno preso delle lezioni per imparare a suonare vari strumenti musicali. Dopo tre mesi, i ricercatori hanno scoperto che la persone sottoposte a musicoterapia mostravano minori segni depressivi. “Abbiamo scoperto che attraverso la musdica le persone spesso riescono a esprimere i propri sentimenti. Alcuni pazienti hanno descritto questa esperienza come un ‘gioco catartico’”, riferiscono i ricercatori. Ma a quanto pare la musica fa bene anche solo ascoltandola, questo è quello di cui sono convinti gli studiosi della Caledonian University di Glasgow in Scozia, che hanno deciso di selezionare delle canzoni che verranno impiegate nella musicoterapia nei prossimi tre anni. Come anticipazione, sono stata segnalati gli effetti benefici di brani classici della musica pop come What a wonderful world di Louis Armstrong e Comfortably Numb dei Pink Floys, mentre sembra siano da evitare alcune canzone degli Oasis e Everbody hurts dei Rem. “L’impatto di un brano musicale su una persona va oltre quello che si pensa, tanto che un tempo veloce può risollevare l’umore mentre uno lento buttarlo giù”. Afferma Don Knox, coordinatore della ricerca. Ma non è la prima volta che si nota come la musica riesca a combattere la depressione, già in un vecchio studio della Cochrane Library si erano evidenziati i benifici del trattamento nelle persone depresse. I ricercatori del Central adn Northwest London Foundation NHS Trust di Londra, guida da Anna Maratos, hanno riesaminato cinque studi passati, che sottolineavano ed evidenziavano i benefici della musica come terapia. “I risultati dei pochi studi disponibili sulla musicoterapia ci suggeriscono di investire in ulteriori ricerche. Se poi la sua efficacia fosse confermata da nuovi studi, occorrerà stabilire quali modalità di cura possono dare maggiori effetti. Attualmente i risultati degli studi indicano che la musicoterapia migliora l’umore ed è seguita volentieri dai pazienti. Occorrono però ulteriori ricerche per poter dire con certezza che questa terapia è efficace”, ha spiegato Anna Maratos.

Anche gli insetti hanno atteggiamenti cavallereschi

Molti sapranno che in tante specie d’insetti, dopo l’accoppiamento, il maschio resta a lungo con la femmina, condividendone la tana; si è sempre pensato che i maschi restassero con la femmina per impedirecoccinella l’accoppiamento con altri esemplari, controllandola con comportamenti aggressivi. Ma secondo una nuova ricerca condotta dai ricercatori dell’Università di Exeter, in realtà questo comportamento è dovuto ad un gesto di cavalleria.

Dopo oltre 200.000 ore di riprese a raggi infrarossi, per tre stagioni riproduttive, i ricercatori hanno potuto confermare nei Grilli il comportamento aggressivo verso altri maschi concorrenti, ma non hanno individuato nei maschi alcun comportamento aggressivo o di limitazione nei confronti delle loro compagne. Hanno, invece, scoperto che il maschio rischia addirittura la propria vita per proteggere la femmina , ponendosi avanti di fronte all’attacco di predatori per far fuggire prima la compagna dalla tana. 

“Le relazioni tra grilli sono piuttosto diverse da quelle che avevamo assunto tutti. Invece di essere vittima di bullismo dai loro compagni, sembra che le femmine vengano in realtà protette. Potremmo anche descrivere i maschi come ‘cavallereschi’ “, ha detto Rolando Rodriguez-Muñoz, che con i colleghi firma un articolo su Current Biology . “Maschi e femmine da soli hanno un tasso di predazione simile, ma quando sono in coppia, i maschi vengono uccisi molto più frequentemente mentre le femmine riescono quasi sempre a sopravvivere agli attacchi dei predatori.”

Per dar vita alla ricerca, i ricercatori hanno incollato sul dorso degli insetti delle targhette identificative, mentre per ogni esemplare è stato prelevato un minimo campione di tessuto da una zampa in modo da poter stabilire la firma genetica. Così è stato possibile controllare minuziosamente la vita ed i comportamenti, inclusi i tempi di accoppiamento, il numero di partner ed il tempo che trascorrevano insieme, la frequenza delle lotte quando un altro maschio si avvicinava alla tana già occupata da un altro maschio. Una ricerca che sottolinea come non tutti i comportamenti apparentemente aggressivi degli insetti nei confronti delle femmine, sia segno di cattiveria e di sottomissione.