Celiachia: un’analisi del sangue per la diagnosi precoce

celiachiaI ricercatori dell’Istituto Gaslini di Genova, grazie alla collaborazione con l’Università di Verona, hanno sperimentato un nuovo test che permetterebbe di capire se una persona potrà essere affetta, in futuro, da celiachia, la malattia infiammatoria cronica dell’intestino tenue che porta ad essere intolleranti al glutine.

L’esame in questione si basa sulle classiche analisi del sangue, per analizzare la presenza degli anticorpi contro la proteina VP7 del rotavirus, il microbo in grado di generare la patologia.

Questo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Immunologic Research, ha tenuto sotto controllo per anni oltre 300 bambini  geneticamente disposti alla celiachia, di cui il 10%, nel corso del follow up, ha sviluppato la mattia. Durante la ricerca, è stato possibile scoprire che nei bambini, gli anticorpi in questione possono comparire anche ben 10 anni prima.

Il professor  Antonio Puccetti, che ha preso parte al test, ha spiegato: “Con una semplice analisi del sangue è oggi possibile prevedere l’insorgenza della malattia celiaca nei soggetti geneticamente predisposti con largo anticipo rispetto ai test diagnostici convenzionali”.

E Lorenzo Moretta,  direttore scientifico del Gaslini, ha aggiunto: “La diagnosi di celiachia oggi disponibile si basa sulla presenza nel sangue di particolari anticorpi diretti contro un enzima (Transglutaminasi) che agisce sul glutine, e su una biopsia eseguita con gastroscopia. Il nostro studio rappresenta quindi un importante passo avanti per una diagnosi precoce di celiachia e può essere particolarmente utile in caso di celiachia con sintomatologia atipica extraintestinale o nei casi di celiachia silente. Ricordiamo che la celiachia è una patologia subdola, che può portare danni notevoli ad un organismo in accrescimento, pertanto una diagnosi precoce è di particolare rilevanza”.

Davide Basili
18 maggio 2013

Male al fegato? Potrebbe essere colpa del cadmio

cadmio
Cadmio (Wikipedia)

Secondo uno studio condotto dai ricercatori americani della Johns Hopkins University School of Medicine, a Baltimora, coloro che hanno un livello di cadmio troppo elevato nell’organismo soffrono di male al fegato. Il cadmio, metallo utilizzato a livello industriale per diversi prodotti che l’uomo consuma giornalmente, tra cui pile e materiali plastici, è anche contenuto nelle sigarette, per cui i fumatori devono stare all’erta e tenere sotto controllo il livello della sostanza.

Gli studiosi, guidati da Omar Hyder, hanno condotto una ricerca su oltre 12mila partecipanti ad un grande sondaggio americano sulla salute dei cittadini, il  National Health and Nutrition Examination Survey, incrociando i livelli di cadmio presenti nelle urine con gli esiti emersi dagli ultrasuoni utilizzati per diagnosticare le più comuni malattie del fegato.

Dai dati emersi è evidente che il rischio di morte per coloro che hanno un alto tasso di cadmio nell’organismo è di 3,5 volte superiore rispetto a chi ha invece un tasso inferiore. Vi è dunque la necessità di approfondire l’argomento, visto che, come sottolinea il dottor Hyer: “Conosciamo già i rischi per la salute dei metalli pesanti come il piombo e il mercurio, ma non sappiamo molto di quello che il cadmio fa al corpo”.

Al momento, quello che si sa con certezza è che tra le possibili malattie causate dalla sostanza ve ne sono due caratterizzate dai depositi di grasso nel fegato che, ostacolando il normale funzionamento di filtraggio delle tossine del sangue, causano problemi sia nella digestione che nella produzione di ormoni. Si tratta della steatosi epatica non alcolica e della steatoepatite non alcolica.

A quanto è emerso dallo studio, sembra che gli uomini siano più colpiti delle donne, in quanto queste, specialmente durante la menopausa, sono per così dire protette da alcuni ormoni che permettono una maggiore distribuzione del cadmio in tutto il corpo, riuscendo così ad alleggerirne la concentrazione nell’organo.

Davide Basili
14 maggio 2013

Allarme CO2 nell’atmosfera: il WWF lancia un appello

co-2-allarme-wwfLa misurazione effettuata dagli scienziati del Mauna Loa Observatory, nelle Hawaii, parla chiaro: il livello di anidride carbonica (CO2) presente in atmosfera è arrivato a segnare 399,50 ppm (parti per milione). Un numero altissimo, se si considera che una tale concentrazione non è mai stata raggiunta in 800mila anni e che, 55 anni fa, nel 1958, la misurazione segnava appena 316 ppm.

A dare l’allarme il WWF, che ha lanciato un appello disperato per tutelare il riscaldamento globale, in quanto la situazione è davvero preoccupante: se il livello di  CO2 aumentasse ancora, assisteremo a veri e propri scenari apocalittici. Non solo avremmo temperature altissime, ma queste si alternerebbero a tempeste, inondazioni e lunghi periodi di siccità.

Come infatti ha dichiarato la responsabile Clima e Energia WWF Italia, Mariagrazia Midulla: “A livello globale le comunità e i governi già faticano a rispondere alla siccità, ai cattivi raccolti e agli eventi meteorologici estremi, anche nei paesi ricchi come gli Stati Uniti. Se i livelli di CO2 continueranno ad aumentare sarà sempre più arduo adattarsi ai cambiamenti climatici”.

Secondo gli scienziati le cause di questa terribile realtà sono da attribuire solo ed unicamente all’uomo, che usa in modo esagerato i combustibili fossili, a cominciare dal gas naturale, dal carbone ed il petrolio, che sono necessari per scaldare le case, per cucinare e per far funzionare i mezzi di trasporto e gli impianti industriali.

Ralph Keeling, dello Scripps Institute, l’istituzione americana che gestisce l’osservatorio hawaiano, ha commentato: “Speravo non fosse vero, ma sembra chiaro che entro maggio si supererà la soglia di 400 ppm. Questa è una pietra miliare che ci ricorda la necessità di diminuire le emissioni in atmosfera”.

L’unica soluzione possibile è quella di arrivare ad una svolta globale, iniziando ad utilizzare le energie rinnovabili e pulite. Così facendo, come ha spiegato la Midulla: “Saremo in grado di ridurre drasticamente le emissioni di CO2 e, infine, stabilizzare e ridurne la concentrazione. I costi dell’elettricità da fonti rinnovabili sono scesi drasticamente e, dal 2011, sono competitivi con i combustibili fossili. L’energia rinnovabile può diventare “la nuova normalità”.

Davide Basili
5 aprile 2013

Autismo: il nuovo test ha una precisione del 94%

autismoIl team di ricercatori canadesi della Case Western Reserve University School of Medicine e dell’Università di Toronto sono riusciti in un’impresa che sembrava quasi impossibile: individuare l’autismo con una precisione che supera il 90%.

L’equipe di ricercatori e neuroscienziati è riuscita a studiare un nuovo metodo efficace in grado di analizzare l’attività cerebrale per mezzo della magnetoencefalografia (MEG), uno strumento che registra e studia il modo in cui il cervello comunica da una regione all’altra. Così facendo, è possibile misurare i campi magnetici che si vengono a creare dalle varie correnti elettriche dei neuroni, verificando quindi la connettività funzionale del cervello stesso.

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica on-line PLoS One, è partito da una semplice riflessione, come spiegato da Roberto Fernandez Galan, elettrofisiologista e professore di neuroscienze presso la Case Western Reserve: “Ci siamo posti la domanda: “Si può distinguere un cervello autistico da un cervello non autistico semplicemente osservando gli schemi di attività neurale?” E, in effetti, è possibile. Questa scoperta apre la porta a strumenti quantitativi che completano gli strumenti di diagnostica esistenti per l’autismo, basati su test comportamentali”.

I test hanno coinvolto 19 bambini, di cui 9 con ASD,  un disturbo dello spettro autistico. Monitorando l’attività della corteccia celebrale di ognuno di loro per mezzo di 141 sensori, gli scienziati hanno monitorato le interazioni del cervello, mettendo i risultati a confronto.

I risultati hanno ottenuto un ottimo successo, riuscendo ad individuare i casi dei bambini malati con una precisione del 94%.

Questo tipo di analisi ha anche permesso ai medici di misurare l’input spontaneo che guida l’attività del cervello a riposo, e di scoprire alcune interessanti connessioni tra le aree frontali e quelle posteriori del cervello dei soggetti affetti da ASD.

Davide Basili
24 aprile 2013

Identificato legame tra calvizie e cardiopatia coronarica

cardiopatia-coronaricaAllarme per chi soffre di calvizia: questo è quanto emerge da uno studio che ha messo in relazione la perdita di capelli per alopecia e la cardiopatia coronarica, condotto dall’Università di Tokyo e pubblicato sul Brithish Medical Journal.

Già in passato si era cercato di dimostrare il nesso tra questi due elementi, ma le ricerche si erano limitate a dimostrare come la perdita di capelli non era collegabile né all’età, né alla genetica.

Dai dati analizzati dagli scienziati sembra che la calvizia anticipi il rischio di infarto, e per questo deve essere visto come un elemento da non prendere sottogamba e da curare subito, fin dalla giovane età, visto che, com’è noto, il diradamento dei capelli inizia anche prima dei 30 anni.

La ricerca ha isolato tutti gli altri fattori che possono provocare l’infarto, come ad esempio l’obesità, l’ipertensione, il colesterolo, il fumo o precedenti casi della malattia in famiglia, e sono stati presi in considerazione solo le persone che avevano problemi di perdita di capelli. Queste, hanno un rischio maggiore del 32% rispetto a chi, invece, ha la fortuna di avere molti capelli.

Tomohide Yamada, autore dello studio, ha spiegato: “Abbiamo trovato un legame significativo, benché modesto, tra la calvizie e la cardiopatia coronarica. Al momento però non ci sono abbastanza prove su una relazione di causa effetto tra calvizie e problemi al cuore e sono quindi necessari ulteriori approfondimenti scientifici”.

Sia Yamada, che la British Heart Foundation, hanno consigliato ai giovani che iniziano ad avere un diradamento sulla loro testa di migliorare il loro stile di vita, in modo da prendersi cura della salute del cuore, decisamente più a rischio di quello dei “capelloni”.

Davide Basili
5 aprile 2013

Salute: dormire troppo (o troppo poco) nuoce all’organismo

dormire

Con l’arrivo dell’ora legale, qualcuno si sentirà scombussolato per via del fatto che, da ora fino ad ottobre, dovrà dormire un’ora in meno. Per questo è importante sottolineare l’importanza di una dormita standard, che non sia né troppo lunga, né troppo corta, in quanto la qualità del sonno influisce sul funzionamento del nostro organismo, andando a modificarne alcuni geni.

Come già era risaputo da una precedente analisi condotta sempre nel Regno Unito, dalla Coventry University Hospitals NHS Trust e Warwickshire (l’Università di Wawick, ndr), in  collaborazione con la Facoltà di Medicina dell’Università Federico II di Napoli, l’ideale sarebbe dormire circa 7-8 ore a notte, anche se c’è qualcuno in grado di reggere un’intera giornata con alle spalle solo 4-5 ore e chi, invece, resta nel mondo dei sogni per almeno 9 ore.

Chi dorme male soffre di problemi al sistema immunitario, come spiega Carlo Selmi, reumatologo, immunologo e docente presso l’Università degli Studi di Milano: “Le persone che dormono poco e male hanno un più alto livello di citochine infiammatorie, in particolare interieuchina 6 (un marcatore di infiammazione, ndr) e TNF alfa”.

Chi dorme meno di 6 ore o più di 9, inoltre, ha una sopravvivenza minore, in quanto, solitamente, chi soffre del cosiddetto “bisogno” di dormire rispettivamente troppo poco o troppo, è affetto dalla sindrome di sonnolenza diurna, per cui cadono in tentazione al pisolino anche durante il giorno. Così facendo, presentano un alto rischio di mortalità cardiovascolare oltre che uno stato infiammatorio cronico.

Davide Basili
31 marzo 2013

Immunoterapia mirata: nuovo trattamento per la leucemia linfoblastica acuta

Striscio ricavato da aspirato di midollo osseo in paziente affetto da leucemia linfoblastica acuta. Si evidenziano precursori di linfociti B. Colorato con metodo Wright. (Wikipedia)

La cura per la leucemia, forse, potrebbe arrivare presto. Ameno così emerge da una tecnica sperimentata dagli scienziati americani del Memorial Sloan-Kettering Cancer Centre di New York, che è stata soprannominata “immunoterapia mirata”.

Il metodo nasce come procedura per rendere i pazienti eleggibili per il trapianto di cellule staminali, e consiste nel modificare geneticamente i globuli bianchi prelevati dai pazienti: al loro interno viene inserito un gene, la proteina CD19 che è in grado di riconoscere le cellule tumorali.

Quando poi i linfociti (altro nome con cui sono conosciuti i globuli bianchi) vengono nuovamente introdotti nel sangue dei malati, sono in grado di attaccare e distruggere le cellule maligne.

Questa procedura, come si legge sulla rivista Science Transnational Medicine, è stata sperimentata con successo prima su una bambina di 7 anni, poi su un gruppo di 5 adulti affetti da leucemia linfoblastica acuta a cellule B.

Tutti questi pazienti si erano già sottoposti a chemioterapia, ma il temibile tumore che attacca il sangue era tornato in forma più forte, tanto da riuscire a resistere ai farmaci.

Durante il test, 3 malati hanno mostrato una remissione alla malattia, 2 sono morti in seguito ad una ricaduta e 1 è deceduto a causa di un coagulo di sangue.

Il dottor Renier Brentjens, autore principale dello studio, spiega: “I pazienti con recidiva di leucemia linfoblastica acuta a cellule B, resistente alla chemioterapia, hanno una prognosi particolarmente sfavorevole. Questa capacità del nostro approccio di ottenere remissioni complete in tutti questi pazienti molto malati è ciò che rende questi risultati così straordinari e questa nuova terapia così promettente”.

Davide Basili
24 marzo 2013