Se pensate che il multiculturalismo non funzioni, date un’occhiata in strada

“Tolleranza passiva”. Ne avranno sentito parlare in pochi, ed è un peccato perché, da quanto si evince in 7 studi effettuati nell’arco di 10 anni, si tratta di un messaggio positivo che ci aiuta a superare alcuni preconcetti comuni sulla multiculturalità.

mercato uk

Cos’è la tolleranza passiva?
Immaginate una classica via affollata di una grande città, come Londra, Milano, o Los Angeles: il giornalaio, il negozietto di alimentari all’angolo, il corriere, il postino, un gruppo di amici che ridono, bambini che giocano al parco, un coppia di innamorati che si abbraccia.

Questa è tolleranza passiva.

Non bisogna per forza esserne parte per avere dei benefici,  anche solo assistervi è sufficiente ad avere un impatto significativo sul vostro grado di apertura verso altre etnie e culture.

Si potrebbe paragonare all’effetto del fumo passivo con accezione positiva.

Un team di psicologi sociali dell’University of Oxford ha effettuato sette studi nell’arco di 10 anni, negli Stati Uniti, in Europa e in Sud Africa, pubblicati sulla rivista “The United States National Academy of Sciences“[1] in marzo 2014.

Gli studiosi Miles Hewstone e Katharina Schmid riferiscono di aver fatto molta attenzione nell’escludere la spiegazione più ovvia, ossia che i livelli più alti di tolleranza nei quartieri misti siano dovuti semplicemente a persone mediamente più tolleranti che hanno scelto di vivere in quelle zone delle città.

Per assicurarsi che non ci fosse quindi nessun “bias di selezione”, due degli studi sono stati condotti monitorando le stesse persone per più anni, mostrando dei significativi cambiamenti delle loro abitudinii.

Anche persone con pregiudizi hanno manifestato nel tempo un grado più elevato di tolleranza vivendo in un quartiere multietnico.

Un altro studio, condotto dallo stesso team di Oxford, il più grande finora svolto in Inghilterra sulla fiducia e la diversità, rinforza ancora di più il messaggio positivo.

Ai cittadini britannici venne chiesto se avvertivano le minoranze etniche come una minaccia per il proprio stile di vita, per la propria occupazione e per l’incremento del tasso di criminalità. Le stesse domande vennero poste alle persone appartenenti alle minoranze etniche.

E’ stato chiesto poi a entrambi i gruppi come si interagivano con le altre etnie in situazioni quotidiane, come al negozietto all’angolo o al bar, e gli sono state fatte poi delle domande sul grado di fiducia nel proprio e negli altri gruppi etnici del quartiere.

Dallo studio è emerso che il grado di diffidenza si accresce giorno dopo giorno tra le diverse comunità, ma il contatto diretto tende ad annullare questa tendenza.

Questi due studi messi insieme quindi, danno una lettura più ottimistica sull’impatto della diversità culturale nei quartieri urbani, rendendo probabilmente fuorvianti lavori come quelli di Putnam, secondo il quale per esempio, in sintesi, le persone hanno un ripiegamento sul privato e tendono a ridurre al minimo l’impegno in relazioni con gli altri, anche all’interno del proprio gruppo. Vivere in un quartiere misto aiuterebbe ad aprirsi, e non a chiudersi in questo modo . Le aree della città con il pregiudizio e la paura più pronunciati sono infatti spesso i quartieri esclusivamente “bianchi” o “mono-etnici”.

E’ molto importante che queste nuove evidenze prendano parte del dibattito politico.

[1] http://www.pnas.org/content/early/2014/02/26/1320901111.abstract?sid=869cf6c9-5145-417a-aae3-a93b175bcd1e

L’infanzia dei vostri antenati potrebbe essere scritta nel DNA

Alison Mackey/DISCOVER
Alison Mackey/DISCOVER

Le difficoltà oppure le grandi avventure vissute dai vostri antenati durante la loro infanzia potrebbero essere stati capaci di alterare la vostra personalità, trasmettervi ansietà oppure controllo, grazie all’alterazione epigenetica dell’espressione di alcuni geni presenti nel cervello. [1]

Darwin e Freud entrano in un bar. Due topi alcolizzati, la madre con suo figlio, siedono su degli sgabelli al banco, sorseggiando del gin.

La mamma topo alza lo sguardo e dice: “Ehi voi, geni, spiegatemi come mai mio figlio è in questo cattivo stato!”

“Cattiva eredità”, dice Darwin.

“Cattiva educazione”, dice Freud.

Per più di un secolo queste due visioni, natura o educazione, biologia o psicologia, hanno offerto diverse spiegazioni su come si sviluppano e persistono certi comportamenti, non solo per quanto riguarda un singolo individuo ma attraverso intere generazioni.

Poi, nel 1992, due giovani scienziati, seguendo le orme di Freud e Darwin, finirono per entrare veramente in un bar. Prima di uscirne, e dopo un paio di birre, avevano già iniziato a forgiare una nuova e rivoluzionaria sintesi su come le esperienze di vita possono influenzare direttamente i vostri geni, e non solo le vostre esperienze ma anche quelle di vostra madre, di vostra nonna, bisnonna e oltre.

Il bar si trova a Madrid, dove il più vecchio centro spagnolo per lo studio della neurobiologia, il Cajal Institute, tenne un meeting internazionale.

Moshe Szyf, genetista e biologo molecolare presso la McGill University a Montreal, non aveva mai studiato psicologia o neurologia, ma era stato convinto a partecipare a questo meeting da un collega il quale pensava che il suo lavoro potesse trarre delle applicazioni. Allo stesso modo anche Michael Meaney, neurobiologo della McGill, era stato convinto a partecipare dal suo collega, il quale pensava che le sue ricerche sui modelli di abbandono materno negli animali potessero trarre beneficio dalla prospettiva di Szyf.

Michael Meaney, neurobiologo (Owen Egan/McGill University)
Michael Meaney, neurobiologo (Owen Egan/McGill University)

“Mi ricordo ancora del posto, era un bar all’angolo, specializzato in pizza” dice Meaney. “Moshe, essendo ebreo, era interessato a cibi kosher. La birra è kosher. Moshe la può bere dovunque. Io sono irlandese. Era perfetto”.

I due si trovarono impegnati in una conversazione animata su una nuova scottante linea di ricerca in genetica. Dagli anni 70 i ricercatori sapevano che i gomitoli altamente ripiegati di DNA, all’interno del nucleo cellulare, avevano bisogno di qualcosa di più per dire esattamente quali geni trascrivere, in dipendenza del fatto che si trattasse di una cellula cardiaca, epatica o cerebrale..

Questo elemento extra è il gruppo metile, una componente strutturale comune nelle molecole organiche. Funziona come un segnalibro dentro un libro di cucina, attaccandosi al DNA all’interno di ogni cellula per selezionare solo le ricette – ossia i geni – necessari per quella particolare proteina cellulare. Visto che i gruppi metili sono stati aggiunti successivamente per via enzimatica ma non facevano parte del DNA così com’era stato sintetizzato originariamente, questo campo di studio è stato nominato “epigenetica“, dal prefisso greco “Epi” (ciò che sta sopra). [2]

In origine si è ritenuto che questi cambiamenti epigenetici si verificassero soltanto durante lo sviluppo fetale. Tuttavia vari studi pioneristici hanno dimostrato che queste “maniglie” molecolari potevano aggiungersi al DNA anche in età adulta, scatenando una cascata di cambiamenti a livello cellulare che sarebbero in grado di portare anche al cancro. Alcune volte i gruppi metilici si attaccano al DNA grazie a cambiamenti nella dieta; altre volte, sembrerebbe, a causa dell’esposizione a certi agenti chimici. Szyf ha mostrato che correggere certi cambiamenti epigenetici tramite farmaci può curare alcuni tumori negli animali.

Moshe Szyf, biologo molecolare e genetista. (McGill University)
Moshe Szyf, biologo molecolare e genetista. (McGill University)

I genetisti furono particolarmente sorpresi nel vedere che i cambiamenti epigenetici possono essere tramandati da padre a figlio, generazione dopo generazione. Uno studio di Randy Jirtle della Duke University ha mostrato che quando le femmine di topo venivano nutrite con una dieta ricca in gruppi metile, il pigmento nella pelliccia della successiva prole veniva alterato in modo permanente. Senza nessun tipo di modificazione del DNA, i gruppi metile potevano venire aggiunti o sottratti, ed i cambiamenti erano ereditati in maniera molto simile a quanto avviene dopo la mutazione di un gene..

Durante quell’incontro al bar di Madrid, Szyf e Meaney considerarono un’ipotesi improbabile quanto profonda: se sia la dieta che gli agenti chimici potevano causare cambiamenti epigenetici, si potrebbero avere gli stessi effetti anche con alcune forti esperienze di vita, come abbandono minorile, abuso di droga o altri grandi stress?  Possono certe esperienze cambiare epigeneticamente il DNA all’interno dei neuroni del cervello di una persona?

Questa domanda si è rivelata essere la base per lo sviluppo di un nuovo campo della scienza, l’epigenetica comportamentale, così vibrante da aver generato decine di nuovi studi e suggerito trattamenti nuovi e profondi nella cura del cervello.

Secondo le nuove intuizioni dell’epigenetica comportamentale, esperienze traumatiche del nostro passato , o nel recente passato dei nostri antenati, lascerebbero delle cicatrici molecolari sul nostro DNA. Gli ebrei i cui bisnonni sono stati cacciati dalle loro shetetls russe, cinesi i cui loro nonni vissero le devastazioni della Rivoluzione Cuturale, giovani immigrati africani i cui genitori sono sopravissuti a massacri, adulti di ogni etnia cresciuti con genitori alcolizzati o violenti, tutti loro portano con se qualcosa di più di sole memorie.

Come limo depositato sugli ingranaggi di una macchina finemente ottimizzata, dopo che l’acqua di uno tsunami retrocede, le nostre esperienze, e quelle dei nostri antenati, non se ne sono mai andate, anche se le abbiamo dimenticate. Sono diventate una parte di noi, un residuo molecolare che si tiene attaccato alla nostra impalcatura genetica. Il DNA rimane lo stesso, ma le tendenze psicologiche e comportamentali sono ereditate. Potreste quindi aver tramandato da vostra nonna non solo le vostre ginocchia bitorzolute, ma anche la sua predisposizione alla depressione, causata dalla negligenza di cui ha sofferto da neonata.

Oppure no. Se vostra nonna fu adottata da genitori amorevoli, potreste godere del sostegno che ricevette grazie al loro amore e supporto. Il meccanismo dell’epigenetica comportamentale sottolinea non solo i difetti e le debolezze ma anche i punti di forza e l’elasticità in risposta agli stimoli. E per chi avesse la sfortuna di discendere da nonni vissuti in miseria o avarizia , nuovi trattamenti medici emergenti potrebbero un giorno resettare non soltanto l’umore ma anche gli stessi cambiamenti epigenetici. Come il vecchio vestito passato dalla nonna, lo potete indossare così com’è oppure farlo modificare.  Il genoma è stato a lungo considerato come il codice della vita, ma l’epigenoma è la lavagnetta magica: scuotetelo abbastanza forte e potrete ripulire la maledizione della vostra famiglia.

Genetica Voodoo

Epigenetica, in sintesi (Jay Smith/Discover)
Epigenetica, in sintesi (Jay Smith/Discover)

Vent’anni dopo l’aver aiutato a scatenare una rivoluzione, Meaney è seduto dietro un tavolo in noce che funge da sua scrivania. Siamo in gennaio e una tempesta di neve ha depositato venti centimetri di neve fuori dalle finestre panoramiche che costeggiano il suo ufficio, al quarto piano presso l’Istituto Douglas, una filiale specializzata in salute mentale della McGill. Ha l’aspetto arruffato e i capelli brizzolati proprio come qualcuno appena trovato su una pista di sci, precisamente il posto dove sta pianificando di passare il suo weekend. Sul pavimento giacciono dei palloncini di elio a varie fasi di sgonfiamento. “Auguri per il 60esimo compleanno!” si legge su uno.

Sono sempre stato interessato su cosa rende le persone diverse dalle altre” dice “Il modo in cui siamo, come ci comportiamo: alcuni sono ottimisti e altri pessimisti. Cosa produce queste variazioni? L’evoluzione seleziona quella che ha più successo, ma cos’è che da l’acqua al mulino?”

Meaney ha perseguito la comprensione delle differenze individuali studiando le abitudini di allevamento della prole dei ratti madre e su come queste causi cambiamenti permanenti sulla progenie. Ricerche risalenti agli anni 50 hanno mostrato che ratti maneggiati da umani per anche solo tra i 5 e 15 minuti al giorno durante le prime tre settimane di vita crescevano più calmi e meno reattivi a eventi ambientali stressanti, in confronto ai loro corrispettivi non manipolati. Cercando di sbrogliare il meccanismo che sta dietro ad un effetto cosi duraturo, Meaney e altri hanno stabilito che questi vantaggi non vengono trasmessi dal maneggiamento umano. Piuttosto, questo ha semplicemente fatto si che le madri di ratto leccassero ed effettuassero grooming più spesso ai loro piccoli, e si impegnassero maggiormente in un comportamento chiamato arched-back nursing, dove la madre da ai cuccioli maggiore spazio sotto il suo ventre.

Riguarda tutto la stimolazione tattile” dice Meaney.

In una pietra miliare del 1997, sulla rivista Science, ha mostrato come variazioni naturali nel numero di leccate e grooming ricevuti durante l’infanzia abbia un effetto diretto su come l’ormone dello stress, incluso il corticosterone, veniva poi espresso da adulto. Più leccate da cuccioli, e meno ormoni dello stress da grandi. Un pò come se la madre leccasse via anche i gruppi metile . La cosa che il paper però non spiegava era come una cosa del genere fosse possibile.

Quello che facemmo fino a quel punto era di identificare la cura materna e la sua influenza su geni specifici” spiega Meaney. “L’epigenetica però non era un argomento di cui sapevo molto”

Fu lì che incontrò Szyf

Eredità post-natale

Alison Mackey/DISCOVER
Alison Mackey/DISCOVER

“Stavo per diventare dentista”, dice ridendo Szyf. Piccolo, pallido e calvo, è seduto in un piccolo ufficio sul retro del suo vivace laboratorio, così spartano che contiene solo una singola immagine: una fotografia di due embrioni nell’utero.

Avendo avuto il bisogno di scrivere la tesi alla fine del 1970 per il suo dottorato in odontoiatria alla Hebrew University di Gerusalemme, Szyf incontrò un giovane professore di biochimica chiamato Aharon Razin, che aveva recentemente fatto colpo pubblicando i suoi primi nuovi studi in alcune delle riviste scientifiche più famose al mondo. Questi studi furono i primi a mostrare che l’azione dei geni poteva essere manipolato da strutture chiamate gruppi metile, un argomento di cui Szyf non sapeva praticamente nulla. Aveva però bisogno di un consulente per la tesi, e Razin era li, cosi Szyf si trovò travolto da questa nuova branca calda dell’epigenetica e non tornò più indietro.

Fino all’avvento di ricercatori come Razin, la sequenza fondamentale su come i geni si trascrivono nella cellula era semplice e lineare: il DNA è il codice principale che risiede nel nucleo di ogni cellula e il RNA trascrive il codice per costruire qualsiasi proteina la cellula necessita. Poi alcuni colleghi di Razin mostrarono che i gruppi metile possono attaccarsi alla citosina, una delle basi presenti nel DNA e nell’RNA.

Fu Razin, lavorando con il suo collega biochimico Howard Cedar, che mostrò l’importanza di questi attacchi: non erano solo qualcosa di breve e di poco significato. I gruppi metilici potrebbero sposarsi in maniera permanente al DNA, e essere replicati insieme ad esso attraverso centinaia di generazioni.

E come in ogni buon matrimonio, inoltre, l’innesto dei gruppi metilici altera significativamente il comportamento di qualsiasi gene con il quale si sposano, inibendo la sua trascrizione, un pò come una moglie gelosa. Razin e Cedar lo hanno dimostrato avvitando l’elica di DNA una volta che è stretta intorno  a una bobina molecolare, chiamata istone, all’interno del nucleo. Più è avvitata strettamente, più è difficile produrre proteine da quel gene.

Considerate cosa ciò vuol dire: senza una mutazione al codice del DNA stesso, il gruppo metilico che vi è attaccato causa cambiamenti a lungo termine ed ereditabili nella funzione di quel gene. Altre molecole, chiamate gruppi acetile, giocano un ruolo opposto, districando il DNA dagli istoni, e facilitando l’RNA nel trascrivere un dato gene.

Quando Szyf arrivò alla fine degli anni 80, McGill era già diventato un esperto di cambiamenti epigenetici. Prima di incontrare Meaney non aveva mai immaginato però che tali cambiamenti potessero avvenire nel cervello, semplicemente per via del tipo di  cure materne.

All’inizio sembrava come il voodoo” ammette Szyf. “Per un biologo molecolare, tutto quello che non ha un chiaro sentiero molecolare non può essere una scienza seria. Più parlammo però, più realizzai che le cure materne potevano in effetti essere capaci di causare delle modifiche nella metilazione del DNA, per quanto folle ci sembrasse. Io e Michael decidemmo quindi che avremmo fatto degli esperimenti per venirne a capo”.

In realtà iniziarono a fare una serie di esperimenti elaborati. Con l’assistenza di ricercatori post-dottorandi cominciarono con il selezionare madri di ratti con un elevato grado di attenzione oppure madri facilmente distraibili. Una volta che un piccolo diveniva adulto, la squadra ne esaminava l’ippocampo, una regione del cervello essenziale per regolare la risposta allo stress. Nei figli delle madri con un basso grado di attenzione, trovarono che i geni che regolavano la produzione di recettori per ormoni glucocorticoidi, che regolano la sensibilità agli ormoni dello stress, erano altamente metilati; nei cuccioli invece della madri più amorevoli, i geni per questi recettori erano metilati solo raramente.

Buone e cattive madri nei ratti (Thinkstock)
Buone e cattive madri nei ratti (Thinkstock)

La metilazione non fa altro che rendere il tutto più complicato. Quindi, quando si tratta di trascrivere il gene affetto, è meglio che sia poco metilato. In questo caso la metilazione associata alla scarsa cura parentale ha impedito la trascrizione di un numero normale di recettori glucorticoidi nell’ippocampo del piccolo. Cosi, in mancanza di recettori sufficienti questi ratti sono cresciuti fino a diventare degli esemplari esauriti dallo stress.

Per dimostrare che gli effetti erano dovuti principalmente al comportamento della madre e non ai suoi geni, Meaney e i suoi colleghi fecero un secondo esperimento. Presero piccoli di ratto partoriti da madri poco attente e le diedero a madri attente, e vice versa. Come previsto, quelli nati da madri attente ma cresciute con madri disattente crebbero con livelli bassi di recettori di glucocorticoidi nei loro ippocampi e si comportarono in maniera volubile. Dall’altra parte, quelli nati da madri disattente ma che crebbero con madri amorevoli diventarono calmi e tranquilli, con alti livelli di recettori di glucocorticoidi.

Prima di pubblicare le loro scoperte, Meaney e Szfy condussero un terzo e cruciale esperimento, sperando di mettere un pò  a tacere gli inevitabili scettici che si sarebbero messi a questionare sui loro risultati.

Dopo tutto ci si potrebbe chiedere: e se i cambiamenti epigenetici osservati nel cervello dei ratti non fossero direttamente causati dal cambiamento comportamentale degli adulti, ma fossero invece un effetto collaterale ?

Freud certamente conosceva il potere duraturo che hanno le cattive madri nel rovinare la vita delle persone. Forse quindi gli effetti emotivi non erano legati al cambiamento epigenetico.

Per verificare questa possibilità, Meaney e Szyf presero un’altra cucciolata di ratti cresciuti da pessime madri e questa volta, a danno avvenuto, infusero i loro cervelli con trichostatina A, sostanza capace di rimuovere i gruppi metili. Gli animali non mostrarono nessuno dei soliti deficit comportamentali di quel tipo di prole e nei loro cervelli non si è visto nessun cambiamento epigenetico.

“Era strano pensare che avrebbe funzionato  iniettandolo direttamente nel cervello” dice Szyf, “Ma così è stato. Era come riavviare un computer.”

Nonostante tali prove apparentemente schiaccianti, dopo la pubblicazione uno dei recensori della rivista si rifiutò di crederci, affermando che non aveva mai visto prima alcuna prova che il comportamento della madre potesse portare a un qualche cambiamento epigenetico.

I tre esperimenti (Jay Smith/DISCOVER)
I tre esperimenti (Jay Smith/DISCOVER)

“Certo che non l’aveva mai visto” dice Szyf. “Non ci saremmo presi la briga di riportare lo studio se fosse già stato dimostrato”.

Alla fine, il loro paper di riferimento “Epigenetic programming by maternal behavior” fu pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience nel giugno 2004.

Meaney e Szyf hanno dimostrato qualcosa di incredibile. Chiamatela eredità post-natale: senza nessun cambiamento al loro codice genetico i cuccioli di ratto hanno comunque acquisito degli allegati genetici causati solamente dalle modalità del loro allevamento: le aggiunte epigenetiche dei gruppi metilici spuntano come ombrelli fuori dalle porte degli ascensori dei loro istoni, complicando il lavoro e alternado la funzione del cervello.

Il ritmo continua
Meaney e Szyf hanno insieme pubblicato più di una ventina di papers, trovando prove di cambiamenti epigenetici su molti altri geni attivi nel cervello..

In maniera forse ancora più significativa hanno visto che, nei roditori, madri poco attente causano la metilazione dei geni per i recettori degli estrogeni situati nel cervello. Quando questi piccoli crescono, il minor numero di questi recettori li rende meno attenti degli altrii, e quindi il ritmo continua. Questo studio è stato condotto da Frances Champagne, allora laureando nel laboratorio di Meaney e ora professore associato con il proprio laboratorio alla Columbia University a New York.

Con gli esperimenti sugli animali che continuano a ritmo sostenuto, Szyf e Meaney hanno aperto il prossimo grande capitolo sullo studio dell’epigenetica comportamentale: gli studi umani. In un paper del 2008 hanno confrontato i cervelli di persone morte per suicidio con cervelli di persone morte improvvisamente per fattori diversi, trovando che nei primi era presente un eccesso di metilazione nei geni dell’ippocampo, regione fondamentale per l’acquisizione della memoria e risposta allo stress. Hanno visto poi che la metilazione era addirittura maggiore se le vittime di suicidio erano anche state abusate da bambini.

Perché un vostro amico non riesce a mettere una pietra sopra a una educazione violenta, data da una madre distante?

Perché non può semplicemente uscirne? Il motivo potrebbe essere dovuto proprio ai gruppi metilici che sono stati aggiunti durante l’infanzia ai geni del suo cervello, ammanettando così il suo stato d’animo a sentimenti di paura e disperazione.

E’ ovviamente impossibile prendere dei campioni da cervelli di persone viventi. Esaminare campioni di sangue invece è ormai routine e Szyf se ne sta servendo per cercare alcuni segni di metilazione epigenetica. Se questo non bastasse nel 2011 riportò un analisi di un intero genoma, ottenuto tramite campioni di sangue di 40 uomini che parteciparono a uno studio inglese di persone nate in Inghilterra nel 1958.

Tutti questi uomini erano vissuti ad uno degli estremi socioeconomici, come poverta’ o ricchezza estreme, ad un certo punto durante le loro vite dalla prima infanzia fino all’eta’ adulta inoltrata.

In tutto Szyf ha analizzato lo stato di metilazione di circa 20mila geni.

Di questi, 6176 geni variavano in maniera significativa a seconda della povertà o del benessere. La cosa più sorprendente era però constatare che i cambiamenti metilici si riscontravano più frequentemente se l’evento impattante avveniva nella prima infanzia piuttosto che da adulti; tali eventi in questo caso erano, rispettivamente, il reddito familiare e lo stato economico..

La tempistica, in altre parole, ha la sua importanza. Che i vostri genitori vincano alla lotteria o vadano in fallimento all’età di 2 anni probabilmente influenzerà il vostro genoma e le tendenze emotive che ne derivano in maniera molto più importante di qualsiasi tipo di fortuna troviate nella mezza età.

L’anno scorso Szyf e ricercatori della Yale University hanno pubblicato un ulteriore studio su campioni di sangue umano, mettendo in confronto 14 bambini cresciuti in orfanotrofi russi con altri 14 bambini russi cresciuti con i loro genitori naturali.

Hanno trovato un livello di metilazione più alto nei geni degli orfani, molti dei quali giocano un ruolo importante nella comunicazione neuronale, nello sviluppo e nella funzione del cervello.

“Il nostro studio mostra che lo stress dovuto alla separazione dai genitori biologici ha un impatto a lungo termine sulla programmazione della funzione dei geni.

Questo potrebbe spiegare perché i bambini adottati possano essere particolarmente vulnerabili a una dura educazione in termini di salute fisica e mentale” spiega il co-autore di Szyf, la psicologa Elena Grigorenko del Child Study Center a Yale.

Allevare bambini adottati potrebbe richiedere una cura molto maggiore al fine di rendere reversibili i cambiamenti avvenuti nella regolazione del genoma

Un caso di studio sugli effetti epigenetici nell’educazione degli esseri umani può essere visto nella vita del collaboratore di Szyf e Meaney: Frances Champange.

“Mia madre ha studiato la prolattina, un ormone coinvolto nel comportamento materno. Lei è stata una forza trainante per me e mi ha incoraggiato a studiare la scienza” ricorda. Ora, figura di spicco nello studio dell’influenza materna sullo sviluppo, Champagne ha appena avuto la sua prima figlia, una femmina e la ricerca epigenetica le ha rivelato qualcosa di inaspettato.

“La cosa che ho imparato dal lavoro che faccio è che lo stress è un grande soppressore del comportamento materno”, dice. “Lo vediamo negli animali che studiamo, ed è vero anche negli esseri umani. Quindi la cosa migliore che puoi fare è quella di non preoccuparti tutto il tempo se stai facendo la cosa giusta o no. La cosa più importante di tutte è di tenere basso il livello di stress. E soprattutto l’interazione tattile con i figli: una cosa che una buona mamma ratto fa sicuramente con i propri cuccioli. L’input sensoriale, il tocco, le carezze, sono davvero importanti per lo sviluppo del cervello.”

Alison Mackey/DISCOVER
Alison Mackey/DISCOVER

Il Marchio di Caino

Non è una novita’  il fatto che l’amore di una mamma può fare la differenza sulla vita del figlio, il dibattito però rimane sull’abilità della modifica epigenetica di persistere attraverso le generazioni. E’ la metilazione che viene trasmessa direttamente attraverso l’uovo fecondato, oppure ogni nuovo nato è puro, “metilaticamente vergine”, con i relativi gruppi metilici spalmati unicamente dai genitori, dopo la nascita?

Il neuroscienzato Eric Nestler della Icahn School of Medicine alla Mount Sinai a New York ha cercato la risposta per anni. In uno studio ha esposto alcuni ratti maschio al bullismo di altri esemplari piu grandi e aggressivi, per 10 giorni. Alla fine dell’esperimento gli esemplari vittime si erano ritirati socialmente.

Per verificare se tali effetti potevano venire trasmessi alla generazione successiva, Nestler prese un’altro gruppo di maschi vittime di bullismo e li fece accoppiare con alcune femmine, tenendoli però poi separati dalla prole.

Anche senza aver avuto contatti con i loro padri depressi, i cuccioli crebbero in maniera super sensibile allo stress. “Non era un effetto da poco, la prole era molto più suscettibile a sviluppare segni di depressione”, dice.

In altri test Nestler prese lo sperma da maschi socialmente repressi e fecondò in vitro alcune femmine. La prole non mostrò buona parte delle anomalie comportamentali, suggerendo che la trasmissione epigenetica potrebbe non essere alla radice. Nestler invece propone che “la femmina forse si rende conto di essersi accoppiata con un perdente e quindi si comporta in maniera diversa anche con i cuccioli”  secondo i risultati ottenuti.

Nonostante le sue scoperte non è ancora emerso nessun consenso univoco. Le ultime prove, pubblicata il 25 gennaio su Science, suggeriscono che i cambiamenti epigenetici nei topi vengono normalmente cancellati, ma non sempre.

La cancellazione è imperfetta e qualche volta i geni affetti vengono trasmessi alla generazione successiva.

E il prossimo passo?
Gli studi continuano ad accumularsi. Una linea di ricercatori traccia la perdita di memoria in età avanzata e alterazioni epigenetiche in neuroni celebrali. Altri collegano disordini di stress post-traumatico alla metilazione del gene che codifica per i fattori neurotrofici, una proteina che regola la crescita dei neuroni.

Se è vero che i cambiamenti epigenetici di geni attivi in alcune regioni del cervello sono alla base della nostra intelligenza emotiva ed intellettuale, ossia la nostra tendenza ad essere calmi o impauriti, o la nostra abilità di imparare o di dimenticare – allora sorge una domanda: Non possiamo semplicemente assumere dei medicinali per spazzare via i gruppi metilici indesiderati?

La caccia è aperta. Giganti della farmaceutica e piccole imprese di biotecnologia sono alla ricerca di composti epigenetici in grado di accelerare l’apprendimento e potenziare la memoria. Laddove i farmaci tradizionali hanno fallito, si potrebbero trovare alcune cure epigenetiche in grado di trattare depressione, ansia e disordini da stress post-traumatico.

Ma sarà un grande salto nel vuoto, che ci farà porre delle domande. Come si fa ad essere sicuri che questi medicinali epigenetici andranno a ripulire soltanto i marcatori pericolosi, lasciando intatti gruppi metiliti benefici, o magari essenziali ? E se invece potessimo creare una pillola abbastanza potente da poter ripulire tutta la nostra “lavagnetta epigenetica” scritta dalla storia e dalle infanzie dei nostri antenati ? Se una pillola di questo genere riuscisse a liberare da tutti i detriti epigenetici i geni del vostro cervello, gli effetti lasciati da guerre, stupri, abbandoni e brutte infanzie passate dai vostri antenati, voi la prendereste ?

[1] http://discovermagazine.com/2013/may/13-grandmas-experiences-leave-epigenetic-mark-on-your-genes

[2] Una piccola precisazione: I gruppi metilati del DNA sono gene “off”, in realtà non attivano direttamente la trascrizione genica. I gruppi metili sono aggiunti alle basi del DNA e ci restano finché un altro enzima li rimuoverà a causa di qualche variazione ambientale. Attualmente ci sono ancora molte cose che non comprendiamo sulla reversibilità del processo.

Daniel Iversen
20 marzo 2014

E se fossero stati i virus a regalarci gli organismi pluricellulari?

La prossima volta che avete un raffreddore, invece di maledire i virus potreste ringraziarli, per esempio per avervi creato la pelle.

Sembra infatti che i geni portati dai virus abbiano fornito alle cellule l’abilità di crescere all’interno di organi e tessuti, e anche di riprodursi sessualmente. Senza questi geni gli animali potrebbero non essersi evoluti al di là di semplici esseri unicellulari.

virus

Spesso le nostre cellule hanno bisogno di fondersi con altre, creandone di più grandi con nuclei multipli. Questo è possibile grazie all’aiuto di proteine che tengono unite le pareti e poi le spezzano, per romperle e far mescolare il loro interno. Questo miscelamento è essenziale alla formazione della maggior parte degli organi, come i muscoli , la pelle o le ossa, oltre che per la riproduzione, con la fusione di sperma e ovulo. Ad esempio, fuse insieme nella placenta, impediscono ad agenti chimici pericolosi di entrare a contatto con il feto; pure i vasi sanguigni sono fatti di cellule fuse.

A dispetto della sua importanza, nessuno sa come si sia evoluta la fusione cellulare, anche perché è difficile individuare le proteine responsabili: fino ad ora ne sono state trovate solo due.
La prima, la sincitina, trovata nel 2000, è essenziale per la formazione della placenta umana, e il gene che la codifica venne da un virus [1]

Nel 2002 poi è stata trovata una seconda proteina, chiamata EFF-1 che aiuta la formazione della pelle nel verme Caenorhabditis elegans, spesso studiato dai biologi per la sua semplicità [2].
In seguito alla scoperta nel 2007 di AFF-1, una proteina simile, fu chiara l’esistenza di una intera famiglia di proteine, chiamate proteine FF, che avevano simili caratteristiche. Felix Rey, del Pasteur Institute di Parigi, ha ora scoperto che anch’esse provengono dai virus.

Il suo team ha compreso la struttura 3D della proteina EFF-1 usando la cristallografia e la diffrazione a raggi- X, le stesse tecniche che furono usate per determinare la struttura del DNA nel 1950.

Assomiglia a quella di una proteina prodotta da virus, e la parte attiva – che ha il compito di collegare una cellula all’altra – è praticamente identica. I virus utilizzano la proteina per strappare e aprire la membrana di una cellula che possono poi infettare. Nei vermi entrambe le cellule devono contenere la proteina prima di potersi fondere, ma la proteina funziona a sua volta in un modo simile. I risultati sono stati presentati alla Lorne Conference on Proteine Structure and Function ​​in Australia il mese scorso, e sono stati accettati dalla rivista Cell.

Dal momento che la EFF-1 è così simile a una proteina virale, è quasi certo che il gene per essa deriva da un virus che infettò uno degli antenati del verme, spiega Rey.
Questo non è senza precedenti. Il genoma per esempio umano è disseminato di DNA che vi è penetrato quando i virus infettarono le cellule di un antenato. Solo alcune di queste parti di codice sono tuttavia conosciute per avere funzioni importanti.

Mentre EFF-1 è stata studiata solo in C. elegans, Rey spiega che molti organismi potrebbero usare la stessa proteina. Visto che pure la sincitina è virale, anche tutte le proteine di fusione cellulare che sono state trovate fino ad esso provengono dai virus. Ciò vuole dire che i primi animali ricevettero tutte queste proteine da infezioni virali?

Questa è la sensazione che abbiamo” dice Fasseli Coulibaly dalla Monash University a Melbourne, in Australia. “E’ senza dubbio l’ipotesi piu seducente, però, da scienziati, dobbiamo investigare più approfonditamente. Se questo è vero, sarà un grande vantaggio.

E’ plausibile che tutta la fusione cellulare derivi da geni virali che penetrarono nel nostro genoma, dice Elizabeth Chen della John Hopkins University a Baltimore in Marylland. Ora la sua squadra sta cercando di trovare la proteina responsabile della fusione cellulare nel tessuto muscolare, ma è ancora troppo presto per dire se derivi anche questa da un virus.

I risultati per ora sembrano indicare questa ipotesi, spiega Rey. Se le proteine di fusione cellulare provenissero da diverse fonti, non ci si aspetterebbe di identificare le prime due come di provenienza virale.

Se fosse vero che la fusione cellulare c’è stata donata dai virus vorrebbe dire che essi sono anche i responsabili della vita multicellulare, dice Coulibaly. Le cellule si sarebbero potute raggruppare insieme anche da sole, ma senza l’abilità di fondersi non avrebbero potuto evolvere in qualcosa di più avanzato delle spugne, figuriamoci in esseri umani.

Prima che le cellule siano capaci di creare qualcosa come pelle o tratto digestivo, devono essere in grado di fondersi”, spiega Coulibaly. Se fosse confermato, sarebbe da premio Nobel.”

Rey fa un passo più in la ipotizzando che i virus potrebbero essere responsabili dell’esistenza stessa degli organismi pluricellulari. I virus passavano e uscivano da diverse cellule, scambiando tra di esse informazioni genetiche. “Questo mi fa pensare che i virus potrebbero aver enormemente contribuito alla comunicazione tra le cellule e all’aspetto degli organismi pluricellulari sulla Terra” dice Rey.

[1] (Nature, doi.org/c53gpz)
[2] (Developmental Cell, doi.org/cd7mcf)

Daniel Iversen
8 marzo 2014

Il razzismo non è cablato nella nostra mente

 Il nostro radar razziale non è immutabile. Le persone, infatti, sembra che tendano a identificare inconsciamente gli altri più per come essi lavorano insieme che per il colore della pelle.

Il nostro cervello si è evoluto per riconoscere categorie razziali perché storicamente queste predicevano alleanze sociali, dice David Pietraszewski, psicologo della Yale University.

Avere un nemico in comune è un modo per dilure le barriere sociali, ma il fattore unificante deve per forza esserne antagonista?

racial

Per scoprirlo, David Pietraszewski insieme ai suoi collegi della University of California Santa Barbara [1] hanno introdotto a 1271 persone alcuni avatar simil-reali che lavoravano in una di due associazioni di beneficienza: la prima che costruisce case per i poveri e l’altra che fornisce cure mediche all’estero. Ogni associazione aveva due avatar bianchi e due avatar neri dello stesso sesso.

All’inizio ai partecipanti sono state fatte leggere 24 affermazioni su opere di beneficenza, ciascuna accompagnata dal viso di uno degli 8 avatar. Alcune di queste contenevano un suggerimento circa l’affiliazione dell’avatar, mentre altre erano generiche.

Dopodichè ai partecipanti è stato mostrata solo la dichiarazione e gli è stato chiesto di farle corrispondere dall’avatar corretto.

Trovare gli errori
Studiando gli errori che si sono fatti, il team è riuscito a dire se le persone tendevano a confondere l’avatar corretto con qualcuno della stessa razza o con qualcuno che faceva volontariato nella stessa associazione.

Quando tutti e otto gli avatar erano maschi, la tendenza di confondere l’avatar con qualcuno della stessa razza è scesa della metà rispetto a quando le dichiarazioni contenevano indizi sull’appartenenza alla loro associazione, rispetto a quando erano generiche. Quando, invece, gli otto avatar erano femmine, la tendenza a confonderli in base alla razza è scesa a zero.

Il team di ricercatori ha tenuto conto dei casi dove i partecipanti hanno confuso due avatar della stessa razza dentro la stessa associazione di beneficenza.

I risultati implicano che i partecipanti categorizzavano gli avatar in base all’associazione di beneficenza per cui lavoravano piuttosto che per la razza, spiega Pietraszewski. “Abbiamo visto che le persone potrebbero abbandonare il categorizzare le persone per razza e farlo invece basandosi sulle loro relazioni sociali con gli altri in un ambiente cooperativo“.

“Questo ci dice che la razza non è un concetto immutabile e costruito dentro la mente” spiega, anche se ammette che la differenza tra avatar maschili e femminili non è ben compreso.

“Questo studio conferma che almeno uno degli aspetti del razzismo e dell’etnocentrismo – ossia il trattare allo stesso modo tutti i membri all’interno dello stesso gruppo – non è incitato o soppresso da un nemico in comune, ma dipende solo dai segnali che fanno capire che i membri di ogni gruppo cooperano con un ‘altro su obbiettivi che sono diversi da quello di un’altro gruppo”, dice Stephen Pinker, psicologo cognitivo alla Harvard Uniersity, aggiungendo poi che fin tanto le persone cooperano verso un obiettivo, anche se non si tratta di difendersi contro un nemico, possono essere uniti psicologicamente in un singolo gruppo.

[1] doi.org/rnd

Daniel Iversen
3 marzo 2014

Micro dispositivo per ottenere immagini 3D dall’interno del cuore e dei vasi sanguigni

I ricercatori della Georgia Institute of Technology hanno sviluppato una tecnologia che potrebbe, in tempo reale, fornire immagini 3D dall’interno del cuore, dalle arterie coronarie e dai vasi sanguigni periferici.

Grazie alla sua imaging volumetrica questo dispositivo potrebbe guidare i chirurghi all’interno del cuore in maniera piu’ efficace, aiutando a ripulire le arterie ostruite dei pazienti senza bisogno di interventi chirurgici importanti.

Il dispositivo integra trasduttori ad ultrasuoni con componenti elettronici per l’elaborazione dati su un singolo chip CMOS al silicio di 1.4 millimetri.Il processo on-chip dei segnali permette ai dati, che provengono da più di cento elementi presenti sul dispositivo, di essere trasmessi usando solo 13 sottili cavetti, permettendogli di viaggiare facilmente all’interno dei tortuosi vasi sanguigni.  Le immagini anteriori prodotte dal dispositivo fornirebbero molte informazioni in più delle tecniche esistenti ad ultrasuoni trasversali.

 

Il concept di un dispositivo basato su un catetere a chip singolo che provedderebbe un imaging frontale e 3D in tempo reale direttamente dall'interno del cuore, delle arterie coronarie e vasi sanguigni periferici. (credit: Gokce Gurun et al./IEEE Transactions on Ultrasonics, Ferroelectrics and Frequency Control)
Il concept di un dispositivo basato su un catetere a chip singolo che provedderebbe un imaging frontale e 3D in tempo reale direttamente dall’interno del cuore, delle arterie coronarie e vasi sanguigni periferici.
(credit: Gokce Gurun et al./IEEE Transactions on Ultrasonics, Ferroelectrics and Frequency Control)

Una visione 3D dei vasi sanguigni
“Il nostro dispositivo permetterebbe ai dottori di vedere davanti a se’ l’intero volume all’interno di un vaso sanguigno”, spiega F. Levent Degertekin, professore alla George W. Woodruff School of Mechanical Engineering alla Georgia Institute of Technology. “Questo darà ai cardiologi l’equivalente di una torcia elettrica, cosi’ che possano vedere le ostruzioni di fronte a se’ nelle arterie occluse. Ciò avrebbe il potenziale di ridurre la quantita’ di interventi necessari per ripulirle.”

Se sei un dottore ti piacerebbe vedere cosa sta succedendo all’interno delle arterie e del cuore, ma la maggior parte del dispositivi usati oggi forniscono solo immagini trasversali”, spiega Degertekin.

Se, per esempio, si è alle prese con un’arteria totalmente bloccata è necessario poterne osservare il fronte, il retro e le pareti, tutto assieme. Questo genere di informazione non e’ praticamente disponibile al momento.”

Il dispositivo a singolo chip combina matrici di trasduttori ad ultrasuoni capacitivi microlavorati con interfaccia a tecnologia elettronica CMOS per fornire ultrasuoni intravascolari tridimensionali (IVUS) e immagini ecografiche intracardiache (ICE).

L’Imaging ultrasonico e il sistema di trasmissione si trovano in un dispositivo di solo 1.5 millimetri di diametro.
La matrice a doppio anello include 56 elementi di trasmissione a ultrasuoni e 48 riceventi. Da assemblato, la matrice a forma di ciambella ha un diametro di soli 1.5 mm, con un foro centrale di 430 micron per il passaggio del cavo guida.

Circuiti a risparmio energico inclusi nella matrice spengono i sensori quando questi non sono utilizzati, permettendo al dispositivo di operare con soli 20 milliwatt di potenza, riducendo in questo modo il calore generato all’interno del corpo. Il trasduttore a ultrasuoni lavora a una frequenza di 20 megahertz (MHz).

Dispositivi di imaging che operano nei vasi sanguigni possono fornire immagini a risoluzione piu’ alta di dispositivi che sono usati all’esterno del corpo, perche’ possono operare a frequenze ultrasoniche piu’ alte. Ma operare all’interno dei vasi sanguigni richiede dispositivi abbastanza piccoli e flessibili da riuscire a spostarsi all’interno del sistema circolatorio, e riuscire ad operare immersi nel sangue.

Queste caratteristiche richiedono un grande numero di elementi per trasmettere e ricevere l’informazione sotto forma di ultrasuoni. Trasmettere i dati da questi a elementi di elaborazione esterni potrebbe avrebbero bisogno di molte connessioni via cavo che rischierebbero di limitare l’abiità del dispositivo di essere infilato all’interno del corpo.

Dergertekin e i suoi collabotori hanno cercato di risolvere questo problema miniaturizzando gli elementi ed eseguendo alcuni dei processi di elaborazione sulla sonda stessa, permettendogli di ottenere immagini clinicamente rilevanti sono solo 13 cavetti.

Se si vuole ottenere il catetere più compatto e flessibile possibile”, spiega Degertekin “é impossibile farlo senza integrare l’elettronica e la matrice di imaging sullo stesso chip”.

Il dispositivo mostrato sul polpastrello di un dito (credit: Georgia Tech Photo, Rob Felt)
Il dispositivo mostrato sul polpastrello di un dito (credit: Georgia Tech Photo, Rob Felt).

Prossimo passo: la sperimentazione sugli animali

I ricercatori hanno sviluppato e testato un prototipo capace di fornire dati a 60 fotogrammi per secondo e si aspettano di poter condurre sperimentazioni animali per dimostrare le potenziali applicazioni del dispositivo. Infine hanno aspettato la licenza da una società di diagnostica medica istituita per poter condurre gli studi clinici necessari per ottenere la licenza FDA.

Per il futuro Degertekin spera di svilupare una versione del dispositivo che potrebbe guidare gli interventi nel cuore sotto imaging a risonanza magnetica (MRI). Altri piani includono una ulteriore riduzione delle dimensioni del dispositivo da posizionare in una GUIDE WIRE del diametro di 400micron.

I dettagli della ricerca sono stati pubblicati on-line nel numero di febbraio 2014 della rivista IEEE Transactions of Ultrasonics, Ferroelectrics and Frequency Control

La ricerca che ha portato allo sviluppo del dispositivo è stato supportato dalla National Institute of Biomedical Imaging and Bioengineering (NIBIB), parte della National Institutes of Health.

Daniel Iversen
27 febbraio 2014

 

Videogioco per ripiegare molecole di RNA e contribuire alla ricerca

Il crowdsourcing va di gran moda ultimamente nel mondo della ricerca: si usa Kickstarter per racimolare fondi, screen savers che macinano numeri, e giochi per estrarre informazioni da grandi database. La maggior parte di questi sforzi tuttavia rimangono confinati nel laboratorio virtuale di Internet. Ora i ricercatori però hanno messo in crowdsource i loro esperimenti collegando giocatori di videgiochi a un vero laboratorio di biochimica. Un gioco chiamato EteRNA permette ai videogamers di effettuare da casa reali esperimenti e verificare le loro previsioni su come si ripiegano alcune molecole di RNA. Il primo grande risultato viene rivelato in uno studio pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences” che porta i nomi di più di 37mila autori, di cui, però, solo 10 sono scienziati professionisti. “E’ una cosa incredibile” esclama Erik Winfree, biofisico al California Institute of Technology a Pasadena [1].

Screenshoot del videogioco EteRNA
Screenshoot del videogioco EteRNA. Da notare l’interazione del giocatore nel poter variare le basi azotate (Adenina, Uracile. Guanina, Citosina) potendo sconvolgere e cambiare l’RNA.

Alcuni vedono EteRNA come un segno del futuro della scienza, che non solo coinvolge cittadini-scienziati ma dà anche loro l’accesso remoto a un vero laboratorio. La “cloud-biochimica” [NdR: la biochimica della nuvola] come qualcuno la chiama, è già qui, afferma Winfree. Sequenziamento del DNA, test dell’espressione genica : molte analisi biochimiche sono state appaltate ad aziende in remoto. Tutti gli esperimenti wet lab che possono venire automatizzati lo saranno presto, afferma. “Così gli scienziati potranno focalizzarsi sulla parte meno noiosa del proprio lavoro.”

E’ stato un video-game online chiamato Foldit a ispirare la nascita di EteRNA. Creato nel 2008 da un team con a capo David Baker e Zoran Popović, rispettivamente un biologo molecolare e un informatico, entrambi della University of Washington, Seattle, questo gioco si focalizzò sul predire la forma nella quale si sarebbe ripiegata una stringa di amminoacidi, visto che i giocatori, per adesso, superano anche i computer più veloci nel riuscire a predire con accuratezza la struttura di certe proteine. Sono stati proprio due membri del team di Foldit, Adrien Treuille e Rhiju Das, a concepire EteRNA nel 2009. “L’idea era quella di creare una versione di Foldit, concepita per l’RNA,” dice Treuille, che adesso si trova alla Carnegie Mellon University a Pittsburg, in Pennsylvania. Il suo studente, dottorando, Jeehyung Lee ha sviluppato il software necessario, ma Das li ha persuasi a fare un ulteriore grande passo in avanti: collegare i giocatori direttamente dal mondo reale ad un vero laboratorio di bio-chimica controllato roboticamente. Dopo tutto è molto più veloce ed economico determinare la struttura di ripiegamento e sintetizzare una molecola di RNA rispetto a una proteina.

Lee quindi tornò alla fase di progettazione, ricostruendo il gioco in modo da fargli avere non solo l’interfaccia per la progettazione molecolare come Foldit, ma anche una interfaccia di laboratorio per progettare sequenze di RNA per la sintesi, tenere traccia delle ipotesi per le regole di ripiegamento dell’RNA e analizzare i dati per revisionare queste ipotesi.

Nel 2010 Lee aveva a disposizione un prototipo del gioco già pronto per il test e Das aveva il laboratorio per l’RNA pronto ad iniziare alla Standford University a Palo Alto in California, dove ora è professore. Quello che mancava ora erano i giocatori.

Un messaggio spedito alla community di Foldit attirò qualche centinaio di partecipanti, e già all’inizio del 2011 il New York Times scrisse dell’ EteRNA e decine di migliaia di giocatori iniziarono ad affluire.

Il gioco si accompagna a una guida dettagliata e una serie di puzzle che hanno a che fare con strutture di RNA già note. Solo dopo aver raggiunto 10,000 punti viene sbloccato l’accesso al team di ricerca di EteRNA, quindi l’obiettivo diventa quello di progettare sequenze di RNA in grado di poter essere ripiegate in alcune strutture mirate. Ogni settimana vengono scelte, tramite votazione, otto sequenze che quindi vengono mandate alla Stanford per la sintesi e la determinazione della struttura. I dati che ritornano danno un’idea di quanto le vere strutture create dalle sequenze si siano poi abbinate ai loro target. In questo modo, dice Treuille, è la realtà che tiene il punteggio. I giocatori usano quel feedback per modificare una serie di ipotesi: regole di progettazioni per determinare come si ripiegherà una sequenza di RNA.

Due anni e centinaia di strutture di RNA più tardi, i giocatori hanno dato prova di poter essere un grande team di ricerca. Su 37,000 giocatori partecipanti, circa 1,000 si sono qualificati per partecipare al LAB per lo studio pubblicato oggi. EteRNA ha ora 133,000 giocatori di cui 4000 che fanno ricerca e hanno generato 40 nuove regole per il ripiegamento del RNA. Ai nodi tra diverse parti della molecola, per esempio, come quelli tra un loop e un braccio, i giocatori hanno scoperto che è molto più stabile se arricchito con guanina e citosina, in grado di creare i legami più forti all’interno del RNA. Per vedere come queste regole descrvissero la realtà, i giocatori hanno poi partecipato a una competizione contro il computer in una nuova serie di sfide sulla struttura del RNA. I ricercatori hanno distillato le 40 regole create dai giocatori in un algoritmo chiamato EteRNA Bot.

I giocatori umani hanno ancora primeggiato, risolvendo le strutture in maniera più accurata rispetto al software standard il 99% delle volte.

Anche la versione algoritmica ha battuto in termini di performance il software comunemente utilizzato per queste operazioni ma solamente il 95% delle volte, dimostrando che la conoscenza del team croud-sourced umano non è stata ancora catturata in modo completo.

Lee afferma che il prossimo passo sarà quello di rendere il WET LAB completamente robotico, perché c’è ancora bisogno di esseri umani per eseguire alcuni passaggi tra l’input della sequenza RNA del giocatore e l’output dei dati.

EteRNA non funziona con qualsiasi tipo di scienza, spiega Shawn Douglas, ingegnere biomolecolare alla University of California a San Francisco, questo perché il problema deve essere adatto alla trasformazione in gioco. Si è mostrato però ottimista sul fatto che ne arriveranno molti altri. “Molte aree della ricerca biologica hanno raggiunto un tale livello di complessità da far diventare le facoltà mentali del singolo ricercatore il collo di bottiglia” spiega Douglas.

EteRNA prova che “ci sono decine di migliaia di persone in tutto il mondo che dispongono di energie mentali extra desiderose d partecipare alla risoluzione di problemi scientifci.”

Il trucco è quello di progettare un buon gioco.

Daniel Iversen
17 febbraio 2014

[1]http://news.sciencemag.org/biology/2014/01/online-video-game-plugs-players-real-biochemistry-lab

Controllati per la prima volta nano-motori all’interno di cellule viventi

Per la prima volta, un team di chimici e ingegneri alla Penn State University è riuscito a inserire sottilissimi motori sintetici all’interno di una cellula umana vivente, spinti da onde ultrasoniche e guidati magneticamente. Non è proprio un “Viaggio alluncinante” [Ndr: film del 1966 sul viaggio nel corpo umano], ma ci va vicino.

Immagine da microscopio ottico di una cellula HeLa contenente alcuni nanomotori oro-rutenio. Le frecce indicano le loro traiettorie e la grossa linea bianca indica la propulsione. Vicino al centro del’immagine un mandrino di alcuni nanomotori che gira. La dispersione di onde sonore dalle due estremità provoca propulsione. Credit: Mallouk lab, Penn State University.
Immagine da microscopio ottico di una cellula HeLa contenente alcuni nanomotori oro-rutenio. Le frecce indicano le loro traiettorie e la grossa linea bianca indica la propulsione. Vicino al centro del’immagine un mandrino di alcuni nanomotori che gira. La dispersione di onde sonore dalle due estremità provoca propulsione. Credit: Mallouk lab, Penn State University.

I nanomotori, particelle metalliche a forma di razzo, si muovono in giro per le cellule, roteando e sbattendo sulla membrana cellulare.

Muovendosi e girando all’interno delle strutture delle cellule, queste ultime mostrano un meccanismo di risposta che non si è mai visto prima” afferma Tom Mallouk, professore Evan Pugh al Materials Chemistry and Physics al Penn State. “Questa ricerca dimostra che potrebbe essere possibile usare nanomotori sintetici per studiare la biologia delle cellule in una maniera del tutto nuova. Potremmo essere in grado di usare questi dispositivi per trattare il cancro e altre malattie, manipolando meccanicamente le cellule direttamente dall’interno. I nanomotori potrebbero infatti effettuare delle operazioni intracellulari e veicolare medicinali in maniera non invasiva ai tessuti vivi”

I risultati dei ricercatori verranno pubblicati il 10 febbraio 2014 su “Angewandte Chemie International Edition”. Altri co-autori, oltre Mallouk, sono i ricercatori alla Penn State Wei Wang, Sixing Li, Suzanne Ahmed e Tony Jun Huang, insieme a Lamar Mair del Weinberg Medical Physics nel Maryland in USA.

Fino ad ora, riferisce Mallouk, i nanomotori sono stati studiati solamente in “vitro” all’interno di apparecchiature di laboratorio e non in cellule umane viventi.

Già una decina di anni fa sono stati sviluppati alla Penn State alcuni nanomotori alimentati chimicamente, da un team che includeva, oltre Mallouk, anche il chimico Ayusman Sen e il fisico Vincent Crespi. “I nostri motori di prima generazione necessitavano di combustibili tossici per poter funzionare e quindi era impossibile farli muovere all’interno di fluidi biologici e quindi studiarli nelle cellule umane” dice Mallouk. “Questa limitazione è stata un serio problema”. Quando Mallouk e il fisico francese Mauricio Hoyos hanno scoperto che i nanomotori potevano essere alimentati anche da onde ultrasoniche, la porta si aprì allo studio di questi motori all’interno di sistemi viventi.

VIDEO 1

httpv://www.youtube.com/watch?v=tvvwI3Z-p7U

Una dimostrazione di alcuni nanotubi d’oro molto attivi, all’interno di cellule HeLa in un campo acustico. Video ripreso a 1000X di ingrandimento nel campo chiaro, con la maggiorparte della luce entrante bloccata all’apertura.

Per gli esperimenti il team ha usato cellule HeLa, una linea immortale di cellule cervicali umane usate tipicamente in studi di ricerca, che, una volta ingeriti i nanomotori, hanno permesso loro il movimento all’interno del tessuto cellulare, alimentati da onde ultra sonore. Mallouk spiega che con una bassa potenza ultrasonica i nanomotori hanno un basso effetto sulle cellule ma, una volta aumentata la potenza, questi iniziano a entrare in movimento, girando e scontrandosi negli organelli, strutture nelle quali la cellula esegue particolari funzioni.

I nanomotori possono funzionare come uno sbattivuova, omogeneizzando il contenuto della cellula oppure possono essere usati come arieti, per forare la membrana cellulare.

VIDEO2

httpv://www.youtube.com/watch?v=cAoMVMvOr8Y

Particelle scure interagiscono con nanotubi d’oro che ruotano, all’interno della cellula HeLa. Video ripreso a 1000X di ingrandimento nel campo chiaro, con la maggiorparte della luce entrante bloccata all’apertura.

Mentre gli impulsi ad ultrasuoni controllano sia la rotazione che ll’andamento rettilineo dei nanomotori, i ricercatori riescono a controllarli ancora meglio e farli sterzare usando forze magnetiche. Mallouk e i suoi colleghi hanno anche visto che i nanomotori possono muoversi in maniera autonoma, ossia in maniera indipendente gli uni dagli altri: una abilità importante per future interessanti applicazioni. “Un moto autonomo potrebbe aiutare i nanomotori a distruggere selettivamente le cellule da cui vengono inghiottiti”, spiega Mollouk. “Se per esempio si vuole che questi motori individuino e distruggano cellule cancerogene è meglio che si muovano in maniera indipendente, senza che tutti quanti vadano nella stessa direzione.”

VIDEO 3

httpv://www.youtube.com/watch?v=qa_QFFopTms

Nanotubuli d’oro che si muovono lungo il bordo della membrana di una cellula HeLa.

VIDEO4

httpv://www.youtube.com/watch?v=B97KmdDPF2s

L’interazione tra i nanotubi d’oro e particelle traccianti di polistirene, e tra nanotubi d’oro e globuli rossi. Il video è stato ripreso a un ingrandimento di 500x.

L’abilità dei nanomotori di incidere su cellule viventi offre nuove promesse alla medicina, dice Mallouk.

L’applicazione che sognamo per questa tecnologia sarebbe quella di avere dei nanomotori che viaggiano all’interno del corpo, comunicando tra di loro ed eseguendo vari tipi di diagosi e terapie. Ci sono molte applicazioni per il controllo di particelle a una scala cosi piccola, e quello che ci guida è proprio capire come funzionano”.

Daniel Iversen
16 febbraio 2014