La felicità è di chi la vive, e questo sembra valere in tutto il mondo

Felice è quello che il felice lo fa, e questo vale, apparentemente, per tutti gli esseri umani del mondo. Non solo fare gli estroversi porta, in molte culture, a sentimenti positivi, ma le persone riferiscono anche di avere comportamenti più allegri quando si sentono liberi di essere se stessi.

Queste, insieme ad altre scoperte sono state pubblicate recentemente in Journal of Research in Personality, su un paper di Timothy Church, professore di psicologia di consulenza e dean associato in ricerca al College of Education of Washington State University. La ricerca è stata finanziata dalla National Science Foundation.

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“Non siamo stati i primi a mostrare che essere più estroversi nei comportamenti quotidiani può portare a stati d’animo più positivi. Siamo però, probabilmente, i primi ad aver esteso queste scoperte anche in una varietà di altre culture“, dice Church.

Studi precedenti, come un paper del 2012 di William Fleeson, professore di psicologia alla Wake Forest University nella North Carolina, hanno mostrato che negli Stati Uniti gli introversi sentono il loro livello della felicità innalzarsi quando si dedicano a comportamenti estroversi, come per esempio sorridere a un passante o telefonare ad un vecchio amico.

Incuriosito, Church volle vedere se queste scoperte erano vere anche per culture non occidentali, quindi, con l’aiuto della sua squadra. osservò il comportamento e lo stato d’animo in studenti in college negli Stati Uniti, Venezuela, Cina, FIlippine e Giappone. Usando il modelo di rilevamento della personalità chiamato “Big Five” [1] trovò che, a tutti i livelli, le persone riportarono di aver avuto maggiori emozioni positive in quelle situazioni quotidiane dove si sentirono estroversi o agirono in tal modo.

Una seconda scoperta rivelò che gli studenti si sentirono più estroversi, graditi, coscienziosi, emozionalmente stabili e più aperti in generale, in quelle situazioni dove potevano scegliere come comportarsi, piuttosto che essere pressati da situazioni esterne.

Ciascuno dei tratti di personalità del modello”Big Five” – l’estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale – è stato posto su una curva a campana, con le carattertistiche che variavano da un estremo all’altro. L’estroversione era al polo opposto rispetto all’introversione, per esempio, e la gradevolezza era all’opposto dell’antagonismo. In una giornata normale la maggior parte delle persone era situata più o meno nel mezzo.

Fino ad ora questo tipo di studi era stato condotto principalmente negli USA e in altri paesi occidentali, dove l’indipendenza e l’individualismo sono molto valorizzati.

Lo studio di Church è tra i primi a mostrare che questi risultati trascendono dalla cultura Occidentale e si possono applicare anche alle culture Asiatiche e Sud-Americane, piu orientate verso le relazioni e i gruppi..

Nel corso degli anni, Church e il suo team hanno usato il modello Big Five per investigare se i tratti della personalità avevano effetti simili sul comportamento e sullo stato d’animo in una varietà diversa di culture e fino ad ora hanno studiato persone in otto diverse nazioni , come Messico, Malaysia e Australia, e in tutte sono state documentate delle similitudini.

Globalmente gli psicologi della personalità hanno identificato similitudini in più di 60 paesi.

“Agli psicologi interculturali piace parlare di unità psichica”, dice Church. “A dispetto delle nostre differenze culturali, il modo in cui è organizzata la personalità delle persone sembra essere abbastanza comparabile nei diversi gruppi culturali. C’è anche un evidenza che mostra una base genetica nel 40 – 50 % della variazione dei tratti della personalità.”

Church sottolinea anche che mentre i tratti Big Five sembrano essere abbastanza universali, pare che le culture varino nell’espressione media di questi tratti, per esempio, alcune culture si presentano come più gregari o coscienziosi.

La nostra specie però, sia se essa si trova in Europa, Cina o Sud America, sembra valorizzare in maniera molto alta la felicità. Una veloce ricerca in Internet mostra un gran numero di articoli atti a trovare e mantenere la gioia tanto inafferrabile.

E c’è una buona ragione. Uno studio molto esauriente dell’University of Illinois, del 2011, ha visto che le persone felici tendono a vivere di più ed essere più sani rispetto ai loro coetanei tristi e cupi. Gli stati d’animo positivi aiutano a ridurre il livello di stress e rafforzare una buona risposta immunitaria, e danno addirittura una mano ad accorciare i tempi di guarigione del cuore dopo un intervento.

Le scoperte di Church indicano che essere più socievoli ed estroversi può aiutare ad incrementare il livello di felicità nella maggior parte, se non in tutte, le culture.

Similitudini nella personalità, e consci del fatto che noi umani siamo più simili diversi tra noi, possono anche ammorbidire relazioni internazionali e migliorare la comunicazione e la comprensione degli altri, fornendo anche l’abilità di prevedere il loro comportamento. E questo vale per società grandi e complesse come quella americana dove la popolazione sta crescendo e diventando sempre più diversificata.

[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Big_Five_(psicologia)
[2] http://medicalxpress.com/news/2014-04-outgoing-behavior-happier-humans.html

Daniel Iversen
18 aprile 2014

Le persone materialiste tendono ad essere più depresse ed insoddisfatte

Tutti abbiamo incontrato persone materialiste, quelli che vogliono il meglio del meglio, che sia l’ultimo smartphone o il top di una gamma di automobili. Anche quando ottengono quello che desiderano però, questi personaggi potrebbero non essere così felici. Ora una nuova ricerca indica che gli individui materialisti sono più propensi ad essere depressi e insoddisfatti nella vita.

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Secondo il team di ricerca che ha recentemente pubblicato queste scoperte online sulla rivista Personality and Individual Difference, le persone materialiste hanno più difficoltà ad essere grati di quello che hanno, cosa che li fa diventare ancora più infelici.

L’autore leader dello studio, Jo-Ann Tsang, professore associato di psicologia e neuroscienze [1] al College of Arts and Sciences alla Baylor University a Waco in Texas, spiega che la gratitudine è uno stato d’animo positivo su altre persone piuttosto che su se stessi.

“Ricerche svolte da noi ed altri mostrano che le persone sono motivate allo stesso modo ad aiutarne altre, che si riceva qualcosa in cambio oppure no ” aggiunge. “Siamo creature sociali, quindi focalizzarci sugli altri in un modo positivo fa bene alla nostra salute“.

Il team afferma che, tuttavia, le persone più materialiste tendono ad essere egocentriche. Si focalizzano di più su quello che non hanno e sono incapaci di essere grati per quello che hanno,che si tratti della famiglia, di una bella casa o di un buon lavoro.

Il tapis roulant del consumo
Per arrivare ai loro risultati i ricercatori hanno valutato 246 individui del reparto marketing di una università, dove l’età media era di 21 anni.

E’ stato chiesto a tutti di completare un questionario di 15 minuti atto a misurare il livello di materialismo, di gratitudine, il grado di soddisfazione dei bisogni e il benessere.

Come previsto i risultati hanno constatato che chi ha valutato il livello di gratitudine con un voto basso ma aveva un alto grado di soddisfazione dei bisogniera anche anche più propenso ad essere materialista e meno soddisfatto nella vita.

Il co-autore James Roberts, della Hankamer School of Business alla Baylor University, dice che il motivo per cui i beni materiali non sono uguali a felicità, dipende dal fatto che siamo capaci di adattarci presto alle nuove situazioni.

Accumulando sempre più beni non diventiamo più felici, spostiamo solo il nostro punto di riferimento“, dice, aggiungendo che:

“La nuova casa di 300 metri quadrati che avete comprato diventa la base dei vostri desideri per una casa ancora più grande. E’ chiamato “Treadmill of Consumption” (il “Tapis roulant del cosumo”): continuiamo a comprare sempre più roba ma non ci avviciniamo per niente alla felicità, aumentiamo semplicemente la velocità del tapis roulant.

Ricerche precedenti avevano mostrato risultati simili. Nel 2011, uno studio pubblicato dal Journal of Happiness Studies [2] rivelò che livelli alti di gratitudine e bassi livelli di materialismo negli adolescenti erano associati con una più alta soddisfazione della vita, integrazione sociale e livelli più bassi di invidia e depressione.

I ricercatori concludono nel dire che forse la citazione del filosofo greco Epicuro era giusta, quando disse: “Non bisogna rovinare il bene presente col desiderio di ciò che non si ha, ma occorre riflettere che anche ciò che si ha lo si è desiderato. Niente basta a chi non basta ciò che è sufficiente. La scontentezza dell’anima porta l’uomo a desideri eccessivi.

Nel 2011 inoltre, la rivista Medical News Today riportò uno studio che vide una correlazione tra materialismo e rapporti di coppia danneggiati [3].

[1] http://www.medicalnewstoday.com/articles/248680.php
[2] http://link.springer.com/article/10.1007%2Fs10902-010-9195-9
[3] http://www.medicalnewstoday.com/articles/235952.php

Daniel Iversen
13 aprile 2014

Quasi la metà delle nuove fonti energetiche installate nel mondo sono pulite

C’è molta energia pulita all’orizzonte. Almeno metà della nuova generazione energetica è rinnovabile, e i costi dell’energia solare ed eolica stanno cadendo bruscamente.

Questa notizia dovrebbe dare fiducia ai governi nello strigere degli accordi più forti riguardo al clima, il prossimo anno, afferma Achim Steiner, direttore del “United Nations Environment Programme (UNEP).

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Ciò avviene una settimana prima della valutazione, da parte dell’IPCC, di come affrontare ed evitare un pericoloso cambiamento climatico, sottolineando l’importanza della rapida conversione alle rinnovabili.

L’ultimo Global Trends in Renewable Energy Investment [1], pubblicato dalla UNEP, rivela che il 44 per cento di tutta la capacità installata l’anno scorso nel mondo era rinnovabile. Questo nonostante ci sia stato un calo del 14 % nell’investimento sulle rinnovabili e in generale sulla nuova energia elettrica.

Le politiche della green energy però cambiano velocemente.

La Cina ora è il leader mondiale in questo campo, dopo aver superato l’Europa. L’anno scorso ha investito 56 miliardi di dollari in energia verde.

La bolla delle rinnovabili sembra essere scoppiata in un Europa a corto di liquidità, essendo stata all’avanguardia in questo settore per oltre un decennio. Il continente ha tagliato gli investimenti del 44 per cento.

L’unica grande eccezione è stato il Regno Unito, che ha aumentato gli investimenti del 12 per cento nonostante il malcontento nel partito conservatore al governo. Per la prima volta, l’Inghilterra ha speso più della Germania, con in testa progetti come il parco eolico gigante di Westermost Rought.

Sono saliti anche gli investimenti da parte del Giappone, in aumento del 80 per cento. Questo grazie a una corsa per l’installazione di pannelli solari [2] dopo la distruzione delle centrali nucleari del disastro di Fukushima 2011.

Le rinnovabili hanno evitato l’emissione di 1,2 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio (CO2) nel 2013, dice l’autore Ulf Moslener, della Frankfurt School of Finance & Management in Germania. Oltre alle dighe idroelettriche, il contributo maggiore viene dato dai pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche onshore.

Il costo di produzione dell’energia solare è caduta del 25% dal 2009, e nello stesso periodo quello di produzione dell’eolica è scesa del 53%. Come risultato abbiamo un gran numero di questi progetti in costruzione senza bisogno di sussidio.

In più i prezzi delle azioni nelle compagnia di energia pulita, in caduta fin dall’inizio della recessione globale, sono aumentati del 54% lo scorso anno.

[1] http://fs-unep-centre.org/publications/global-trends-renewable-energy-investment-2014
[2] http://www.newscientist.com/article/mg21528764.800-japan-could-become-second-biggest-solar-power-nation.html

Micro generatori alimentati a saliva

Microcelle a combustibile microbico, alimentate a saliva, sono in grado di produrre quantità di energia sufficienti per eseguire applicazioni on-chip, questo secondo un team internazionale di ingegneri.

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Bruce E. Logan, professore alla Enviromentel Engineering in Pennsylvania, USA, ha accreditato l’idea della sua collega ricercatrice Justine E. Mink. “L’idea è stata sua, visto che stava pensando a un tipo di sensori adatti al monitoraggio del glucosio nei diabetici e si chiese se si potesse usare una cella a combustibile microbico”, spiega Logan, aggiungendo: “C’è parecchia roba organica nella saliva.”

Le celle a combustibile microbico creano energia nel momento che i batteri scindono materiale organico producendo una carica, che viene poi trasferita all’anodo. Logan, che ha studiato questo tipo di celle per più di dieci anni, usa abituamente l’acqua di rifiuto come fonte, sia di materiale organico che di batteri, per creare elettricità e idrogeno. I micro dispositivi di cui stiamo parlando però, sono un pò diversi.

“Producendo circa 1 microwatt di potenza, questi microgeneratori alimentati a saliva generano abbastanza energia da essere direttamente usati come un “racimolatori di energia” [1] per applicazioni microelettroniche”, riportano gli scienziati nell’ultimo numero di Asia Materials, del gruppo di Nature Publishing.

I ricercatori pensano che l’arrivo di chip elettronici biomedici, a bassissimo consumo, capaci di operare con output inferiori ai microwatt, stia diventando realtà.

Una delle possibili applicazioni per questa tecnologia potrebbe essere per esempio un piccolissimo predittore dell’ovuluzione che si basa sulla conduttività della saliva della donna, che cambia cinque giorni prima dell’evulazione. Il dispositivo misurerebbe questo valore e poi userebbe la stessa energia della saliva per inviarne la lettura a uno smartphone nelle vicinanze.

Questi dispositivi biomedici funzionanti a minuscole celle a combustibile microbico avranno la loro risorsa energetica disponibile ovunque e pertanto potranno essere portatili. La saliva tuttavia non ha il tipo di batteri necessari per le celle a combustibile, e i costruttori dovrebbero aver bisogno di inoculare nel dispositivo dei batteri dall’ambiente naturale.

In passato le celle più piccole dovevano essere a due camere, a differenza di questa micro versione che utilizza una sola camera con anodo rivestito di tessuto di carbonio, invece che di platino, e un catodo ad aria.

Questo tipo di catodo non è stato utilizzato prima perché se l’ossigeno in qualche modo riesce ad arrivare ai batteri, questi lo possono respirare, smettendo di produrre elettricità.

“Abbiamo sempre evitato di usare catodi ad aria in questi sistemi per evitare la contaminazione di ossigeno negli elettrodi posti molto vicini” dice Logan. “Tuttavia queste micro celle operano a distanze di livello micron tra gli elettrodi. Non capiamo pienamente come mai, ma, la cosa più importante è che funzioni.”

L’anodo è composto di grafene, un nanomateriale di carbonio. Altre celle a combustibile microbico hanno funzionato con ossido di grafene, i ricercatori però hanno visto che anche un multistrato di grafene puro può funzionare da ottimo materiale per l’anodo.

Mentre i ricercatori per il momento stanno testando queste celle con acetato e saliva umana, può essere utilizzato qualsiasi liquido con materiale organico sufficiente.

Il primo autore di questo paper è Justin E. Mink, Ph.D alla King Abdullah University of Science and Technology. Hanno lavorato a questo progetto anche Muhammad M. Hussain, assistente universitario, e Ramy M. Qaisi, studente laureato alla KAUST.

[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Energy_harvesting
[2] http://news.psu.edu/story/310362/2014/04/03/research/tiny-power-generator-runs-spit

Daniel Iversen
7 aprile 2014

Stampare 3D in casa non solo è meno costoso, ma è anche più ecologico

Stampare con le stampanti 3D non è solo più economico, ma è anche più “green”, spiega Joshua Pearce della Michigan Techological University.

Sebbene sia un fan di questa avveniristica tecnologia, libera e fai-da-te, anche lui è rimasto sorpreso dai risultati di questo studio.

Si evince che creare oggetti con una stampante 3D consuma meno energia, e per questo rilascia meno CO2 di quanto non si faccia per produrli in massa in una fabbrica e spedirli nei negozi.

Una delle tante stampanti 3D Open Source della serie "RepRap": una Prusa Mendel.
Una delle tante stampanti 3D Open Source della serie “RepRap”: una Prusa Mendel.

La maggior parte delle stampanti 3D per uso domestico, come la RepRap usata per questo studio, sono delle grandezza di un forno a microonde. Funzionano sciogliendo un filamento, di solito plastica di vario tipo, e depositandolo strato su strato in una forma specifica. Su Thingiverse.com sono disponibili migliaia di disegni di oggetti già fatti (e volendo, modificabili).

Il senso comune ci direbbe che la produzione in serie dovrebbe consumare meno energia, per unità, di quanto non faccia una stampante 3D, o, come dice Pearce: “E’ più efficiente sciogliere oggetti in una caldaia che in una provetta.” . Tuttatavia il suo gruppo ha visto che è effettivamente più ecologicamente sostenibile produrre le cose a casa propria.

Hanno visto che, creare gli oggetti in questo modo, ha portato a un risparmio dal 41 al 64% sul consumo energetico totale, di quanto non ne sarebbe servito per produrli in una fabbrica e poi spedirgli negli States.

Parte del risparmio deriva dall’uso di meno materiale gresso. “I mattoncini dei bambini sono fatti normalmente con legno o plastica solida,” dice Pearce, professore associato di scienze dei materiali, e ingegneria elettrica e informatica.

I mattoncini stampati in 3D possono essere parzialmente o completamente cavi, necessitando molta meno plastica.

Il team di Pearce ha poi continuato ad analizzare due dei filamenti di plastica più comunemente usati per la stampa 3D, incluso l’acido polilattico (PLA). Questo materiale è fatto con risorse rinnovabili, come amido di mais, rendendola una alternativa più sostenibile alla plastica fatta col petrolio. Sono anche state fatte delle analisi su prodotti stampati con printers alimentate dal sole, cosa che ha fatto scendere ulteriormente l’impatto ambientale del processo.

La linea di fondo è che possiamo ottenere delle sostanziali riduzioni della CO2 creandoci le cose a casa“, spiega Pearce. “E i costruttori fai-da-te saranno motivati a fare la cosa giusta usando meno energia perché costa di meno creare oggetti con la stampante 3D che comprarli su Internet o prenderli da uno scaffale di un negozio.”

Un rapporto sul loro lavoro, che si intitola “Environmental Life Cycle Analysis of Distributed 3D Printing and Conventional Manufacturing of Polymer Products“, è in stampa sulla rivista ACS Sustainable Chemistry and Engineering. Il co autore è Megan Kreiger, con un master in scienza dei materiali e ingegneria.

I lavori meno recenti di Pearce sul basso costo della stampa 3D sono descritti nel comunicato stampa di Michigan Tech “Make it Yourself and save – a Lot – with 3D printers“.

– http://www.mtu.edu/news/stories/2013/october/story97966.html
– http://pubs.acs.org/doi/pdf/10.1021/sc400093k
– http://www.mtu.edu/news/stories/2013/july/story93519.html

Daniel Iversen
4 aprile 2014

Melme policefale usate come chip informatici

I computer del futuro potrebbero presto diventare viscosi e melmosi, un po’ diversi insomma dei dispositivi al silicio che abbiamo oggi.

Sulla rivista Materials Today alcuni ricercatori europei rivelano i dettagli di unità logiche create usando muffe melmose viventi (le cosidette “melme policefale”), che potrebbero agire come mattoni per costruire sensori e dispositivi informatici.

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Questo sistema di circuiti logici che sfruttano reti fatti di tubi interconnessi di melme policefaliche con lo scopo di elaborare informazioni, è stato sviluppato da Andrew Adamatzky (University of the West of England, Bristol, UK) [1] e da Theresa Schubert (Bauhaus-University Weimar, Germany).

E’ sicuramente più semplice trovare tali organismi, in questo caso della specie Physarum polycephalum , in qualche luogo buio e umido, piuttosto che in un laboratorio di informatica.

Nel suo stadio vegetativo (o “plasmodio”) questa muffa estende nel suo ambiente una rete di tubicini che assorbono i nutrienti, tramite i quali l’organismo può anche reagire alla luce e alle mutate condizioni ambientali che innescano il rilascio delle spore riproduttive.

In alcuni lavori precedenti la squadra aveva dimostrato che tale rete di tubi può trasportare diverse tinture colorate. Con l’utilizzo di nutrienti come fiocchi d’avena, e stimoli repellenti, come la luce o il calore, gli scienziati sono riusciti a dirigere e controllare la crescita dei tubi, facendo formare alla melma una struttura a rete molto particolare.

Hanno poi dimostrato come questo sistema possa mescolare due coloranti per creare un terzo colore che fungerebbe da “output”.

Implementando delle nanoparticelle nei coloranti e usando piccole perline fluorescenti, il team è riuscito a usare la rete formato da questo organismo come un piccolo laboratorio posto su di una sorta di dispositivo a chip biologico. Questo potrebbe rappresentare un nuovo modo di costruire dispositivi microfluidici per l’elaborazione di campioni ambientali o medici su scala molto ridotta, per test e diagnosi.

Reti molto più ampie potrebbero essere in grado di elaborare nanoparticelle ed eseguire sofisticate operazioni di logica booleana del tipo usato dai circuiti informatici. Il team ha finora dimostrato che la rete di melma policefala è in grado di effettuare operazioni booleane in XOR oppure NOR.

La concatenazione delle matrici di porte logiche di questo tipo potrebbe permettere ai computer melmosi di effettuare operazioni di calcolo binario.

“Le porte in melma policefala non sono elettroniche, sono semplici e poco costose. Inoltre possono esser realizzate più porte contemporaneamente nelle zone di fusione dei tubi protoplasmatici”, concude Asamatzky e Schubert.

Stiamo entrando nell’era dei computer biologici ? L’editore di “Materials Today”, Stewart Bland, crede che “anche se i materiali dell’elettronica più tradizionali sono qui per restare, ricerche come queste ci aiutano a sconfinare un po’ nella scienza dei materiali, della biologia e informatica, e ciò rappresenta un prospettiva eccitante per il futuro.”

La ricerca è stata effettuata in un quadro del Progetto FP7 EU “Physarum Chip” (Computing Unconventiona Programl).

[1] http://arxiv.org/pdf/1403.4795.pdf

Daniel Iversen
1 aprile 2014

Il possibile collegamento tra ossitocina e dipendenze

Le dipendenze, come quella alla droga o all’abuso di alcool, potrebbero essere associate ad un basso sviluppo, durante la prima infanzia, del sistema dell’ormone ossitocina, il cosidetto “ormone dell’amore”. Questo secondo uno studio effettuato all’Universiy of Adelaide.

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Questa nuova idea nasce da una revisione di una ricerca mondiale sull’ossitocina, sostanza conosciuta come “ormone del’amore” o “droga dell’affetto”, visto il suo importante ruolo nel favorire le interazioni sociali, il comportamento materno e quello di coppia.

L’edizione speciale di questo mese della rivista internazionale “Pharmacology Biochemistry and Behavior” affronta lo stato attuale della ricerca che collega l’ossitocina alle dipendenze, con, come editore speciale, la dottoressa Femke Buisman-Pijlman della School of Medical Sciences della University of Adelaide.

Con un background in entrambi i campi di studi, quelli sulle dipendenze e quelli famigliari, asserisce che la mancanza di resilienza nei comportamenti di dipendenza potrebbe essere collegato a un cattivo sviluppo dei loro sistemi ossitocinici.

“Sappiamo che i bambini appena nati hanno già dei livelli di ossitocina nei loro corpi che li aiuta a creare l’importantissimo legame madre-figlio. I sistemi ossitocinici invece non sono pienamente formati alla nascita, e continuano a svilupparsi fino all’età di 3 anni. Questo vol dire che in questo periodo di vita sono potenzialmente soggetti a una schiera di influenze, sia interne che esterne“, spiega la dottoressa Buisman-Pijlman, aggiungendo che il sistema ossitocinico si sviluppa in gran parte in base alle esperienze.

“Ricerche precedenti hanno visto che c’è una grande variabilità nei livelli di questo ormone nelle persone. Noi siamo interessati nel perché e in che modo le persone abbiano queste differenze, e che cosa possiamo fare per fornire un impatto benefico sulla loro salute e stato di benessere”, dice.

La dottoressa spiega inoltre che esistono già alcuni studi che mostrano alcuni fattori rischio per la dipendenza alle droghe intorno ai quattro anni di età. “E visto che l’hardware del sistema dell’ossitocina finisce di svilupparsi nel nostro corpo intorno ai 3 anni, potrebbe essere una finestra di studio critica. L’ossitocina può ridurre il piacere dato dalle droghe e la sensazione dello stress, ma solo se il sistema si sviluppa nel modo appropriato.”

La sua teoria è che lo sviluppo del sistema ossitocinico può compromettersi con la comparsa di avversità troppo presto nella vita di un bambino e che possono avvenire sotto forma di parto difficile, legami difficoltosi o abusi, privazione e gravi infezioni, giusto per nominarne alcune.

Capire cosa avviene con il sistema ossitocinico durante i primi anni di vita potrebbe aiutarci a capire alcuni aspetti delle dipendenze e darci maggiore conoscenza per il trattamento e la loro prevenzione” .

Daniel Iversen
29 marzo 2014