Quando muore una balena…

Scritto da:
Ubaldo Betocchi
Durata:
1 minuto

Tutti noi conosciamo molto bene i cetacei e i loro comportamenti: sappiamo che sono ottimi nuotatori, che possono immergersi a grandi profondità per lunghi periodi, che “saltano” o “sbuffano” per respirare, oppure sono tristemente famosi per la caccia che l’uomo ha sempre dato loro per trarne profitto o semplicemente sussistenza portandoli quasi all’estinzione. Ma cosa succede ad un cetaceo di grandi dimensioni quando la morte arriva per cause naturali? Molti sicuramente saranno portati a dire che una balena morta si spiaggia e diventa per qualche tempo una sorta di attrazione da circo o un’opportunità di studio per esperti del settore…ma non è sempre così. Anzi, la maggior parte delle volte questo non succede! Provate a pensare a quante balene, balenottere, megattere, delfini, orche (e chi più ne ha più ne metta) solcano ogni giorno i mari di tutto il mondo…se tutti questi animali, una volta morti, si spiaggiassero non avremmo più un centimetro libero per piantare un ombrellone. Quello che succede ad una balena di grandi dimensioni quando muore è ben altro: solitamente la sua carcassa affonda e si adagia sul fondale con ancora la maggior parte dei tessuti molli quasi intatti. I resti dell’animale immettono nell’ambiente una gran quantità di materiale organico che può giocare un ruolo insolito all’interno di un ecosistema marino, perché oltre alle normali faune di fondale, l’ambiente si arricchisce di alcuni organismi, altamente specializzati, che riescono a sfruttare questa risorsa. Recenti studi su carcasse di balene attuali affondate ad elevate profondità (Smith & Baco 2003; Smith 2006) suggeriscono che le risorse associate a questi corpi sono sfruttate attraverso quattro stadi ecologici successivi:
1) Una fase di “spazzini mobili” in cui animali necrofagi, pesci ed invertebrati, rimuovono velocemente il tessuto molle della balena. Questa fase può durare dai 7 a 11 anni.
2) Una fase di arricchimento dominata da opportunisti durante la quale si radunano intorno allo scheletro, ricco di lipidi, batteri ed invertebrati eterotrofi. Può durare da 2 a 5 anni.
3) Stadio sulfofilico, durante il quale batteri chemioautotrofi colonizzano lo scheletro ed emettono solfuri dalla decomposizione anaerobica dei lipidi interni. Su questa produzione di solfuri possono svilupparsi da tre a cinque livelli trofici (es. batteri, consumatori primari, consumatori secondari e spazzini). Può durare dai 40 agli 80 anni.
4) Stadio di scogliera, durante il quale ciò che rimane dello scheletro, sopraelevato dal fondale, è colonizzato da organismi sospensivori che da posizione rialzata sfruttano meglio le correnti. In questo stadio la fauna associata utilizza lo scheletro indipendentemente dal contenuto organico delle ossa e fintanto che queste ultime hanno una posizione rilevata rispetto al fondo.
In questi quattro stadi c’è una grande abbondanza di organismi che sfruttano in periodi successivi quello che il resto di un cetaceo può ancora offrire. La conoscenza di questi particolari ecosistemi è tuttavia documentata solo su fondali che superano i 1000 metri di profondità, mentre a tutt’oggi non esistono prove dirette di cosa succeda in condizioni di piattaforma continentale. Un aiuto per sciogliere questo interrogativo arriva dalla paleontologia, perché molte faune associate alle carcasse hanno un esoscheletro mineralizzato o lasciano tracce del loro passaggio. In un ambiente favorevole alla conservazione, tracce e parti dure possono entrare a far parte del record fossile. Il ritrovamento e il recupero di uno scheletro fossile pressoché intatto di un misticete lungo circa 10 m presso Orciano Pisano, entro una successione pliocenica (circa 4 milioni di anni fa) di ambiente di piattaforma (batimetria stimata tra i 100 e i 200 metri) ha permesso di ricostruire il paleoambiente prima e dopo la “caduta”. Per far questo sono stati raccolti dati sia sui sedimenti inglobanti il fossile, che nei livelli precedenti all’evento per avere un termine di confronto. L’analisi dei dati delle due diverse associazioni a molluschi ha consentito di verificare la sostanziale somiglianza tra le due comunità. Questi risultati, sebbene possano sembrare in disaccordo con quanto detto in precedenza, rispecchiano in realtà un ambiente ricco di materia organica, a prescindere dalla presenza di una carcassa di grosse dimensioni, tipico di acque non molto profonde. La situazione documentata negli ambienti profondi invece è diametralmente opposta poiché la materia organica che riesce ad arrivate è pochissima, quindi un apporto consistente (e puntiforme) permette l’instaurarsi di una comunità specializzata allo sfruttamento di tale risorsa. Tale studio ha permesso di capire quindi che in qualsiasi situazione la WFC va incontro alla tipica successione ecologica descritta in precedenza, tuttavia quella di acque basse è rappresentata da una maggiore ricchezza specifica, tipica degli ambienti di piattaforma, e dall’assenza di molluschi chemiosimbiotici specializzati caratteristici invece degli ambienti riducenti profondi.

Ubaldo Betocchi